Dramma statunitense diretto da Ramin Bahrani, La tigre bianca è un adattamento del omonimo best seller di Aravind Adiga pubblicato nel 2008. Un’epica storia di riscatto che da sfoggio di un umorismo tetro ma puntuale nel descrivere le contraddizioni dell’India di oggi, tra corruzione e povertà.
Al centro, l’atavica lotta tra padrone e servitore. L’ambizioso autista (Adarsh Gourav) di una ricca coppia (Priyanka Jonas e Rajkummar Rao) da fondo a tutta la sua astuzia e al suo ingegno per recidere le catene della casta e diventare l’imprenditore di successo che ha sempre sognato di essere.
Quando conosciamo Ashok, è già il ricco fondatore di una startup di Bangalore, “onesto e corrotto, cinico e credente, subdolo e sincero“ come, secondo lui, ogni bravo uomo d’affari indiano dovrebbe essere. La storia che racconta in una lettera indirizzata al primo ministro cinese, rivela una genesi e dei retroscena tutt’altro che scontati. Espediente narrativo ingegnoso per evitare la narrazione lineare, introduce la voce e i ficcanti commenti fuori campo del protagonista. Nato in un piccolo villaggio nel nord dell’India con il nome di Balram, a scuola è uno studente brillante come pochi, un unicum, o “una tigre bianca” come dice la tradizione. Difronte alla promessa di una borsa di studio, la difficile economia familiare lo costringe ad abbandonare ogni ambizione ed entrare in quella che egli definisce la “stia per polli”. Calzante metafora per descrivere la sudditanza dei molti ai pochi agiati della casta alta.
Ma Balram è pur sempre una tigre bianca, il suo povero rango non coincide con i sogni che coltiva. Riuscito a mettersi alle dipendenze di una ricca famiglia, inizia la sua turbolenta e improbabile scalata sociale. Deciso a riscattarsi, assetato di vendetta per i soprusi subiti in quanto servo, riesce ad ingraziarsi il figlio del padrone nonché membro della famiglia dedito ai rapporti con la classe dirigente. Il giovane rampollo viene periodicamente inviato a Delhi per consegnare mazzette, questa volta porterà con sé il suo nuovo autista. Colta l’occasione del grosso ingaggio, l’astuto servo arriverà a contemplare l’atto più efferato pur di raggiungere i suoi scopi, perché “per i poveri c’è solo un modo per arrivare in alto: i crimini o la politica”.
Un racconto di resilienza, rinascita ma anche spietatezza e bassezza morale manifeste in entrambe le parti, padroni e servitori. Con un po’ di humor nero, traccia l’identikit di una lotta di classe tutta indiana, offrendo spunti su alcuni dei nodi del nostro presente. “L’America è il passato. L’India e la Cina il futuro” dice il protagonista, l’oggi sembra dargli ragione.