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Tag: stefano bisi

Basilicata coast to coast come Rocco Papaleo

Ricordate il film “Basilicata coast to coast” del 2010 con la regia di Rocco Papaleo, lucano doc? Ecco, quel film ha ispirato un viaggio di otto giorni per 167 chilometri attraverso tredici paesi di una regione che ancora non è stata scoperta dal turismo di massa e di cui parla Artribune.

Grazie all’impegno di tre società di scopo pubblico-private (il Gal Basilicata, il Gal Start 2020 e il Fag Coast to Coast) e con il supporto della Regione Basilicata e dei Consorzi di bonifica, è maturata l’iniziativa Basilicata coast to coast che mutua il nome dal film per accompagnare i turisti in un viaggio lento alla scoperta della regione bagnata da due mari, il Tirreno e lo Ionio, ripercorrendo le avventure della sgangherata band lucana interpretata al cinema da Papaleo stesso con Alessandro Gassman, Paolo Briguglia e Max Gazzè. 

Il film ha ispirato un itinerario di 167 chilometri attraverso tredici paesi lucani

Dopo il film “in molti si sono recati in Basilicata con l’idea di ricalcare le tappe del film, in assenza però di un percorso tracciato, nonostante i numerosi tentativi per realizzarlo da parte di associazioni e realtà locali” dice Artribune. Ora da costa a costa si può andare con viaggi organizzati. Importante indossare scarpe comode e avere tanta buona volontà oltre che un po’ di allenamento nelle gambe.

Stefano Bisi

Se perdo la colpa non è dell’elettricista

Ci sono personaggi dello sport, della politica e della musica che dopo le sconfitte rimangono in silenzio. Non parlano, non spiegano. Perché? Si può comprendere il dispiacere per una sconfitta bruciante ma è consigliabile tener presente alcune massime di Julio Velasco, il commissario tecnico della nazionale di pallavolo femminile che ha vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Parigi. “Chi vince festeggia, chi perde spiega” dice uno che di vittorie se ne intende. Velasco, appunto. E a chi gli ha chiesto, prima dell’oro con il volley donne, se è stato contento delle sconfitte rispondeva così: “Sono orgoglioso della squadra che ha vinto Mondiali ed Europei, ma sono altrettanto orgoglioso della squadra che ha perso le Olimpiadi di Barcellona. Per un motivo: perché abbiamo saputo perdere. Non abbiamo dato la colpa a un qualche fattore esterno. Abbiamo riconosciuto che l’avversario era stato più bravo di noi, punto e basta”. 

Le giustificazioni per le nostre sconfitte non vanno cercate fuori da noi

Ammettere che qualcuno è stato più bravo, che si è preparato meglio, è dura ma anche in questo caso ci viene in soccorso Velasco: “L’attaccante schiaccia fuori perché la palla non è alzata bene. A sua volta l’alzatore non è stato preciso per colpa della ricezione. A questo punto i ricettori si girano a guardare su chi scaricare la responsabilità. Ma non possono chiedere all’avversario di battere facile, di modo da ricevere bene. Così dicono di esser stati accecati dal faretto sul soffitto, collocato dall’elettricista in un punto sbagliato. In pratica, se perdiamo è colpa dell’elettricista”. Velasco a sportivi, politici, cantanti che perdono ha fornito un consiglio da non seguire: dare la colpa all’elettricista.

Stefano Bisi

Gli anziani che vanno in pensione non favoriscono i giovani

Le pensioni e la loro incessante riforma. Ne parla l’ex presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua in un articolo sulla rivista Espansione ma tutto questo fervore previdenziale è destinato a fare ombra al problema dei problemi: l’accesso dei giovani al mercato del lavoro. “Si badi bene – ammonisce Mastrapasqua – che anche tecnicamente il lavoro dei giovani è la condizione preliminare per ogni ragionevole dibattito sul futuro previdenziale, ma le questioni restano nella sostanza ben separate, come materia da riservare a target elettorali distinti e distanti. Uno che ancora vota, un altro che mostra una confidenza inesistente con le urne. Tra il lavoratore over 55 anni, che spera di intravvedere la pensione nell’arco di pochi anni (e intanto vota), e il lavoratore under 35 anni che ritiene persino inutile parlare di previdenza (e intanto vota sempre di meno) non c’è nessun nesso naturale, se non quello che la Politica con la P maiuscola è in grado di costruire”.

L’ex presidente dell’Inps parla della tanto invocata riforma previdenziale

Per Mastrapasqua “il ritiro dal lavoro non crea nuovi posti. Lo si è detto e lo si è capito, ma ci sono ancora quelli che fingono di non sapere. Il ponte da creare tra questi lavoratori separati da almeno vent’anni di vita è fatto di progetti seri di formazione, di apprendistato, di cuneo fiscale da ridurre drasticamente, di liberalizzazione e semplificazioni del mercato del lavoro, di fiducia nelle opportunità offerte dalle agenzie (private) del lavoro, a fronte del fallimento continuo dei Centri (pubblici) per l’impiego”.

“Il timore invece è che né le nuove rivendicazioni sindacali per il prossimo autunno, né le ricette più smart del Cnel di Brunetta, oseranno affermare che il re è nudo: non c’è futuro previdenziale se non si mette mano a una riforma seria e organizzata del mercato del lavoro, in cui l’accesso dei giovani venga favorito e aiutato non con i soliti bonus, ma con coraggiose modifiche dell’esistente” conclude Mastrapasqua.

Stefano Bisi

Metti da parte le emoticon e riscopri le emozioni

Si sono messe da parte le emozioni e le abbiamo sostituite con le emoticon e, come si dice nelle campagne toscane, “abbiamo fatto una bella chiappa”. La pensa così Vittorio Feltri che in un articolo sul “Giornale” ha scritto che “siamo schiavi delle app, dei tablet, dei cellulari. Erano stati fatti per l’uomo e l’uomo ha finito con l’essere fatto per loro, avendo rinunciato alla propria umanità per sposare lo spirito di questo nuovo millennio, in cui il sesso si fa virtuale, gli appuntamenti si danno online, le riunioni si fanno tramite skype o qualcosa del genere, ci si lascia via sms, ci si incontra sulle chat a questo deputate, un nuovo millennio in cui le storie d’amore hanno la durata di una storia di Instagram, la quale mi pare duri 24 ore al massimo, e in cui, anziché condividere momenti insieme, condividiamo post su Facebook”. Come dargli torto?

Consiglio di Vittorio Feltri: “Posa il telefonino e solleva lo sguardo”

“Per le emozioni non c’è spazio alcuno, ma abbiamo le emoticon, ovvero le faccine, che ci servono soltanto per chiudere conversazioni noiose o scomode o per eludere domande e richieste” aggiunge Feltri che poi dà un consiglio.

“Per connetterci con l’altro è indispensabile disconnetterci dalla rete, deporre il cellulare, sollevare lo sguardo, accorgerci di ciò che ci sta davanti. Almeno prima di perderlo per sempre”. Consiglio saggio.

Stefano Bisi

I fumetti per ricordare la liberazione di Firenze

Anche i fumetti servono per non dimenticare. Così un gruppo di giovani illustratori dell’Accademia delle Belle Arti ha preparato 50 tavole illustrate per raccontare la Battaglia di Firenze, quando l’11 agosto del 1944 la città venne liberata dal nazifascismo. Erano le sette del mattino e i rintocchi della campana di Palazzo Vecchio, la Martinella, richiamarono i fiorentini. A ottant’anni di distanza un gruppo di studenti ha fermato su carta i fatti salienti che condussero Firenze alla libertà.

Cinquanta tavole preparate dagli studenti dell’Accademia delle Belle Arti

Dal bombardamento degli alleati a Campo di Marte avvenuto il 25 settembre del 1943, alla cerimonia di ringraziamento del 7 settembre 1944 alla Fortezza da Basso, quando le formazioni partigiane furono ufficialmente sciolte. E poi i giorni decisivi tra centinaia di morti e la paura dei franchi tiratori, il fallito attentato al Caffè Paszkowski, gli eccidi nazifascisti a Campo di Marte e piazza Tasso, la distruzione dei ponti sull’Arno. Poco più di 50 tavole per uno spaccato di storia raccontata in punta di matita con i suoi martiri, eroi ed eroine – fra tutti la partigiana Tosca Bucarelli -, i suoi carnefici e gli spietati aguzzini come i balordi della Banda Carità. I luoghi, ora carichi di memoria, come la Villa Triste al 67 di via Bolognese dove i nazifascisti erano soliti condurre le loro aberranti torture e prigionie. Il civico 12 di piazza d’Azeglio, sede della mitica radio Cora.


Non mancano citazioni agli enormi sforzi compiuti per salvaguardare l’immenso patrimonio artistico e culturale della città con le opere d’arte protette come meglio si poteva dagli attacchi. Una fra tutte il David di Michelangelo incapsulato in una costruzione di mattoni e cemento a forma di ogiva, i monumenti che in guerra cambiavano volto come Palazzo Pitti, trasformato in luogo di accoglienza per centinaia di sfollati. Tutte le tavole confluiranno in una graphic novel in uscita per Libri Liberi – testi di Maria Venturi – all’interno della collana “Memorie ritrovate/Fumetti”.

Stefano Bisi

Via i raccattapalle, sparisce un pezzo del calcio leggendario

“Ne hanno combinata un’altra. Chi e che cosa?” si domandano al bar dello sport sotto casa. Nella serie A che inizia sotto ferragosto non ci saranno i rattaccattapalle e così se ne va un altro pezzo del calcio che abbiamo amato.

I ragazzini, furbi e appassionati, che venivano scelto tra le squadre giovanili per recuperare il pallone finito in fallo laterale saranno sostituiti da coni di designer come già accade in Inghilterra. Ce ne saranno sei sul lato delle panchine, cinque su quello opposto. Mentre i raccattapalle saranno ancora d’aiuto ai portieri per le rimesse dal fondo. 

Quella volta che Domenico si sostituì al palo e lasciò di stucco Savoldi

Meno male che ci hanno lasciato almeno questi anche se con Var e telecamere ovunque sarà difficile che si ripeta quello che avvenne il 12 gennaio 1975 nella partita Ascoli-Bologna ad opera di Domenico Citeroni: “Savoldi tira, la palla supera la riga, ma io sono vicino al palo e con un calcetto la ributto in campo. Filo a casa senza dir nulla a nessuno e mi metto a letto senza neppure aspettare la Domenica Sportiva”. Sapeva di averla fatta grossa ma da quel giorno Domenico è il Re dei Raccattapalle.

Stefano Bisi

Da Viggiano a Melbourne con il contributo economico del Comune

Non capita tutti i giorni di leggere la notizia che il sindaco annuncia ai suoi concittadini che il Comune erogherà un contributo economico a chi andrà a trovare i parenti dall’altra parte del mondo. Accade a Viggiano, paese di 3200 abitanti in provincia di Potenza che ospita una centrale dell’Eni per l’estrazione del petrolio, sindaco è Amedeo Cicala. E’ un paese di migranti tanto che c’è un vecchio ritornello che dice “con l’arma al collo son viggianese, tutto il mondo è mio paese” e il primo cittadino vuol costruire un ponte tra Viggiano e Melbourne in Australia.

In occasione dell’Anno del Turismo delle Radici, il Comune ha deciso di organizzare un viaggio straordinario a Melbourne. Questa iniziativa mira a rafforzare i legami tra i viggianesi residenti in Italia e quelli emigrati in Australia.

Il paese lucano con lo stabilimento dell’Eni organizza il viaggio in Australia

“La comunità viggianese è particolarmente significativa – dice il sindaco -. Molti dei nostri concittadini hanno lasciato la patria alla ricerca di nuove opportunità, ma non hanno mai dimenticato le loro radici. Il viaggio a Melbourne consentirà ai partecipanti di immergersi nella realtà di questi emigrati, che continuano a mantenere vivo il legame con Viggiano e l’Italia nonostante la distanza di migliaia di chilometri”.

Aggiunge il sindaco: “Il viaggio servirà non solo a rinsaldare i rapporti familiari e amicali tra i viggianesi di Melbourne e quelli residenti a Viggiano, ma anche a scoprire come la nostra cultura è stata preservata e trasformata in un contesto diverso”.

Il Comune contribuirà alle spese di viaggio, riconoscendo l’importanza sociale, storica e identitaria di questa iniziativa.

Stefano Bisi

Si sposano i Bronzi di Riace con quelli di San Casciano dei Bagni

Matrimonio tra i Bronzi di Riace e quelli di San Casciano dei Bagni. Dopo le mostre al palazzo del Quirinale a Roma ed al Museo archeologico nazionale di Napoli, approdano a Reggio Calabria, nella casa delle statue ritrovate a Riace, i bronzi di San Casciano dei Bagni, ritrovati due anni fa nel bagno grande del santuario termale etrusco e romano del borgo di 1500 abitanti in provincia di Siena, al confine con le province di Viterbo, Perugia e Terni. 

Il paese da qualche anno vive un autentico risorgimento, da quando è stato scoperto da alcuni personaggi del mondo della politica e del cinema, come Walter Veltroni, Sergio Castellitto e Sabrina Ferilli che da più di dieci anni, insieme al marito Flavio Cattaneo, mantiene la forma alle terme Fonteverde. Anche la rassegna culturale di inizio agosto con la presentazione dei libri nella terrazza del paese contribuiscono a dare notorietà a San Casciano dei Bagni.

La cultura come motore di sviluppo economico

Poi dalle acque termali, due anni fa, il rinvenimento più grande mai emerso in Italia, che riscrive la storia della statuaria etrusca-romana e rende celebre il borgo.

Oltre 20 statue di bronzo in perfetto stato di conservazione, ex voto e altri oggetti, ma anche cinquemila monete in oro, argento e bronzo sono le scoperte restituite dalla campagna di scavo al santuario etrusco-romano connesso all’antica vasca sacra della sorgente termo-minerale del Bagno Grande e che già sono state messe in mostra al Quirinale e a Napoli. Ora, e fino a gennaio del prossimo anno, sono a Reggio Calabria, accanto ai Bronzi di Riace, per un matrimonio all’insegna della bellezza. La “celebrazione” è arrivata all’inizio di agosto con l’inaugurazione della mostra. “Ritrovamenti diversi, scaturiti in contesti diversi, che rappresentano una opportunità unica sia per i reggini, sia per i tanti turisti che in queste settimane stanno invadendo la città” ha commentato il vicesindaco di Reggio Calabria Paolo Brunetti. La cultura come motore di sviluppo.

Stefano Bisi

Il lavoro sicuro in ricordo del disastro di Marcinelle

L’8 agosto del 1956 un incendio divampò nella miniera di carbone di Marcinelle in Belgio provocando la morte di 262 persone tra cui 136 immigrati italiani. Nel 2001 su iniziativa del ministro di An Mirko Tremaglia venne istituita la “giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo” da celebrarsi ogni 8 agosto in ricordo di quel disastro.

Ne parla il presidente del Cnel Renato Brunetta in un articolo sul Corriere della Sera: “I diritti e la sicurezza dei lavoratori non possono essere mai considerati, in nessun caso, un costo. L’auspicio è che l’8 agosto non rimanga solo la giornata del sacrificio del lavoro italiano nel mondo, ma che diventi la giornata europea nel ricordo di Marcinelle, per una nuova coscienza e memoria comune”.

Nella miniera belga l’8 agosto 1956 morirono 136 immigrati italiani

Quella vicenda per anni era stata un po’ dimenticata ma averla ricordata ha scosso le coscienze. “Una storia – scrive Brunetta – da cui emerge un quadro desolante ancora presente in alcuni contesti di lavoro del nostro Paese: sfruttamento, caporalato, norme di sicurezza impunemente violate, mancanza di vigilanza, assenza di formazione, condizioni di lavoro degradanti, prive del pur minimo rispetto della dignità umana. Bene hanno fatto le istituzioni a lanciare in modo unanime un grido di vergogna. Ma ovviamente non basta. Occorre un rinnovato impegno collettivo”. Nel ricordo di Marcinelle, una strage dimenticata per decenni e dal 2001 riportata alla luce come monito.

Stefano Bisi

I limiti esistono solo per chi è a corto di sogni

Accadde cinquant’anni fa. Erano le 7 del mattino del 7 agosto 1974, quando, a New York, il venticinquenne Philippe Petit, funambolo, mimo, giocoliere, tende da una torre all’altra delle Torri Gemelle un cavo d’acciaio spesso 3 centimetri e lungo 42 metri. Vi sale sopra e con il solo aiuto di un’asta per l’equilibrio, sospeso a più di 400 metri da terra, privo di qualsiasi sistema di sicurezza, lo percorre otto volte, avanti e indietro. La traversata dura 45 minuti. Al termine dell’impresa la polizia lo arresta ma il procuratore distrettuale troverà impropria l’applicazione alla lettera della legge. Così il reo di funambolismo, con sentenza esemplare, verrà condannato a esibirsi per i bambini a Central Park. 

Il mago dell’aria che riuscì a far accader “l’irriuscibile”

“A quella pazza e incredibile camminata – che dopo l’attentato e la caduta delle Torri Gemelle riappare nei nostri ricordi quanto mai sospesa sul vuoto – sono stati dedicati libri e film. Ora è la volta di un romanzo, ‘Il mago dell’aria’, di Mauro Garofalo, che, però, non è incentrato sull’epica impresa, ma sulla vita del suo protagonista” scrive Luigi Oliveto.

L’invito è ad impegnarsi per far accadere l’irriuscibile. E’ quello che riuscì a fare Philippe Petit quaranta anni fa dimostrando che i limiti esistono solo nella mente di chi è a corto di sogni.

Stefano Bisi

Angela e Imane, le due sorelle

“Le due sorelle saranno presto dimenticate” scrive Mattia Feltri sul quotidiano La Stampa regalandoci le consuete pillole quotidiane di saggezza. “Le due sorelle” sono Angela Carini e Imane Khelif, protagoniste di un incontro di boxe alle Olimpiadi di Parigi dove loro se le sono date sul ring e altri sui mezzi di comunicazione di ogni tipo. Carini ha ricevuto le carezze della premier Giorgia Meloni e Khelif è stata trattata come “una canaglia che si fa passare da femmina per pestare le femmine e vincere facile”.

C’è un “aspetto malinconico” scrive Feltri: saranno presto dimenticate. “Queste due ragazze sono più sorelle di quanto credano: sono state prese perchè passavano di lì, erano utili alla guerriglia del giorno e sono state scaraventate su un ring in cui si colpisce solo sotto la cintura. Altro che maschi o femmine, non sono più nemmeno esseri umani, bensì strumenti, utensili, armi da impugnare e poi buttare. Nessun cazzotto sarà mai altrettanto violento”. 

Carini: “Spero che tu vinca le Olimpiadi”

E a chi strumentalizza le due atlete dà una lezione Angela Carini che a Fanpage dice:  “Ciao Imane, mi auguro che arriverai in finale e che vincerai le Olimpiadi. In questa situazione io e lei non centriamo nulla. Tutte le parole che vengono dette contro di me e contro di lei, non centriamo nulla. Noi siamo qua perché stiamo inseguendo un sogno. Non siamo noi a giudicare, non siamo nessuno per giudicare me, non siamo nessuno per giudicare Imane, non siamo nessuno per dire se questo è giusto o sbagliato. Le persone che devono giudicare tutto questo ci sono e hanno le competenze per poterlo fare. Noi pugili facciamo il nostro compito. Il nostro compito qual è? Combattere e lo abbiamo fatto. A me è andata così, Imane ha vinto e va bene così”. Una lezione ai “pugili” che combattono fuori dal ring e non sentono il dolore dei cazzotti.

Stefano Bisi

Una data: il 3 agosto di ogni anno

Per me il 3 agosto di ogni anno è un giorno da ricordare ma non è il compleanno di qualcuno che conosco e c’è poco da festeggiare o forse sì visto che credo di aver superato quel trauma. Anche il 3 agosto del 2016 faceva caldo a Roma. Ero gran maestro del Grande Oriente d’Italia e dovevo rispondere alla convocazione della Commissione parlamentare Antimafia presieduta dall’onorevole Rosy Bindi che ne vuole sapere di più sulle presunte infiltrazioni della malavita organizzata nelle logge massoniche. L’appuntamento è per le 14.30 a Palazzo San Macuto. Entrando in quel palazzo storico penso subito a questo luogo che evoca ricordi e memorie nefaste per ogni amante della libertà. Qui, nel 1628, c’era l’Inquisizione. Il convento venne designato quale sede della Congregazione del Sant’Uffizio. Divenne il luogo dove il tribunale dell’Inquisizione, istituito da Paolo III nel 1542, svolgeva l’adunanza della congregazione segreta dove si dava lettura delle sentenze. Salendo quelle scale, dopo aver superato i controlli di riconoscimento e sicurezza, mi viene in mente Galileo Galilei. Proprio qui, in un locale del convento, il 22 giugno del 1663, l’astronomo fu costretto a pronunciare l’abiura della teoria copernicana per salvare la pelle. Mi immagino quel pullulare di porporati davanti a Galileo. Penso e spero che quel tempo sia passato. 

Quelle esperienze con la Commissione parlamentare Antimafia

Mi faccio coraggio, cerco di mettere insieme cuore e ragione per difendere la libertà di associazione e la dignità del Grande Oriente d’Italia. Penso, soprattutto, ad altri gran maestri che hanno dovuto fronteggiare momenti difficili per la massoneria italiana. Inizia una triste e complessa vicenda che mi vedrà ancora convocato a Palazzo San Macuto il 18 gennaio del 2017, ma stavolta sentito come testimone da un vero tribunale dell’Inquisizione formato da una quarantina di parlamentari che il 22 dicembre del 2017 presenta ai giornalisti una relazione finale dove c’è di tutto e di più. In confronto a quelle audizioni sembra perfino cordiale un interrogatorio di tre ore a cui mi sottopone un signor magistrato che si vuole informare sugli stessi argomenti della Commissione parlamentare d’inchiesta.

Stefano Bisi

Corrado, il papà della radio

Per tutti era e rimane Corrado. In pochi conoscono il cognome di quello che Renzo Arbore ha definito “il papà della radio”. Per la cronaca era Mantoni il cognome del conduttore radiofonico e televisivo nato cento anni fa, il 2 agosto del 1924, e scomparso l’8 giugno del 1999, ideatore di trasmissioni destinate a lasciare il segno nella storia del costume. Basti pensare che Corrado, rigorosamente senza il cognome, nel ’68 ha lanciato “La Corrida” dei dilettanti allo sbaraglio e poi “Domenica in…” (1976) e “Il Pranzo è servito” (1982).

Con la sua dizione perfetta annunciò la fine della seconda guerra mondiale

In pochi ricordano che toccò a lui, il 9 maggio del 1945, annunciare alla radio la resa della Germania alle forze angloamericane e la fine delle ostilità. Poche parole ma solenni: “Interrompiamo le trasmissioni per comunicarvi  una notizia straordinaria. Le forze armate tedesche si sono arrese agli angloamericani, la guerra è finita; ripeto: la guerra è finita!”. E anche l’annuncio del referendum del 2 giugno 1946 con la vittoria della repubblica sulla monarchia venne affidata al timbro caldo della sua voce e alla sua dizione perfetta.

Nella sua autobiografia dal titolo “…E non finisce qui”, pubblicata da Mondadori nel febbraio del 1999, scrisse: “Per me la radio è stata veramente il primo amore. La radio è una grande scuola e chi viene da lì ha molta più possibilità di avere successo. Dico di più: ai miei tempi la radio insegnava anche una forma di modestia che in questo mestiere non guasta affatto e che un po’ tutti dovrebbero avere”. E il consiglio di Corrado vale non solo per chi parla in radio e in televisione.

Stefano Bisi

Enzo Bianchi e l’importanza del silenzio

Era nella pagina dei commenti di Repubblica del 31 luglio e potrebbe essere passato un po’ inosservato, visto che l’attenzione sarà stata concentrata sulla lettera di Marina Berlusconi dal titolo “Fininvest ripagò i suoi debiti”, l’intervento di Enzo Bianchi, monaco laico e fondatore della comunità di Bose in Piemonte. Peccato, perché il titolo del suo pensiero, “L’importanza del silenzio”, è un consiglio visto il tempo in cui viviamo in cui il chiasso la fa da padrone. Scrive che “più che mai si deve riscoprire l’antichissima arte di ascoltare in silenzio: impresa non facile se già Eraclito diceva dei propri simili che erano incapaci di ascoltare e quindi di parlare”. E aggiunge che “il necessario ed elementare ritmo che comprende silenzi alternati alla parola viene stravolto, occupato da parole urlate”.

I consigli del monaco laico e del Signor Palomar

Sullo stesso argomento torna alla mente il Signor Palomar, il personaggio di Italo Calvino: “Il silenzio può essere considerato un discorso, in quanto rifiuto dell’uso che altri fanno della parola; ma il senso di questo silenzio-discorso sta nelle sue interruzioni, cioè in ciò che di tanto in tanto si dice e che dà un senso a ciò che si tace. O meglio: un silenzio può servire a escludere certe parole oppure a tenerle in serbo perché possano essere usate in un’occasione migliore. Così come una parola detta adesso può risparmiarne cento domani oppure obbligare a dirne altre mille”. E Palomar prima di parlare si mordeva la lingua tre volte. Anche questo è un consiglio, come quello di Enzo Bianchi.

Stefano Bisi

Macchi: “Derubato della medaglia d’oro? Sono un ragazzo fortunato”

Filippo Macchi ha ventidue anni, vive a Navacchio in provincia di Pisa e da poche ore ha conquistato la medaglia d’argento nel fioretto maschile alle Olimpiadi perdendo per un punto contro il campione uscente Cheung Ka Long.

Una lezione di sport dall’atleta azzurro del fioretto

Ha perso ma forse aveva vinto perché gli arbitri hanno dato una valutazione molto discutibile sul duello decisivo. Si sono scatenate le polemiche ma l’atleta ha messo le cose a posto con un messaggio che dovrebbe essere letto in tutti gli eventi sportivi.

Dice: “Ne ho sentite di ogni, ti hanno derubato, arbitraggio scandaloso, è una vergogna. Eppure a me viene da dire che sono proprio un ragazzo fortunato. Ho 22 anni, una famiglia stupenda, degli amici strepitosi e una fidanzata che mi lascia costantemente senza parole. Sono arrivato secondo alla gara più importante per ogni atleta che pratica sport e proprio perché pratico questo sport ho imparato che le decisioni arbitrali vanno rispettate, sempre! Conosco entrambi gli arbitri, non mi viene da puntare il dito contro di loro e colpevolizzarli del mio mancato successo anche perché non porterebbe a nulla se non a crearmi un alibi”. Macchi ha proseguito: “Tempo fa, una persona a me cara, nonché una grandissima campionessa mi disse: ‘Una medaglia si festeggia sempre!’. Ed effettivamente questa medaglia si merita gioia e felicità e quindi smaltiamo la delusione, che è tanta, e godiamoci ciò che è stato”.

Infine, il fiorettista pisano ha affermato: “D’altronde la vita è fatta di ostacoli, a volte si superano, altre volte ci si inciampa e si cade ma la differenza la fa chi ha la forza di rialzarsi. Ora ci aspetta una gara a squadre importantissima e io con i miei compagni, nonché amici, abbiamo tantissima voglia di dare il massimo e superarci. Sosteneteci, abbiamo bisogno di voi”. Un’autentica lezione di sport.

Stefano Bisi

Valcareggi, il CT pluridecorato ma lo ricordano per i 6 minuti di Rivera

Ferruccio Valcareggi era commissario tecnico della nazionale di calcio che nel 1968 vinse i campionati europei e due anni dopo sfiorò la vittoria ai mondiali del Messico, dove venne battuta in finale dal Brasile di Pelè. E’ scomparso nel 2005 a 86 anni, dopo una vita trascorsa con eleganza sui campi di calcio e poi in panchina e mi ha destato stupore la lettura di un articolo sulla prima pagina del Giornale a firma di Tony Damascelli. Il giornalista racconta di storie di spionaggio del calcio, tra cui quella di Joseph Lombardi, aiutante della nazionale di calcio femminile del Canada, rispedito al suo paese dopo aver fatto volare un drone sulle teste delle ragazze francesi per spiare gli schemi. Si è beccato una condanna a otto mesi di reclusione pena sospesa.

Vinse gli europei nel ’68 e venne battuto ai mondiali del ’70 solo dal Brasile di Pelè

Damascelli scrive che “resta nella storia l’operazione svolta da Ferruccio Valcareggi spedito da Edmondo Fabbri, nel mondiale del 1966, a studiare i nordcoreani. Valcareggi osservò l’allenamento del gruppo Pak Doo Ik e al rientro spiegò al cittì: ‘Sono undici Ridolini’, come era stato ribattezzato in Italia Larry Simon, attore farsesco americano. Le buscammo, Fabbri, definito da Gianni Brera ‘il tecnico del tortellino’, finì alla griglia, gli azzurri sbarcarono di notte a Genova ma non evitarono pomodori, Valcareggi James Bond ricevette in eredità la nazionale per il mondiale messicano, fu lui il Ridolini con i 6 minuti concessi a Gianni Rivera”.

Improbabile che Valcareggi, persona educata e mai sopra le righe, abbia usato espressioni irridenti nei confronti degli avversari ma anche se fossero affermazioni vere, Damascelli dimentica che nel ’68 era il cittì della nazionale che conquistò il titolo europeo con Dino Zoff in porta, capitano Giacinto Facchetti, poi Domenghini, De Sisti, Riva e tutti gli altri campioni. Una squadra ben plasmata da Uccio. E due anni dopo guidò la spedizione mondiale finita al secondo posto dopo aver superato in semifinale per 4-3 la Germania nella partita del secolo. Però Damascelli e, purtroppo, anche tanti altri ricordano Valcareggi solo per i 6 minuti di Rivera a partita ormai decisa (finì 4-1). Ma non è giusto. Uccio non lo merita.

Stefano Bisi

Omicidio Giulia Cecchettin premeditato Turetta

Caso “intercettazioni Turetta”, si scatenano le curve

Si è acceso il dibattito sul caso delle intercettazioni pubblicate su giornali e tv e relative al colloquio in carcere tra Nicola Turetta e il figlio Filippo. Su Fanpage hanno commentato: “Quelle parole sono umane. Siamo noi che non dovevamo ascoltarle”. Ma le curve si sono accese. Tra i tanti commenti ci sono quelli di Carlo Bartoli, presidente dell’Ordine dei giornalisti, che con molte cautele invita i colleghi a “distinguere cosa è essenziale per la comprensione dei fatti da ciò che è pura e semplice incursione nel dramma di genitori di fronte a un figlio che ha commesso un crimine terribile”.

La sobrietà e la fermezza di Bartoli, Caiazza e Crosetto

Il ministro della Difesa Guido Crosetto dice: “Per un genitore la vita di un figlio è sempre importante.  Anche se il figlio è un assassino. Ciò che un padre o una madre può dire ad un figlio, perché magari ha paura che si tolga la vita, dovrebbe rimanere tra di loro. Non finire sulle pagine dei giornali. È una conversazione privata. 

Possibile che giornalisti, direttori ed editori non riescano a capire quanto sarebbero imbarazzanti o farebbe effetto alcune conversazioni che loro hanno fatto nella vita, se rese pubbliche? Le loro come quelle di chiunque. Quante nostre frasi, se riportate su un giornale senza contesto, senza il tono della voce, senza spiegazione, sarebbero brutte?  Tante. Ed allora perché vi ostinate ad infrangere il confine della privacy ogni volta che potete?”.

Per il presidente dell’Unione camera penale Giandomenico Caiazza la conversazione del padre di Turetta con il figlio non ci riguarda e non ha senso che sia pubblica: “Siamo riusciti a costringere un povero padre disperato ad umiliarsi pubblicamente per chiederci scusa, dopo aver ascoltato contro ogni regola giuridica e umana una sua privatissima e drammatica conversazione. Forse lo avremmo applaudito se avesse aggredito il figlio dandogli dell’assassino, bastardo, feccia umana, nel primo incontro dopo quella tragedia indicibile. Sono io che chiedo scusa a lei, signor Turetta, questo è un paese impazzito ormai”. Ma proviamo a coltivare la speranza.

Stefano Bisi

Dodo, il terzino che dribbla le difficoltà

“Danzare per dribblare le difficoltà, sorridere per apprezzare ciò che di bello ti regala la vita. Dal comune di Taubaté, sulla strada che unisce San Paolo a Rio de Janeiro, fin sotto terra in un bunker di Kiev per ripararsi dai bombardamenti all’inizio dell’invasione russa in Ucraina” è la presentazione di un’intervista che La Repubblica dedica a Domilson Cordeiro dos Santos, ovvero Dodo, il terzino d’attacco della Fiorentina, velocissimo quasi quanto Usain Bolt, il centometrista idolo del calciatore brasiliano.

Sorride spesso ma quando perde una partita sta due giorni serio. Prima di arrivare a Firenze per indossare la maglia viola giocava in Ucraina, nello Shakhtar, la squadra allora allenata dall’italiano Roberto De Zerbi. 

Il calciatore della Fiorentina dalla povertà all’esperienza in un bunker ucraino

Ricorda quell’esperienza: “Fine 2021. Il campionato ucraino era in pausa invernale ed ero tornato in Brasile con la famiglia. A gennaio sarei dovuto tornare con loro a Kiev ma in quei giorni uscivano notizie di una possibile guerra. Per fortuna mia moglie non mi ha seguito. Sono stati giorni infernali”.

Racconta che la sua squadra era a Kiev. “A febbraio – dice – sono iniziati i bombardamenti, siamo scesi in un bunker insieme ad altri brasiliani. Il mister è rimasto con noi: ‘Andrò via soltanto quando sarà uscito da qui l’ultimo calciatore’ ci ripeteva. Sentivamo le bombe. L’aeroporto è stato colpito. Dopo una settimana un giornalista ucraino ci ha detto di prendere il treno, di lasciare la capitale prima possibile. Abbiamo fatto sedici ore di viaggio fino a Budapest. Ho capito quali persone ti vogliono bene, in un mondo in cui si odiano tutti. Ma la vita è molto più preziosa, sta sopra a tutto”. Ecco perché Dodo sorride sempre, anzi no, dopo le sconfitte resta serio per due giorni.

Stefano Bisi

La violenza di oggi e quella degli anni Settanta in Italia

L’attentato a Donald Trump e la detenzione di Ilaria Salis in Ungheria hanno scatenato le discussioni anche in casa nostra. “Girano troppe armi negli Stati Uniti” e “Non si può portare in aula una detenuta con le catene” è stato detto nei dibattiti in televisione e sui giornali, nelle case del popolo e in parrocchia. Qualche giorno fa un ottantenne frequentatore di un circolo Arci ha messo in riga i fustigatori dei costumi statunitensi e ungheresi: “Ma quello che abbiamo fatto nella storia recente d’Italia a proposito di armi ve lo siete dimenticato? E che in carcere dall’inizio di quest’anno si sono suicidati 56 giovani o forse più lo avete scordato?”. 

Le parole, i volantini, le mazze, le armi e i fomentatori di odio

Mi sono tornate in mente queste domande leggendo Pierluigi Battista su Huffington Post che scrive: “Forse dovremmo smetterla di impancarci a giudici dei comportamenti altrui. Con che faccia ci mettiamo a discettare delle nefandezze del sistema giudiziario ungherese mentre nelle nostre carceri disumanizzanti detenuti in attesa di giudizio su suicidano? E ora, dopo gli spari su Trump, la violenza politica in America, troppe armi, la tradizione dell’assassinio politico”.

E cita Francesco Merlo che nella sua rubrica delle lettere su “La Repubblica” ricorda il “mai più senza fucile” che risuonava lugubre nella follia ideologica cruenta degli anni Settanta, “molotov e spranghe, P38 e chiavi inglesi, una raffica al giorno a magistrati, giornalisti, poliziotti, sindacalisti, professori universitari, lotta armata, mitragliette e kalashnikov”, quasi quotidianamente, in un bollettino tragico senza fine.

E davanti alle scuole erano all’ordine del giorno gli scontri tra extraparlamentari di sinistra e di destra. Cominciavano con le parole e con i volantini pieni di odio per passare alla violenza delle mani, dei bastoni e talvolta delle armi. Qualcuno dei fomentatori di allora ha fatto carriera, altri si sono rovinati la vita.

Stefano Bisi

La politica e la magistratura secondo Eugenio Scalfari

E’ stato un protagonista del ventesimo secolo e in un suo libro del 1986 parla della degenerazione del rapporto politica-magistratura. Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano La Repubblica, nel volume “La sera andavamo in via Veneto” scrive che “l’autorità politica, dal canto suo, incapace di gestire i poteri suoi propri, non ha trovato altro espediente per sopravvivere che di affiliarsi singoli settori della magistratura e singoli magistrati. L’affiliazione è stata al tempo stesso attiva e passiva: partiti e uomini politici hanno affiliati magistrati e viceversa”. 

La degenerazione dei rapporti nel libro “La sera andavamo in via Veneto”

“In questo modo – spiega Scalfari -, la supplenza politica della magistratura, provocata ed evocata dalla delegittimazione dei partiti, ha fatto nascere partiti trasversali ed ha politicizzato e lottizzato oltre ogni sopportabile misura l’ordine giudiziario. L’indipendenza della magistratura – una conquista preziosa dell’Italia repubblicana – è purtroppo stata utilizzata come usbergo, al riparo del quale il potere giudiziario si è sfilacciato in correnti, gruppi di pressione, magistrati più o meno rampanti, procuratori più o meno asserviti a padrini e partiti.

Simmetricamente non c’è stato uomo politico di qualche rilievo che non disponesse di referenti propri nella magistratura penale e in particolare negli uffici della Procura e in quelli d’istruzione. L’azione penale è diventata, per effetto di questi processi inquinanti, sempre più erratica e la tutela del cittadino e della legge sempre più arbitraria”. Parola di Eugenio Scalfari. Correva l’anno 1986.

Stefano Bisi

Disuguaglianze, Italia ferma dal 2005

“Per le disuguaglianze Italia ferma dal 2005: la società è bloccata” è il titolo di un articolo del Sole-24 Ore in cui si spiega che i fattori ereditari continuano a giustificare quasi il 40 per cento dei divari di reddito. “Una fotografia statica – scrive Margherita Ceci -. Il fatto che non siamo il fanalino di coda in Europa non deve trarre in inganno: l’Italia negli ultimi 20 anni non ha mostrato variazioni in fatto di disuguaglianze di opportunità. Un dato all’apparenza positivo, non c’è stato un peggioramento, ma che cambia volto se lo si guarda da un punto di vista politico”. 

Una società bloccata e quell’articolo 34 della Costituzione un po’ dimenticato

L’analisi è spietata: “Nessuna strategia di governo è stata in grado di agire sulle disparità sociali ereditarie”. Il dato arriva dal Global estimates of opportunity and mobility ma lo aveva capito bene Piero Calamandrei già nel 1950, quando ad un convegno sulla scuola disse: “La democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale.

La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali”. E citò l’articolo 34 della Costituzione: “La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. I fattori di partenza come luogo di nascita e situazione familiare determinano ancora le disuguaglianze.

Stefano Bisi

Gae Aulenti, l’architetto che diventò star in un mondo di uomini

C’è tempo fino al 12 gennaio del 2025 per visitare un’ampia retrospettiva dedicata a Gae Aulenti (1927-2012), una delle figure più rappresentative dell’architettura e del design contemporanei, allestita alla Triennale di Milano. In oltre sessant’anni di carriera, la poliedrica progettista ha toccato numerosi ambiti: dal disegno a scala urbana all’exhibition design, dall’architettura del paesaggio alla progettazione degli interni, dal furniture design alla grafica, fino alla scenografia teatrale. Il percorso espositivo è costituito da ambienti in scala 1:1.

Una retrospettiva alla Triennale di Milano per una protagonista del nostro tempo

Gae Aulenti era una visionaria più che un architetto ed è stata una figura centrale nella scena culturale e nella società dal secondo dopoguerra fino ai primi anni del ventunesimo secolo. “Un magma di relazioni e rapporti e contatti dentro la finestra mobile del Novecento” ha detto Giovanni Agosti, che ha curato la mostra per la Triennale. 

Diceva che “l’architettura è un mondo da uomini, ma io faccio finta di niente” e in questa frase c’è la tenacia, il forte temperamento e la determinazione di una donna che è stata protagonista del suo tempo e ha creato progetti e opere che la rendono immortale e tra queste la trasformazione della Gare d’Orsay a Parigi. Una foto storica ritrae Gae Aulenti nel cantiere con l’immancabile sigaretta mentre osserva quella stazione che, grazie a lei, diventerà il Museo d’Orsay, dove si ammirano i più grandi capolavori dell’impressionismo e del post-impressionismo.

Stefano Bisi