Skip to main content

Tag: Mining

Mining di Bitcoin, CleanSpark acquisirà la rivale GRIID in cambio di 155 milioni di dollari

Il settore del mining di Bitcoin è in una fase di ridefinizione molto profonda. L’ultima novità al proposito è quella relativa a CleanSpark, azienda mineraria focalizzata sul discorso della sostenibilità, che ha deciso di acquisire la rivale GRIID. In cambio verserà 155 milioni di dollari, per tutte le azioni ordinarie della società concorrente.

Non appena sono stati rivelati i termini dell’accordo, il prezzo delle azioni di GRIID è crollato del 49%. Un calo che è comunque da mettere in relazione al 55% che la società mineraria di stanza a Cincinnati aveva collezionato nel corso dell’ultimo mese.

CleanSpark acquista GRIID: i termini dell’accordo

La notizia dell’acquisizione di GRIID da parte di CleanSpark è stata diffusa da un comunicato stampa emesso per l’occasione. Contestualmente alla firma dell’accordo di fusione, le aziende hanno anche stipulato un contratto di hosting esclusivo per tutta la potenza attualmente disponibile, di cui 20 MW verranno assegnati a CleanSpark con effetto immediato.

Come risultato dell’accordo, CleanSpark stima che la sua potenza potrebbe aumentare di oltre 400 MW nel corso dei prossimi due anni. L’acquirente si assumerà tutti i debiti in sospeso e gli altri obblighi di GRIID, oltre a fornirgli un prestito di capitale circolante di 5 milioni di dollari e un prestito ponte di circa 50,9 milioni di dollari, per soddisfare determinati obblighi di GRIID al momento della firma.

A commentare l’accordo raggiunto è stato il CEO di CleanSpark, Zach Bradford. La nota da lui diffusa afferma, in particolare: “Non vediamo l’ora di accogliere il team GRIID nella famiglia CleanSpark e siamo entusiasti di applicare il metodo CleanSpark, attentamente affinato insieme alle comunità in cui operiamo in Georgia e Mississippi, all’imponente pipeline di GRIID nel Tennessee”.

Mentre Trey Kelly, CEO di GRIID, ha a sua volta affermato: “Sono molto orgoglioso dell’attività e del team che abbiamo costruito in GRIID, quindi entrare a far parte di un’azienda con una visione e valori condivisi, come CleanSpark, rappresenta una combinazione aziendale ideale.”

Una fase di ridefinizione del mining di Bitcoin

Fondata nel 2018, GRIID gestisce strutture minerarie a Watertown, New York e nel Tennessee, servite dalla Tennessee Valley Authority (TVA), una delle più importanti società elettriche pubbliche degli Stati Uniti. Oltre alla sede centrale di Cincinnati, in Ohio, l’azienda gestisce un centro di ricerca e sviluppo ad Austin, in Texas, e un sito di sviluppo, distribuzione e riparazione delle apparecchiature a Rutledge, nel Tennessee. Un elemento dell’attività di GRIID che è stato evidenziato da CleanSpark è il suo “approccio comunitario alla costruzione di data center”, focalizzato sulle comunità locali.

L’accordo di fusione tra le due aziende minerarie arriva in un momento molto particolare per il settore. Molti attori operanti nel mining di Bitcoin, infatti, si trovano a dover fare i conti con il quarto halving di aprile.

Il dimezzamento delle ricompense spettanti per l’aggiunta dei blocchi alla catena di BTC, infatti, si è andato a riflettere con grande forza sui bilanci societari. Per cercare di resistere alla tempesta, alcune società stanno vendendo le proprie scorte di token, per poter investire i proventi in nuove apparecchiature. L’estrazione meno redditizia di prima, ha infatti cambiato in maniera considerevole le carte in tavola.

La strada delle fusioni

Se alcune aziende minerarie hanno optato per la vendita delle proprie scorte di Bitcoin, altre hanno invece intrapreso la strada delle acquisizioni. Tra quelle che hanno fatto notizia di recente, occorre ricordare il tentativo di scalata ostile da parte del colosso minerario Riot Platforms nei confronti della società canadese Bitfarms. La resistenza della società attaccata ha però spinto Riot Platforms, all’inizio di questa settimana, ad abbandonare il suo piano.

Non ci sono invece state frizioni tra CleanSpark e il consiglio di amministrazione di Griid. In questo caso, infatti, le condizioni tra le controparti si sono andate a incastrare al meglio. Preparando la strada per la definizione definitiva della questione, che dovrebbe avere luogo entro il terzo trimestre di quest’anno.

Bitcoin, il mining di Marathon riscalda una intera cittadina finlandese

Il mining di Bitcoin sta riscaldando un’intera cittadina in Finlandia, grazie ad un nuovo progetto ideato dalla più grande società del settore, a livello mondiale, Marathon Digital Holdings. L’azienda mineraria ha infatti dato vita a un progetto pilota che è in grado di utilizzare il calore recuperato dal processo di estrazione dei nuovi token al fine di riscaldare le case di oltre 11mila residenti.

A dare rilevanza al progetto è anche il fatto che sia stato ideato in un’area del continente che non si dimostra benevolo verso questo genere di attività. Il Nord Europa, con la Svezia in testa, ha infatti chiesto il bando al mining Proof-of-Work in sede di discussione del Markets in Crypto Assets (MiCA). Non lo ha ottenuto, ma potrebbe presto tornare all’assalto di un’attività considerata ostile all’ambiente.

Mining di Bitcoin: il progetto di Marathon potrebbe segnare una svolta

Il progetto pilota ideato da Marathon è stato avviato nella regione di Satakunte e prevede una potenza pari a 2 megawatt. L’annuncio del suo lancio è avvenuto su X, il passato 20 giugno, con queste parole: “In Finlandia abbiamo lanciato un progetto pilota da 2 megawatt per riscaldare una comunità di 11.000 residenti mediante il calore ricavato dal digital asset computing.”

Si tratta di una vera e propria novità, almeno a livello europeo, ove l’impianto finlandese rappresenta il primo progetto pilota basato sul riscaldamento urbano. Alla base del nuovo impianto c’è un sistema denominato “district heating”. Grazie ad esso è possibile riscaldare a monte l’acqua, la quale sarà poi distribuita alle abitazioni mediante una rete sotterranea di tubature per il riscaldamento.

Considerato il gran quantitativo di calore in eccesso collegato al mining di Bitcoin, il progetto potrebbe rivelarsi una vera e propria svolta per il futuro, nel riscaldamento delle case. Proprio per questo è comprensibile l’enfasi posta da Marathon nel suo annuncio su X. Soprattutto alla luce delle grandi polemiche che continuano a riversarsi sull’attività mineraria, in varie parti del globo.

Non solo Marathon

Marathon è la più grande azienda di mining di Bitcoin a livello globale. A renderla tale un valore di oltre 5,84 miliardi di dollari, il 33% in più rispetto al maggiore concorrente, CleanSpark, che vanta una capitalizzazione di mercato di 4,36 miliardi di dollari. I dati in questione sono desunti da CompaniesMarketCap.

Il suo progetto si va a inserire in una situazione che è già in movimento. Su scala più piccola, infatti, alcune società di mining hanno già avviato la realizzazione di unità di riscaldamento domestico. Un ambito in cui spicca Heatbit, commercializzata come apparecchio “plug-and-play” per il riscaldamento e la purificazione dell’aria, in grado di condurre il mining di Bitcoin a 10 TH/s.

Tentativi che sono tesi a dimostrare che questo genere di attività può dare vantaggi di non poco conto, senza danneggiare l’ambiente. Soprattutto quando viene condotta tramite impiego di fonti di energia rinnovabile.

Sotto questo particolare aspetto, occorre sottolineare come proprio di recente sia stato pubblicato un grafico il quale dimostra come la sostenibilità del mining di Bitcoin sia ai massimi storici. A pubblicarlo sono stati Daniel Batten e Willy Woo, dimostrando come il dato si sia attestato al 55%. Più della metà dell’energia utilizzata, quindi, proviene da fonti rinnovabili.

Mining di Bitcoin, la necessità di cercare nuove strade

Il progetto messo in campo da Marathon è molto importante non solo in ottica ambientale, ma anche per le stesse aziende che fanno mining. Molte di esse, infatti, devono convivere con la nuova situazione creata dal dimezzamento delle ricompense conseguente al quarto halving di Bitcoin.

La stessa Marathon ha spiegato in un filmato accluso al suo post su X come stia vagliando altre soluzioni tese a fornire nuove entrate. Monetizzare il calore generato dalle sue strutture di mining di Bitcoin e dai suoi data center sarebbe un passo fondamentale, in tal senso. Queste le dichiarazioni dell’azienda, al proposito: “Questo progetto pilota rappresenta un test innovativo nel percorso di Marathon verso lo sviluppo di nuovi flussi di entrate e approcci strategici volti a raggiungere un’alimentazione a costo zero per il digital asset computing, offrendo al contempo nuove soluzioni per la transizione energetica mondiale.”

Per capire l’importanza del progetto, basterà ricordare come Marathon gestisca già altri undici siti minerari in ogni parte del globo. Grazie ai quali è in grado di controllare il 4,8% dell’hashrate di BTC, stando ai dati che sono riportati sul suo sito istituzionale.

Il mining di Bitcoin è ai massimi storici in quanto a sostenibilità ambientale

Il mining di Bitcoin continua ad essere visionato con molta attenzione dagli ambientalisti. Com’è noto, infatti, i consumi collegati all’estrazione dei blocchi sulla blockchain più longeva sono estremamente elevati. Con l’ovvia conseguenza che, ove fondati su fonti come il carbone o il petrolio, ma non solo, sono destinati a inquinare in maniera rilevante.

Le ultime notizie relative all’attività, però, possono essere considerate positive. Stando a un grafico modellato da Daniel Batten, venture capitalist nel campo della tecnologia climatica, e dall’analista di dati Willy Woo, la quantità di energia proveniente da fonti rinnovabili dedicata al mining di Bitcoin sarebbe ai massimi storici. Si attesterebbe infatti intorno al 55%. Un dato che potrebbe riaprirgli molte porte che si erano chiuse in precedenza.

Mining di Bitcoin: il 55% dell’energia impiegata proviene da fonti rinnovabili

Nella discussione relativa al mining di Bitcoin, il dato che è sempre stato agitato dagli ambientalisti è quello relativo ai consumi collegati alla blockchain più longeva. Un modus operandi che, a dire il vero, non è molto corretto. Se fosse esteso ad altre attività, infatti, comporterebbe la messa in discussione di un gran numero di esse, che in effetti consumano molto di più.

Il metodo corretto di affrontare il problema obbligherebbe invece a cercare di capire quanto di questa quantità di energia impiegata provenga da fonti inquinanti. Ove fosse adottato questo principio, salterebbe agli occhi come meno della metà di quella impiegata nel mining di BTC proviene da fonti non rinnovabili.

Poco? Tanto? Questo naturalmente dovrebbe essere stabilito dagli esperti, magari facendo il confronto con altre attività, inquinanti o meno. Per capire meglio anche questa questione, sarebbe però il caso di ricordare la vicenda relativa a Tesla.

Ora Tesla potrebbe tornare a offrire pagamenti in Bitcoin?

Nel 2021, l’azienda automobilistica fondata da Elon Musk sollevò grande rumore. Annunciò infatti l’acquisto di 1,5 miliardi in BTC e l’inclusione dell’icona crypto nei pagamenti delle vetture. Una decisione sulla quale, però, la casa tornò indietro ad appena due mesi di distanza.

A suggerire la mossa proprio i livelli di inquinamento connessi al mining di Bitcoin. Tali da spingere lo stesso Elon Musk ad affermare che il token sarebbe tornato come strumento di pagamento solo ove avesse conseguito almeno il 50% di sostenibilità ambientale.

Naturalmente, alla luce dei dati di Batten e Woo, molti si sono chiesti se l’uomo più ricco del mondo rispetterà quanto affermato all’epoca. La questione più importante, però, è che i nuovi dati potrebbero mutare la percezione sul mining di Bitcoin da parte di alcuni governi. Allontanando, ad esempio, l’ipotesi di uno sfratto dal continente europeo.

Mining di BTC, la questione dei governi nordici

Tra coloro che non hanno nascosto la propria avversione per il mining di Bitcoin, un posto di riguardo spetta ai governi del Nord Europa, Svezia in primis. Affermandone la pericolosità, il governo di Stoccolma ha cercato di introdurre il bando all’attività nel Markets in Crypto Assets (MiCA). Il nuovo regolamento sulle criptovalute approvato dall’UE, però, non ha affrontato il tema, preferendo stralciarlo.

Nel frattempo la Svezia ha trovato alleati in altri governi della stessa area geografica, a partire dall’Islanda e dalla Norvegia. La prima ha espresso l’intenzione di sacrificarlo per dirottare energia verso il settore agricolo, la seconda vorrebbe imporre la registrazione dei data center in modo da individuare le aziende minerarie ed espellerle.

Occorre ora capire se le intenzioni bellicose siano destinate a restare tali, alla luce di una tendenza, quella a rendere più sostenibile il mining di Bitcoin, che dura ormai dal 2021. In caso contrario, i minatori dovranno continuare a lavorare per allontanare ogni pericolo in tal senso, anche nel corso dei prossimi anni.

Mining di Bitcoin, ora entra nel settore anche Deutsche Telekom

Il mining di Bitcoin sembra sempre più al centro degli interessi generale. Le ultime notizie in tal senso sono quelle riguardanti T-Mobile Deutsche Telekom, la quale ha annunciato l’intenzione di entrare nel settore, in modo da ampliare così le proprie attività incentrate sulle criptovalute.

Occorre sottolineare, infatti, come sin da giugno del 2023 l’azienda sia attivamente coinvolta nel Web3, in veste di validatore all’interno della blockchain di Polygon. Ennesimo segnale del crescente interesse verso un settore che anche Donald Trump, nei giorni passati, ha in pratica indicato come chiave di volta per rafforzare l’influenza globale degli Stati Uniti.

Deutsche Telekom ora ha deciso di impegnarsi anche nel mining di Bitcoin

Per T-Mobile Deutsche Telekom, l’impegno nel mining non rappresenta una novità in senso assoluto. L’azienda di telecomunicazioni teutonica, infatti, sin dall’anno passato gestisce un nodo Bitcoin, cui aggiunge l’impegno riguardante alcuni nodi Lightning Network.

A rivelarlo è stato Dirk Röder, responsabile delle infrastrutture e delle soluzioni Web3 di Deutsche Telekom, nel corso della conferenza BTC Prague. Queste le parole da lui rilasciate, nell’occasione: “Dal 2023 gestiamo un nodo Bitcoin e anche dei nodi Bitcoin Lightning. Voglio svelarvi un piccolo segreto: presto ci dedicheremo anche alla fotosintesi monetaria digitale.”

Un impegno culminato nel mese di febbraio nell’accordo stilato con la piattaforma decentralizzata Fetch.ai, che mixa nel suo modello di business blockchain e intelligenza artificiale. Un accordo che prevede il varo di un’AI aziendale. Un logico sviluppo del fatto che, proprio in qualità di validatore sulla blockchain, l’azienda di telecomunicazioni contribuisce a sostenere gli agenti autonomi basati sull’intelligenza artificiale di Fetch.ai. Agenti autonomi ai quali spetta il compito di fornire servizi in vari settori, trai quali la sanità, l’industria automobilistica, le identità digitali e le catene logistiche. Per farlo in maniera adeguata gestiscono le risorse necessarie, provvedendo all’effettuazione delle transazioni e all’analisi dei flussi di traffico.

L’interesse di T-Mobile Deutsche Telekom conferma il ruolo sempre più importante che sta assumendo il mining, in particolare quello di Bitcoin. Un interesse il quale si inserisce in un momento molto particolare per le aziende del settore.

La riorganizzazione delle aziende minerarie procede a tappe spedite

Dopo il quarto halving di Bitcoin, per molte aziende minerarie è stato necessario prendere atto delle crescenti difficoltà collegate al dimezzamento delle ricompense. Per molte di loro è stato quindi necessario iniziare a guardarsi intorno, per capire il mondo migliore di procedere.

Alcune hanno optato per una diversificazione del modello di business. In particolare dedicandosi all’intelligenza artificiale, la quale necessita di grandi risorse computazionali per i propri modelli.

Altre, al contrario, hanno deciso di provare a reggere la competizione rilanciando sul fronte degli investimenti. Per foraggiarli, però, hanno deciso di vendere i propri quantitativi di Bitcoin. Una tendenza che è stata particolarmente forte nel mese di giugno, quando gli exchange hanno visto affluire quantitativi di BTC sempre più elevati.

Non sono mancate poi le fusioni tra aziende prima rivali. In tal senso ha spiccato la scalata ostile cui Bitfarms è stata sottoposta da parte di Riot Platforms. Una vicenda di cui si sta parlando molto e che dimostra l’importanza del mining.

Trump e il governo russo guardano con interesse al fenomeno

A dimostrarlo è anche una recente dichiarazione resa da Donald Trump. Il candidato repubblicano, infatti, nel corso di uno dei tanti eventi della sua campagna elettorale ha affermato che con la sua presidenza gli Stati Uniti cercheranno di minare tutti i BTC restanti. Un impegno necessario per conservare il ruolo di supremazia a livello energetico.

Una dichiarazione cui occorre aggiungere le notizie provenienti dalla Russia. Il governo di Mosca, infatti, sembra intenzionato a riconoscere l’attività di estrazione alla stregua di attività economica ufficiale. A conferma del fatto che l’interesse verso il mining è sempre più esteso.

Mining di criptovalute, Riot Platforms intende acquistare Bitfarms

Riot Platforms, un importante minatore di Bitcoin, ha presentato un’offerta di acquisizione ostile per Bitfarms, una società canadese di operante nello stesso settore, di cui è già azionista. La cifra offerta per condurre in porto l’operazione è pari a 950 milioni di dollari. Un buyout il quale rappresenta un premio del 24% ove raffrontato al prezzo medio mensile delle azioni di Bitfarms ponderato in base al volume, al 24 maggio 2024.

Mining di criptovalute: Riot Platforms è nel pieno di una scalata ostile a Bitfarms

Riot Platforms è già il maggiore azionista di Bitfarms, detenendone una quota del 9,25%. Le sue intenzioni erano già state esplicitate il passato 22 di aprile, quando si era rivolta al consiglio di amministrazione di Bitfarms con un’offerta privata.

La risposta di Bitfarms era però stata negativa. Una risposta la quale, però, non ha scoraggiato Riot Platforms, che ha deciso di procedere con un’OPA ostile. L’offerta pubblica di acquisto prevede un mix tra contanti e azioni ordinarie. Nel caso in cui andasse in porto, gli azionisti di Bitfarms si ritroverebbero a detenere circa il 17% della nuova entità risultante dalla fusione.

La tempistica dell’offerta di Riot va a coincidere con un periodo di transizione e turbolenza all’interno del management di Bitfarms. La società, infatti, si trova a fare i conti con l’uscita di scena di Geoffrey Morphy, l’ex amministratore delegato. Il suo licenziamento è avvenuto nel passato mese di maggio, nel corso di una controversia legale.

I dubbi su Bitfarms

Proprio la brusca uscita di scena di Morphy e la successiva causa da lui promossa contro Bitfarms, per violazione del contratto e licenziamento illegittimo, hanno sollevato forti interrogativi sulla stabilità della leadership dell’azienda e sulle pratiche di governance adottate.

Riot Platforms ha colto al volo l’occasione che si andava prospettando. Per sfruttare gli sviluppi di quanto stava accadendo, ha affermato che alcuni amministratori, tra cui i cofondatori di Bitfarms Nicolas Bonta ed Emiliano Grodzki, potrebbero non agire nel migliore interesse degli azionisti.

Proprio per bypassare questa situazione, si è quindi impegnata a spingere per l’aggiunta di nuovi amministratori indipendenti al consiglio di Bitfarms. Lo strumento per farlo è la convocazione di un’assemblea speciale degli azionisti prevista dopo l’assemblea generale e straordinaria annuale della società, che si è svolta il 31 maggio.

Risultati non aderenti alle aspettative

A rendere possibile il tentativo di acquisizione da parte di Riot Platforms sono stati, in particolare, i deludenti risultati di Bitfarms. Nel corso di aprile, infatti, nonostante un costoso aggiornamento tecnico, gli utili sono scesi del 29% su base annua.

Il tutto mentre gli analisti si attendevano risultati migliori, in un momento in cui il settore del mining di criptovalute stava dando addio al crypto winter e in corrispondenza dell’halving di Bitcoin. Risultati i quali hanno contribuito alla sua evidente vulnerabilità.

A renderli ancora più deludenti il raffronto con i risultati evidenziati da Riot Platforms. In questo caso, infatti, si è registrato un aumento del 131% dell’utile netto nel primo trimestre del 2024, portandolo a quota 211 milioni di dollari. Un dato che non sembra possibile ignorare, da parte degli azionisti di Bitfarms.

Si prospetta il maggior minatore BTC quotato in borsa

Nel caso in cui l’operazione andasse in porto, ne conseguirebbe la formazione di una nuova entità di grande rilievo. Ovvero il più grande minatore di Bitcoin quotato in borsa, tale da vantare significative capacità di auto-estrazione e di energia.

Da parte sua, Riot Platforms sarebbe intenzionata a sfruttare questa maggiore scala ed efficienza operativa per riuscire a conseguire maggior valore per gli azionisti. E, per tale via, rafforzare in maniera estremamente significativa la propria posizione in un settore come quello del mining di criptovalute il quale sta andando incontro a grandi trasformazioni.

Mining di criptovalute, il Venezuela ha deciso di scollegare tutte le attività presenti al suo interno

Il Ministerio para el Poder Popular para la Energía Eléctrica (MPPEE), l’autorità governativa che si occupa della gestione politica dell’energia elettrica all’interno del Venezuela, ha deciso di scollegare tutti gli impianti di mining disseminati lungo il territorio nazionale.

Il motivo della drastica decisione è da individuare nei ripetuti blackout che si stanno verificando lungo il Paese. A causarli le carenze nella generazione di energia di cui il Venezuela soffre a causa delle sanzioni statunitensi. Non è però ancora chiaro se il provvedimento sia definitivo, oppure soltanto di carattere temporaneo.

Il Venezuela taglia le forniture agli impianti di mining presenti nel Paese

Il governo del Venezuela sta cercando di razionalizzare l’utilizzo di energia elettrica all’interno del Paese. Nell’opera di riorganizzazione intrapresa sono incappate le attività più energivore, una categoria che comprende anche gli impianti di mining disseminati lungo il territorio nazionale. È stato il ministero dell’energia ad annunciare il provvedimento tramite i suoi canali social.

Un input subito recepito da Rafael Lacava, governatore dello Stato di Carabobo, ove sono concentrate la maggior parte delle industrie venezuelane. Il risultato dell’operazione intrapresa si è concretizzato nel sequestro di oltre 11mila ASIC e nella disconnessione di un gran numero di mining farm. Lo stesso Lacava ha dichiarato l’inammissibilità del mining in un momento in cui la popolazione soffre per le continue interruzioni nella fornitura di energia.

L’operazione di repressione del mining non è però esaurita con questo intervento. Ancora Lacava ha infatti affermato che molte altre installazioni di questo genere saranno scollegate nei prossimi giorni. Non si tratta peraltro di una novità assoluta, considerato come proprio di recente siano stati confiscati 2mila dispositivi per il mining a Maracay. Operazione che si è resa necessaria nel quadro di una iniziativa contro la corruzione.

Venezuela e mining di criptovalute, un rapporto complicato

Il rapporto tra Venezuela e mining non è mai stato facile. Le autorità governative non si sono mai fatte pregare per colpire questa attività, in più di un’occasione. L’operazione più clamorosa in questo campo è stata quella condotta nel passato mese di marzo, quando il fornitore di energia nazionale ha chiuso gli impianti minerari a livello nazionale nel contesto di indagini sulla corruzione che coinvolgevano la compagnia petrolifera statale.

È stato il procuratore generale Tarek William Saab ad affermare in quell’occasione che i funzionari stavano conducendo vendite di petrolio non autorizzate, con l’aiuto del dipartimento di crittografia. La vicenda ha visto anche l’arresto di diversi funzionari. Tra di essi spiccano Joselit Ramírez, ex capo della Sovrintendenza nazionale delle criptovalute (Sunacrip) e l’ex presidente della PDVSA Tareck El Aissami. Proprio il Sunacrip è attualmente in fase di ristrutturazione. Una fase interlocutoria in cui anche il quadro di riferimento del mining di criptovalute rimane incerto.

In questo contesto, occorre anche ricordare quanto avvenuto la settimana passata in una località dello stato di Aragua. Una perquisizione da parte delle forze dell’ordine, infatti, ha portato alla scoperta di un capannone con 2.300 computer collegati in serie per condurre l’attività di decriptazione dei codici tipica del mining.

La popolarità delle criptovalute in Venezuela

Una scoperta che testimonia la popolarità dello stesso in un Paese come Il Venezuela costretto a convivere con le sanzioni USA. Una parte della popolazione, proprio per bypassare queste difficoltà, sfrutta i costi irrisori dell’energia elettrica per aumentare le proprie entrate. Mentre una parte ancora più cospicua ha ormai da tempo deciso di scambiare la valuta fiat ricevuta sotto forma di stipendi e pensioni in criptovaluta. Considerata, nonostante la sua volatilità, meno rischiosa dell’inflazione cui è sottoposto il bolivar.

Una popolarità, quella del mining, che aveva costretto già nel 2020 il governo ad intervenire. All’epoca, infatti, Ildemaro Villaroel, Ministro venezuelano per l’Habitat e la Casa, aveva dichiarato che non sarebbe più possibile svolgere attività di mining nei quartieri di proprietà statale facenti parte del progetto abitativo “Gran Misión Vivienda”.

Si tratta un piano di sviluppo urbano del governo teso a garantire case a basso costo alle fasce più deboli della popolazione colpite dalla crisi economica. Un intervento che potrebbe presto essere adottato a livello nazionale.

Mining di criptovalute, ora le aziende minerarie guardano al Medio Oriente

La tassa del 30% proposta dall’amministrazione Biden sull’uso dell’elettricità per le operazioni di mining di asset digitali sta sollevando non poche preoccupazioni tra i minatori di criptovalute. Se per l’anno in corso non è stata accolta dal Congresso, è stata comunque riproposta per il 2025. E nel caso in cui fosse accolta a livello parlamentare comporterebbe non pochi problemi per l’industria mineraria statunitense. La quale, per non farsi trovare impreparata in una ipotesi di questo genere, sta iniziando a guardarsi intorno.

Tra le possibili direttrici di espansione, una di quelle che stanno emergendo con maggiore forza è rappresentata dal Medio Oriente. E proprio in quella parte del continente asiatico potrebbero convergere le mining farm statunitensi nel futuro. Soprattutto se la proposta di Biden dovesse diventare legge.

Mining: cosa sta accadendo negli Stati Uniti?

Le condizioni per il mining sono state sinora favorevoli, negli Stati Uniti. Una situazione che potrebbe però mutare, ove la tassa sull’energia elettrica necessaria per l’attività dovesse essere approvata. È Kyle Shneps, direttore delle politiche pubbliche presso Foundry, società mineraria crypto con sede negli Stati Uniti, a prevede un calo dell’attività nel Paese, ove se la legge fosse approvata.

Questa la sua dichiarazione, al proposito: “Una tassa del 30% sull’elettricità utilizzata dai minatori di bitcoin ucciderebbe sicuramente l’industria negli Stati Uniti. Penso che sarebbe senza precedenti che si verificassero tali attacchi all’elettricità utilizzata. Costituisce un precedente davvero pericoloso”.

Lo stesso pensiero espresso da Darin Feinstein, fondatore della società mineraria Core Scientific. Secondo lui, infatti, un’evenienza di questo genere indebolirebbe in maniera decisiva un settore fondamentale dell’economia a stelle e strisce. Ove ciò accadesse, Investimenti e tecnologia si trasferirebbero in ambienti più ospitali.

Mentre è meno sicuro in tal senso Anthony Scaramucci, di Skybridge Capital. L’ex direttore delle comunicazioni della Casa Bianca, ritiene che gli Stati Uniti rimangono comunque un posto ideale per le risorse digitali, compreso il mining. Tanto da affermare: “Nonostante l’incertezza normativa, gli Stati Uniti offrono un ecosistema maturo per l’innovazione e la crescita, con molte delle principali aziende e progetti di criptovaluta già qui”.

Il mining di criptovalute potrebbe trasferirsi in Medio Oriente

I minatori di criptovalute negli Stati Uniti rappresentano oltre il 29% del totale dei nodi della rete Bitcoin. Una percentuale la quale, però, potrebbe ridursi fortemente nel caso in cui la tassa sul mining proposta dall’amministrazione Biden dovesse andare in porto. In tal caso, infatti, altre parti del mondo potrebbero presentare condizioni molto più favorevoli per collezionare profitti con il mining di valuta digitale.

In particolare, molte aziende stanno già guardando con grande interesse al Medio Oriente. Si tratta infatti di una parte del globo ove la pressione fiscale è ancora su livelli molto contenuti. Aggiungendosi all’abbondanza di energia elettrica, tale da comportare tariffe non esose, e ad una normativa ambientale meno opprimente.

È Olivier Ohnheiser, il CEO di Green Data City, a spiegare le condizioni di cui potrebbero avvalersi i minatori ove decidessero di spostare la propria attività nella zona: “Rispetto agli Stati Uniti, il sud dell’Oman presenta alcuni vantaggi geopolitici unici. E’ ottimo per i collegamenti, in quanto è vicino all’atterraggio dei cavi sottomarini. Dispone di elettricità a basso costo, rischio politico ridotto e condizioni meteorologiche favorevoli per i data center.”

Una dichiarazione rilasciata nel corso del World Digital Mining Summit di Bitmain, svoltasi in Oman, alla fine del mese di marzo. Ovvero nel Paese che ha investito più di 800 milioni di dollari in operazioni di mining di criptovalute. Secondo i dati rilasciati dall’Hashrate Index, i 400 megawatt di mining di Bitcoin degli Emirati Arabi Uniti rappresentano circa il 4% dell’hashrate di mining di Bitcoin globale.

In Medio Oriente il mining è già attivo

Proprio Green Data City ha siglato l’anno scorso un accordo da 300 milioni di dollari con Phoenix Group, la più grande società di mining di asset digitali negli Emirati Arabi Uniti. Un accordo teso alla creazione di una cripto farm da 150 megawatt a Salalah, nel sud dell’Oman. L’impianto, che condurrà mining di Bitcoin, Litecoin e altri asset crittografici Proof-of-Work, sarà completato entro la fine dell’anno.

Sempre nel 2023, Digital Marathon (MARA) e Zero Two, sostenuto dal fondo sovrano di Abu Dhabi, hanno firmato una joint venture da 406 milioni di dollari riguardante la costruzione del primo impianto minerario Bitcoin raffreddato ad immersione nella regione del Medio Oriente. Una tecnologia, quella di raffreddamento, che consente di bypassare il problema rappresentato dalle temperature del deserto. Nonostante massime di 50°, le attrezzature minerarie sono messe in grado di funzionare in modo ottimale anche in un ambienti difficile.

Resta ora da capire se la repressione normativa degli Stati Uniti sul business delle criptovalute sia destinata a protrarsi. Senza un mutamento di rotta, il Medio Oriente potrebbe diventare una meta preferenziale per l’industria mineraria locale.

La Norvegia si appresta a dichiarare guerra al mining di Bitcoin. Vediamo cosa sta accadendo

L’Europa del Nord non è un posto molto accogliente, per i minatori di Bitcoin. Se le condizioni economiche sono molto favorevoli, per chi deve impiantare una mining farm, non altrettanto lo è l’atteggiamento della politica locale, risolutamente ostile ad un’attività vista alla stregua di un attentato all’ambiente.

Se negli anni passati era stato il governo svedese a proporsi come irriducibile avversario dell’attività di estrazione dei blocchi per la blockchain di BTC, ora è invece Oslo a minacciare il bando della stessa dal proprio territorio. Andiamo a vedere, quindi, cosa stia accadendo nella parte settentrionale del vecchio continente.

Mining di Bitcoin: la Norvegia si appresta a bandirlo?

La Norvegia sarebbe intenzionata a bandire il mining di Bitcoin dal proprio territorio. Almeno questo è quanto afferma il quotidiano VG, includendo a sostegno della propria tesi i commenti rilasciati sulla questione dal ministro della digitalizzazione, Karianne Tung, e da quello dell’energia, Terje Aasland.

Il grimaldello attraverso il quale si potrebbe conseguire tale risultato, perseguito ormai da tempo dal governo di Oslo, è l’imposizione della registrazione a tutti i data center operanti sul territorio norvegese. Ognuna delle strutture in questione, inoltre, sarebbe obbligata a designare un responsabile e, soprattutto, provvedere all’indicazione chiara della tipologia dei dati trattati e delle operazioni effettuate al proprio interno.

Una volta che i data center avranno ottemperato agli obblighi in questione, sarà più facile per le autorità preposte individuare quelli che operano nel mining di Bitcoin e, nel caso, espellerli dal Paese nordico. Lo ha spiegato in maniera molto chiara proprio Karianne Tung: “Proporremo una legge che regolerà l’industria dei data center per la prima volta […] La Norvegia sarà il primo paese in Europa a introdurre una regolamentazione dei data center. […] L’obiettivo è quello di regolare l’industria in modo da permetterci di chiudere le porte ai progetti che non vogliamo.”

E tra quelli non desiderati, c’è proprio il mining, come del resto spiegato da Terje Aasland: “È associato a emissioni importanti di gas serra ed è un esempio di business che non vogliamo in Norvegia.” Il solco sembra dunque tracciato.

Mining: quanto ne viene condotto in Norvegia?

Naturalmente, occorre anche cercare di capire quale sia la quantità di mining portata avanti nel Paese nordico. Secondo i dati relativi all’inizio del 2023, che sono stati pubblicati da Hashrate Index di Jaran Mellerud, il dato norvegese si attesterebbe a poco meno del 3% dell’hashrate globale. Si tratta di un dato che, pur non enorme, ha comunque ampie ricadute sul sistema energetico locale.

I gruppi che hanno scelto il Mare del Nord per la propria produzione mineraria, sono Bitfury, Bitzero, Bitdeer, COWA, Kryptovault e Arcane. Nel caso in cui l’orientamento del governo norvegese non dovesse mutare, ognuno di loro dovrà trovarsi nuovi Paesi verso i quali far convergere la propria forza lavoro e i relativi siti.

Considerato come ormai da anni la Norvegia mostri un atteggiamento non proprio benevolo verso il mining di Bitcoin, dovranno probabilmente iniziare a farlo subito. E, soprattutto, trovarsi aree geografiche diverse dal Nord Europa, ove tale atteggiamento è largamente condiviso.

In Svezia e Islanda il mining potrebbe presto essere bandito

La parte superiore del vecchio continente sembra ormai unificata dalla scarsa pazienza nei confronti dell’industria mineraria. Basti pensare in tal senso alla Svezia, che ormai da anni sta cercando di tessere alleanze per il bando definitivo del mining Proof-of-Work. Tanto da cercare di inserirlo nella discussione relativa al MiCA (Markets in Crypto Assets), senza però riuscire nell’intento.

Mentre l’Islanda, proprio di recente, ha espresso la propria intenzione di stoppare la fornitura di energia elettrica alle mining farm. Una decisione derivante in particolare dalla constatazione che la stessa inizia a scarseggiare, rendendo obbligatorio tagliarla ove non serve a famiglie e imprese realmente utili alla collettività. Un proposito che è stato reso pubblico dal primo ministro Katrín Jakobsdóttir.

Non sembra arduo pensare che ben presto l’intero Nord Europa possa chiudere al mining condotto con macchinari energivori, ovvero quello Proof-of-Work. Riducendo ulteriormente le aree ancora aperte a questo genere di attività.

Bitcoin, il bando del mining in Paraguay potrebbe costare 200 milioni al Paese sudamericano

Il bando al mining proposto recentemente in Paraguay fa molto discutere, anche all’interno del Paese sudamericano. Ove il provvedimento fosse effettivamente approvato, il conto per le casse statali sarebbe molto salato, attestandosi a quota 200 milioni di dollari.

A indicare il dato finanziario è stato Jaran Mellerud, co-fondatore e capo stratega del settore del mining di Hashlabs Mining. Un dato su cui il governo paraguayano dovrà operare una riflessione, per capire la linea di condotta da adottare.

Paraguay e mining: cosa sta accadendo

Il passato 4 aprile, il governo del Paraguay ha presentato un disegno di legge teso a fermare le attività di mining all’interno del Paese. Un bando che dovrebbe durare 180 giorni o il tempo necessario per poter promulgare un nuovo regolamento e consentire all’operatore della rete elettrica nazionale di garantire l’energia sufficiente ai minatori, senza dover sacrificare altre esigenze.

Il provvedimento è stato reso necessario dalla presenza in Paraguay di un gran numero di minatori illegali, che sottraggono alle altre attività il quantitativo di energia necessaria, causando continue sospensioni nella fornitura. A pagare il conto sono ora chiamati tutti i miners, compresi quelli legali, che avevano individuato nel Paese un sito ideale per la propria attività.

Un conto il quale, però, si prospetta salato anche per il Paraguay. Stando a quanto riferito da Jaran Mellerud, infatti, sarebbero non meno di 200 i milioni di dollari cui il governo di Asunción dovrebbe rinunciare ove decidesse di andare a fondo sulla questione. Ecco quanto detto al proposito da Mellerud: “Vietare il mining di Bitcoin potrebbe costare al Paraguay più di 200 milioni di dollari l’anno, ipotizzando che il Paese abbia 500 megawatt di miner legali che pagano 0,05 dollari statunitensi per kilowattora in spese operative.”

Dati su cui occorre riflettere

Per capire meglio il dato fornito da Mellerud, occorre sottolineare che il Paraguay è un Paese popolato da 6,8 milioni di persone, con un Prodotto Interno Lordo pari a 41,7 miliardi di dollari. Un dato fornito da Worldometers e relativo al 2022, che pone il Paese al 94° posto a livello globale. Possiamo quindi paragonare i 200 milioni in questione ad una finanziaria come quelle approvate di anno in anno nel nostro Paese, per dare una idea più esauriente della questione.

Il settore del mining fornisce un contributo non proprio irrisorio alla bilancia economica del Paraguay e proprio questo è un dato difficilmente ignorabile. Come, del resto, è difficilmente complicato ignorare il fatto che le oltre 50 operazioni clandestine condotte dai minatori illegali abbiano causato un danno pari a 60 milioni di dollari. Questo soltanto dal mese di febbraio in poi, costringendo le autorità ad intervenire per ovviare ad una situazione ormai fuori controllo.

Il Paraguay potrebbe diventare un sito privilegiato per il mining di criptovaluta

Nella discussione in atto, si va poi ad inserire un’altra considerazione di un certo rilievo. Le aziende minerarie degli Stati Uniti, infatti, già da tempo hanno espresso la propria intenzione di espandersi. Per farlo sono naturalmente alla ricerca di Paesi che prospettano condizioni ideali per i nuovi impianti.

Il Paraguay, insieme all’Argentina, presenta in effetti queste condizioni, a partire dalla fornitura di elettricità a basso costo. La centrale elettrica di Itaipu, posizionata nell’area dell’Alto Paraná, garantisce l’intero fabbisogno energetico del Paese, a costi estremamente convenienti. Come si è visto, però, le operazioni illegali si sono tradotte nell’interruzione frequente della fornitura, con danni finanziari di grande rilievo.

Una situazione che assomiglia molto a quella verificatasi in Kazakistan, qualche anno fa. In quella occasione il governo locale decise infine di risolvere la questione espellendo le mining farm dal Paese. Una situazione che potrebbe ripetersi ora in Paraguay, a causa delle operazioni illegali, il cui conto viene inesorabilmente presentato agli operatori legali.

Bitcoin, il mining potrebbe restare redditizio allo stesso modo dopo l’halving

Il quarto halving di Bitcoin è previsto per il prossimo 20 aprile, ma come nelle occasioni precedenti se ne parla ormai da mesi. In particolare, molti cercano di capire se anche in questa occasione le dinamiche innescate saranno le stesse.

Una domanda che si pongono anche i miners di BTC, alla luce degli imponenti investimenti fatti per poter condurre la loro attività. Soprattutto al fine di capire se la sua redditività sia destinata a mutare e di quanto.

La redditività del mining di Bitcoin potrebbe non risentire dell’halving

A dare una risposta in tal senso è stato Laurent Benayoun, CEO di Acheron Trading, nel corso di un’intervista rilasciata a Cointelegraph. Secondo lui, il mining di Bitcoin potrebbe anche non perdere in termini di redditività. Una tesi abbastanza sorprendente, considerato come si tratti di un vero e proprio dimezzamento delle ricompense spettanti per ogni blocco estratto.

A detta di Benayoun, infatti, la diminuzione di quanto spettante per il mining verrebbe ad essere compensata dall’aumento delle commissioni di transazione. Per tali si intendono le fee versate dagli utenti al fine di incentivare i minatori ad includere una transazione nel blocco successivo.

A rendere sorprendente quanto affermato è proprio l’esperienza storica. Ogni volta che si è verificato un halving, infatti, le aziende più piccole hanno dovuto abbandonare il campo. Non si capisce, almeno al primo impatto, perché stavolta dovrebbe essere diverso.

A spiegarlo è ancora Benayoun, secondo il quale ad incrementare le commissioni di rete interverrebbero stavolta non solo le inscription di Ordinals, ma anche la nascente finanza decentralizzata sulla blockchain (BTCFi). Ecco le testuali parole di Benayoun al proposito: “Abbiamo visto spuntare NFT sulla blockchain di Bitcoin e abbiamo assistito ad una serie di progetti che cercano di sviluppare la DeFi sulla rete di Bitcoin. Quindi tutti questi elementi stanno portando a un aumento delle fee di rete”.

Sempre a detta di Benayoun, il preventivato apprezzamento di Bitcoin, mixandosi con l’aumento delle commissioni di rete diminuirà sostanzialmente il numero delle mining farm costrette a cessare l’attività, rispetto ai cicli passati.

Alcuni dati per capire meglio

Per cercare di capire meglio quanto detto sinora, conviene a questo punto riferire alcuni dati. A partire da quello relativo alla media delle fee di transazione su BTC, che è attualmente pari a 4,88 dollari per operazione. Un dato in notevole calo se riferito a quello di un mese fa, quando viaggiava sui 16,13 dollari.

Stando ai dati di YCharts, inoltre le commissioni sono cresciute addirittura di oltre l’86% nel corso dell’ultimo anno. Un dato il quale può aiutare a comprendere meglio le dichiarazioni di Benayoun.

Molto interessante è poi quanto dichiarato, sempre a Cointelegraph, dal CMO di NiceHash, Joe Downie, secondo il quale il dato dirimente è la soglia dei 70mila dollari. Ove la quotazione dell’icona crypto restasse sopra quella soglia, per le aziende minerarie dedite a BTC il profitto sarebbe comunque assicurato per la gran parte di esse. A renderle tali il fatto che con le attuali ricompense dei blocchi il mining è già redditizio con un prezzo pari a 35mila dollari. Solo sotto tale soglia il lavoro sarebbe in perdita.

I dati snocciolati da Downie acquistano maggior valore alla luce del comportamento di Bitcoin nel corso degli ultimi giorni. Stando ai dati di CoinMarketCap, infatti, la sua quotazione è sotto la fatidica soglia dei 70mila dollari ormai dal primo giorno di aprile.

È ancora il CMO di NiceHash a ricordare un altro dato che andrebbe calato senz’altro nella discussione in atto. Stiamo parlando della qualità e dell’efficienza energetica dei dispositivi impiegati dai miners. Secondo Downie, infatti, gli halving di Bitcoin “…rendono meno redditizio l’hardware più obsoleto a causa della minore ricompensa ricevuta per il lavoro svolto dalla macchina”.

In pratica, solo i modelli più moderni ed efficienti dal punto di vista energetico assicureranno redditività. Contrariamente da quanto pensano in molti, quindi, il discrimine non è rappresentato dalle dimensioni dell’azienda mineraria, bensì dai macchinari impiegati.

Mining, il Paraguay lo vieta temporaneamente dopo che le farm illegali hanno paralizzato la rete elettrica

In Paraguay è stato presentato un progetto di legge teso a bandire temporaneamente il crypto mining e le attività correlate, a partire dallo staking, all’interno del Paese sudamericano. A giustificare il provvedimento è il problema rappresentato dai minatori illegali, i quali stanno rubando energia e provocando in tal modo continue interruzioni nella fornitura di elettricità. Un problema il cui conto sarà ora presentato anche alle aziende operanti in assoluta legalità nel settore dell’innovazione finanziaria.

Mining, il Paraguay va verso un bando temporaneo

Il progetto di legge in oggetto, è stato presentato il 4 aprile e andrebbe non solo a vietare “l’installazione di farm per il crypto mining” ma anche la “creazione, conservazione, custodia e commercializzazione” delle criptovalute.

A giustificare un raggio di azione così ampio sembra essere l’intenzione di riuscire a regolamentare nel migliore dei modi lo staking di asset digitali e le attività tese alla conservazione degli stessi, quindi i crypto wallet. Una necessità la quale torna periodicamente ad affacciarsi anche in questo angolo del Sudamerica, ormai da tempo.

Almeno per ora, il provvedimento dovrebbe restare in vigore per circa sei mesi, in attesa che sia promulgata una legge in grado di dare soluzione organica al problema. In questo lasso di tempo la National Electricity Administration, il fornitore di energia locale, non potrà erogare l’energia richiesta dai miner, nel caso in cui ciò comporti un danno per gli altri utenti paraguayani.

I minatori crypto hanno individuato il Paraguay come luogo ideale per la loro attività

Il provvedimento del governo paraguayano, testimonia come il Paese sia stato individuato come l’ideale per condurre attività di crypto mining. È la stessa bozza di legge, del resto, ad accennare ad un boom di questa attività lungo i confini nazionali. Una tendenza favorita, come è ovvio dalla particolare convenienza delle condizioni di fornitura dell’energia, in un Paese che abbonda di quella idroelettrica.

In particolare, i minatori hanno identificato la regione dell’Alto Paraná, nel sud-est del Paese, al confine con il Brasile e l’Argentina, come l’area ideale per la propria attività. Nella regione, infatti, è posizionata la diga idroelettrica di Itaipu, la terza più grande al mondo. L’impianto è in grado di fornire tutto il fabbisogno elettrico interno del Paese sudamericano.

Proprio in questa area, però, nel mese di febbraio hanno avuto luogo oltre 50 interruzioni nella fornitura di energia elettrica. Tutti derivanti dall’allaccio illegale dei crypto miners clandestini, che hanno pensato bene di sfruttare a modo loro questa abbondanza energetica. Secondo ANDE, il danno economico che ne consegue è però molto elevato. Le potenziali perdite annuali nell’Alto Paranà potrebbero infatti raggiungere i 60 milioni di dollari. Dati che non possono certo passare inosservati presso le autorità governative.

Sta arrivando la stretta per le attività crypto, in Paraguay?

Quanto sta accadendo, sembra il preludio ad una stretta delle attività connesse all’innovazione finanziarie, all’interno del Paraguay. È la stessa bozza di legge a sostenere che nuove norme sulle criptovalute darebbero modo al Paese di supervisionare meglio il settore.

Aggiungendo poi che proprio il vuoto legislativo sta causando problemi di non lieve entità al Paraguay. A provocarli, in particolare, la mancanza di tutele in grado di proteggere effettivamente i consumatori e la possibile utilizzazione di Bitcoin e Altcoin per sottrarre risorse al fisco o riciclare denaro proveniente da attività illecite.

Occorre anche sottolineare come già nel 2022 il governo abbia provato in tal senso. Il disegno di legge tendente a delineare un quadro normativo per criptovalute e mining, però, è stato cassato da Mario Abdo Benitez, all’epoca presidente. La motivazione addotta era il timore che un consumo eccessivo collegato all’attività di estrazione crypto fungesse da ostacolo al varo di un sistema energetico sostenibile. Preoccupazione che sta trovando una conferma, ora.

L’Islanda è intenzionata a sacrificare il mining a favore dell’agricoltura

L’Islanda è considerato un vero e proprio paradiso per il mining di criptovalute. La disponibilità di grandi riserve di energia rinnovabile, in particolare, ha spinto nel corso degli ultimi anni molte aziende minerarie a stabilirsi sull’isola.

Ora, però, la situazione sembra sul punto di modificarsi profondamente. Il governo locale, infatti, sembra intenzionato ad abbandonare i minatori di criptovaluta e concentrarsi invece sulla sicurezza alimentare. Una decisione derivante in particolare dal fatto che l’elettricità inizia a scarseggiare, rendendo obbligatorie decisioni forti in tal senso. Ad affermarlo è stata il primo ministro Katrín Jakobsdóttir.

L’Islanda sta per abbandonare il mining di criptovalute?

L’Islanda potrebbe presto sloggiare dal suo territorio le mining farm che vi si sono impiantate nel corso degli ultimi anni. L’ipotesi è stata ventilata da Katrín Jakobsdóttir nel corso di un’intervista rilasciata al Financial Times.

In particolare, Jakobsdóttir ha affermato che stanno montando le preoccupazioni sulla sostenibilità energetica, in quanto alcune industrie, che stanno vivendo carenze di energia nel corso dell’inverno, hanno iniziato a ricorrere a fonti energetiche non rinnovabili.

Occorre ricordare che per effetto della sua posizione in cima alla dorsale medio-atlantica, l’Islanda dispone di grandi quantità di energia rinnovabile. Una caratteristica la quale ha spinto molti minatori di Bitcoin a far rotta sull’isola, nel corso degli ultimi anni, in particolare dopo il bando della Cina al mining.

Ora, però, le richieste sono talmente aumentate che potrebbero mettere in pericolo altre attività molto più essenziali, a partire dall’agricoltura. Per impedire agli agricoltori di pagare il prezzo di scelte sbagliate, il governo islandese sta quindi prendendo in considerazione l’idea di abbandonare o, perlomeno, ridimensionare il mining.

L’Islanda è il primo produttore mondiale di hashrate pro capite

“Bitcoin è un problema mondiale… ma i data center in Islanda utilizzano una quota significativa della nostra energia verde”: queste le parole espresse dal Premier islandese al Financial Times. Un’affermazione che non teme smentite, poiché l’Islanda è ormai il il primo produttore mondiale di hashrate Bitcoin pro capite. Il consumo di energia del Paese, infatti, si attesta a circa 120 MW, gran parte del quale sfruttato dai minatori di Bitcoin.

A fronte di questo dato, ce n’è un altro che ha iniziato a provocare non poche discussioni: l’Islanda, infatti, produce appena l’1% dei cereali consumati al suo interno e solo il 43% delle verdure. Secondo le istituzioni locali è una situazione squilibrata, cui occorre prestare rimedio al più presto. La strada individuata è quella di un trasferimento di energia rinnovabile lontano dall’industria mineraria delle criptovalute, verso altri settori.

Il Nord Europa e il mining: un rapporto molto contrastato

La decisione dell’Islanda di riconsiderare il proprio settore minerario di Bitcoin conferma l’atteggiamento sempre più critico del Nord Europa nei confronti del mining di criptovalute. In particolare verso quello condotto tramite Proof-of-Work, considerato un vero e proprio attentato all’ambiente.

Nella crociata si è distinto in particolare il governo svedese. Nelle discussioni sul Markets in Crypto Assets (MiCA), il nuovo regolamento europeo sugli asset digitali, il governo di Stoccolma ha infatti cercato di inserire il bando all’attività mineraria, senza però riuscire a condurre in porto la sua missione.

Naturalmente, l’impostazione svedese ha provocato non poche rimostranze nelle aziende dedite al mining. La loro risposta si è tradotta nella pubblicazione di dati che dimostrerebbero come sia ormai largamente prevalente l’utilizzo di energia proveniente da fonti rinnovabili. Nel caso islandese, però, emerge che le altre industrie non riescono a reperire l’energia di cui necessitano, facendo ricorso a quella prodotta con fonti non rinnovabili.

Non è difficile immaginare che nel futuro la Svezia proverà di nuovo a riproporre il tema, forte dell’appoggio della Norvegia. L’Islanda, però, sembra aver scelto un approccio più concreto, senza furori ideologici, privilegiando un settore ritenuto molto più strategico come l’agricoltura. Una strada che potrebbe rivelarsi molto più proficua.

Greenpeace pubblica un rapporto sul mining e scoppia un vero putiferio

Greenpeace USA è tornata all’attacco dell’industria mineraria di Bitcoin, scatenando un vero e proprio putiferio. In un rapporto pubblicato nella giornata di martedì, la filiale statunitense dell’organizzazione no-profit globale si è avventurata in un discorso abbastanza pericoloso, affermando di voler mettere in evidenza i rapporti profondi del settore con l’industria dei combustibili fossili e con i “negazionisti del clima di destra”. Un discorso estremamente scivoloso, in quanto va a toccare non solo tematiche collegate al clima, ma anche la politica.

I presunti legami denunciati da Greenpeace USA sarebbero da ricondurre in particolare a quella che viene definita una vera e propria porta girevole tra l’industria mineraria di Bitcoin e l’amministrazione Trump. Una denuncia che arriva peraltro nel momento in cui l’ex presidente sta progressivamente ammorbidendo la sua contrarietà nei confronti dell’icona crypto.

L’attacco di Greenpeace USA a Bitcoin scatena un putiferio

L’attacco di Greenpeace nei confronti del mining di Bitcoin è molto violento. Partendo da una constatazione ben precisa: “Dato che Bitcoin fornisce un’ancora di salvezza per i combustibili fossili aiutando a mantenere in funzione gli impianti di carbone e gas sporchi, non dovrebbe sorprendere che le aziende di combustibili fossili e i negazionisti del clima siano entusiasti del settore”.

In pratica, proprio tali legami metterebbero in dubbio le argomentazioni che vorrebbero il mining di Bitcoin condotto in gran parte tramite fonti di energia rinnovabile, destinato a ridurre le emissioni di metano e stabilizzare le reti elettriche.

In tal senso Greenpeace USA non sembra avere dubbi: “La maggior parte dell’elettricità per il mining di Bitcoin proviene da petrolio, carbone e gas. Nel frattempo l’aumento della domanda di energia da parte delle miniere di Bitcoin sta mettendo a dura prova le reti elettriche e aumentando i costi per i contribuenti, mentre sta facendo poco o nulla per l’espansione delle energie rinnovabili.”

La risposta dei fans di Bitcoin non si è fatta attendere

La parte attaccata, naturalmente, non si è fatta pregare per rispondere a tono. Tanto da accusare l’organizzazione no-profit di diffondere consapevolmente disinformazione sull’uso energetico di Bitcoin.

I sostenitori del mining, in particolare, hanno ribattuto affermando che i benefici del settore sono stati messi nero su bianco all’interno di studi indipendenti. Per poi aggiungere che le affermazioni di Greenpeace USA si baserebbero su fonti obsolete e ampiamente sconfessate.

Ancora più precisa la risposta proveniente dalle aziende minerarie. È stato Pierre Rochard, vicepresidente delle comunicazioni di Riot Platforms, a ricordare che i miner Bitcoin che non utilizzano energia rinnovabile sono semplicemente destinati al fallimento. Per poi aggiungere: “Le emissioni derivanti dalla produzione di energia sono già regolamentate, la produzione rinnovabile è in rapida crescita negli Stati Uniti e lo stesso mining di bitcoin è a emissioni zero”.

L’energia rinnovabile costa meno ai minatori

Un dato di fatto confermato da Isaac Holyoak, Chief Communications Officer di CleanSpark, azienda che ha investito milioni di dollari per dare vita a infrastrutture energetiche in grado di assicurare energia pulita ai siti industriali. Con il risultato che l’azienda li alimenta utilizzando l’81% di energia priva di carbonio. Per poi sottolineare che le fonti rinnovabili sono più economiche per le aziende rispetto al carbone. La tesi di fondo è quindi implicita: quale vantaggio avrebbero le aziende minerarie ad usare energia più costosa?

Lo stesso Holyoak ha poi aggiunto: “Il rapporto di Greenpeace è una totale sciocchezza. I minatori di Bitcoin sono importanti per monetizzare l’energia abbondante ed in eccesso nelle comunità rurali e promuovere gli investimenti nella rete elettrica.”

Anche Kyle Schneps, vicepresidente delle politiche pubbliche presso Foundry, è voluto intervenire nella discussione. Lo ha fatto ricordando un fatto di rilievo: “Secondo il Lawrence Livermore National Laboratory, fino a 2/3 del consumo energetico negli Stati Uniti viene rifiutato o utilizzato in modo inefficiente: i minatori di Bitcoin utilizzano ciò che altrimenti verrebbe sprecato”.

I dati di Greenpeace USA sul mining sono obsoleti

Le risposte sono poi salite di tono, con il trascorrere delle ore. Il primo segnale del fastidio verso il rapporto è arrivato da Daniel Batten, cofondatore di CH4 Capital ed ex attivista di Greenpeace. Un personaggio direttamente interessato nella discussione, considerato come il suo fondo investa in aziende che estraggono Bitcoin utilizzando gas di discarica che altrimenti verrebbe bruciato generando esclusivamente inquinamento atmosferico: “È ormai ampiamente riconosciuto che Bitcoin utilizza principalmente energia sostenibile”.

Lo stesso Batten ha poi indicato uno studio risalente al passato settembre, elaborato da Bloomberg Intelligence. Al suo interno si sostiene che il mining di Bitcoin è ormai in grado di garantire un mix energetico sostenibile del 52,6%. Un dato molto diverso da quello che Greenpeace USA ha usato per il suo report.

I legami tra Chris Larsen e Greenpeace USA

Proprio il modo di manipolare le fonti ha quindi fornito la base per le accuse che ben presto sono iniziate a volare in direzione dell’associazione ambientalista. Lo stesso Batten, peraltro, ha notato che Greenpeace USA è stata ampiamente sorpassata da altre organizzazioni analoghe, passate da una posizione critica all’aperto sostegno di BTC. Una svolta determinata da una maggiore conoscenza dei meccanismi su cui si basa il mining.

Da qui all’aperto attacco, il passo è stato molto breve. Ad incaricarsene è stato Yan Pritzker, co-fondatore di Swan. È stato lui ad affermare senza tanti infingimenti: “Il braccio anti-Bitcoin di Greenpeace è apertamente finanziato da Chris Larsen di Ripple e non è indipendente e imparziale”.

Una tesi rafforzata dal fatto che, nel marzo del 2022 Greenpeace USA e l’Environmental Working Group, sostenuti da Larsen, hanno lanciato una campagna da 5 milioni di dollari tesa a chiedere la modifica del codice di Bitcoin in modo da spingere la rete a consumare meno energia.