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Tag: blockchain

L’intero settore del lusso si indirizza verso la blockchain: vediamo perché

L’industria del lusso sembra avviarsi con decisione verso la blockchain. A testimoniarlo è una riunione tenutasi la passata settimana a Parigi, presso l’NFT Paris, a poca distanza dalla Torre Eiffel. Un evento in cui hanno molti dirigenti di alto rango dei principali marchi mondiali di moda, automobili, orologi e alcolici si sono mescolati con importanti personalità del mondo crypto al fine di discutere della possibile sinergia tra i due settori.  

Sino ad oggi, i contatti tra aziende del lusso e blockchain sono stati abbastanza sporadici. Se è vero che sono stati condotti esperimenti in tal senso, non si è trattato di un rapporto organico. Come invece potrebbe diventare nel corso dei prossimi mesi, stando a quanto rivelato da Romain Carrere, CEO di Aura Blockchain Consortium.

Lusso e blockchain, un rapporto destinato a consolidarsi

L’Aura Blockchain Consortium è un vero e proprio collettivo cui partecipano i principali marchi del lusso che hanno intenzione di dare vita ad un approccio unificato nei confronti della tecnologia su cui si basano le criptovalute.

Tra i marchi che hanno aderito ad Aura ci sono molti dei giganti del lusso, a partire da Louis Vuitton, Mercedes Benz, Prada, Dior, Bulgari e Cartier. Aziende che si trovano in questo momento di fronte ad un vero e proprio bivio, quello rappresentato dalle nuove normative dell’Unione Europea sui passaporti per i prodotti digitali (DPP).

Si tratta di un pacchetto di norme che l’UE ha deciso di mettere in campo nel preciso intento di conseguire la sostenibilità nei processi produttivi. La loro entrata in vigore è prevista tra il 2026 e il 2027 e da quel momento anche i grandi marchi del lusso dovranno offrire alla propria clientela informazioni dettagliate sulla composizione e l’origine dei propri prodotti.

Si tratta in effetti di un provvedimento in grado di impedire la contraffazione, una vera e propria piaga per il settore, e di garantire al meglio la clientela sull’affidabilità delle aziende cui si appoggia. Un obbligo, quindi, ma anche un’occasione per aziende che si rivolgono ad una clientela facoltosa e vogliosa di status symbol. Non soltanto nell’Occidente più evoluto, ma anche nei Paesi in fase di grande sviluppo, a partire dalla Cina.

La necessità di creare veri e propri standard

I DPP non prevedono nulla, per quanto riguarda la blockchain. Proprio la necessità di tracciare l’intera filiera lungo cui si muovono i prodotti sembra però aprire grandi opportunità alla tecnologia dei registri distribuiti (DLT). Il motivo è molto semplice: i dati immessi al suo interno sono immodificabili. Rendono possibile garantire il luogo ove una merce è stata prodotta e i materiali che la compongono.

Questa capacità di tracciamento offre quindi garanzie alle stesse aziende. Aziende che, però, non vogliono limitarsi a rassicurare i clienti, ma offrire loro un’esperienza realmente coinvolgente. A spiegarlo è lo stesso Carrere: “Se crei un passaporto del prodotto digitale che va solo a soddisfare i requisiti minimi del regolamento UE, non otterrai il coinvolgimento del cliente, poiché questo è alla ricerca di un’esperienza aggiuntiva.”

Per farlo, è necessario un vero e proprio salto di qualità. E ad offrirlo potrebbe essere proprio la blockchain, creando uno standard di settore di DPP rivolti proprio ai marchi del lusso. Proseguendo in tal modo quella collaborazione che si è già stabilita tra essi e Web3.

Cosa si prospetta?

Per cercare di offrire esperienze aggiuntive e, soprattutto, esclusive ai propri clienti, i grandi marchi del lusso potranno disporre di un vero e proprio portale on-chain. All’interno del quale sarà non soltanto possibile testimoniare l’autenticità dei prodotti, ma anche permettere ai clienti di esplorare le funzionalità ad essi associate.

Per farlo, le aziende possono praticare la strada che riterranno più congeniale. L’incorporazione dei DPP negli articoli di moda potrebbe avvenire tramite la cucitura di chip NFT, oppure adottando l’impronta digitale delle immagini tramite AI, ovvero scansionando le foto dei prodotti in maniera tale da verificarne origine e autenticità tramite i dettagli colti dai pixel.

L’obiettivo finale prospettato da Aura è quindi uno standard in grado di riunire sotto una sola bandiera marchi che, nella vita reale, sono abituati a contendersi i clienti inscenando vere e proprie guerre commerciali. Un’unione resa possibile dalla necessità di aderire alle normative UE, ma anche di contrastare una contraffazione sempre più insidiosa.

AVS, tutto ciò che occorre sapere sui servizi convalidati direttamente

Alcune applicazioni blockchain sono prive di propri meccanismi di consenso. Per ovviare a questa lacuna utilizzano gli Actively Validated Services (AVS) tipici del protocollo EigenLayer. In tal modo hanno la possibilità di stabilire una efficace integrazione con i meccanismi di sicurezza di Ethereum in sede di convalida. 

L’approccio che ne consegue va in pratica a ridurre i costi operativi e ad aumentare i livelli di sicurezza delle dApps (applicazioni decentralizzate) interessate. Proprio per questo nel corso degli ultimi mesi hanno attratto una forte attenzione da parte di molti sviluppatori.

Cosa sono gli AVS

Per Actively Validated Service (AVS) si intende un’applicazione blockchain che avendo come base la Ethereum Virtual Machine, con i suoi noti livelli di sicurezza, è in grado di fornire servizi tali da estenderne la portata.

I servizi in questione vanno a includere ad esempio le applicazioni decentralizzate, i bridge cross-chain e le reti layer 2, ma non solo. Possono adottare diversi meccanismi di consenso, a partire naturalmente da Proof-of-Stake (PoS) e Proof-of-Work (PoW), per i processi di convalida delle transazioni, integrandosi al meglio con la EVM per garantire il massimo di sicurezza.

L’innovazione apportata da EigenLayer può essere considerata importantissima, per l’intero ecosistema blockchain. In precedenza, infatti, i protocolli dovevano avere propri meccanismi di consenso, coi problemi finanziari e di sicurezza che ne derivavano. Ora, invece, hanno facoltà di utilizzare quelli della EVM, con una semplificazione in termini di procedura e una conseguente riduzione di costi.

Come funzionano gli AVS

Come funzionano gli Actively Validated Service? Il punto di partenza è l’integrazione con il meccanismo di consenso di Ethereum, il Proof-of-Stake, resa possibile da EigenLayer. Grazie a questa integrazione, le blockchain in questione possono godere della stessa sicurezza di ETH, pur non avendo un meccanismo di tal genere.

Il modus operandi per arrivare al conseguimento di tale risultato si fonda sui seguenti fattori:

  • consenso decentralizzato, mediante Proof-of-Stake o Proof-of-Work. In tal modo è possibile beneficiare dell’apporto del sistema di convalida della Ethereum Virtual Machine per conseguire autonomia in tal senso;
  • ripristino di Ethereum su EigenLayer, conseguendo di fatto lo stesso livello di sicurezza che caratterizza la EVM e le sue transazioni native, con una sensibile riduzione delle possibili vulnerabilità agli attacchi di pirateria informatica;
  • coinvolgimento degli operatori, derivante dalla possibilità ad essi accordata di ricevere ulteriori ricompense per la convalida delle transazioni, oltre a quelle di cui già godono fungendo in tal senso su Ethereum.
  • sensibile riduzione in termini di costi, proprio per la mancata necessità di creare meccanismi separati, grazie alla delega delle operazioni di sicurezza alla EVM.

Possiamo quindi dire che il fulcro del funzionamento degli AVS consiste nell’utilizzo dell’ormai consolidata struttura di sicurezza di Ethereum facendo ricorso al restaking di EigenLayer. Ne consegue il conseguimento di una procedura per la convalida delle transazioni non solo sicura e scalabile, ma anche più conveniente in termini di costi.

Quali sono i rischi collegati al loro utilizzo

Occorre infine sottolineare che i profili di innovazione portati nella criptosfera dagli Actively Validated Services (AVS) devono essere attentamente soppesati. Se i vantaggi sono notevoli, sull’altro piatto della bilancia occorre mettere alcuni rischi di non poco conto.

I più evidenti sono rappresentati dalla complessità dell’integrazione con Ethereum, cui si accompagnano le complicazioni collegate alla necessità di gestire tecnologia blockchain di ultima generazione. Mentre sembra meno foriera di pericoli la delega apportata alla EVM per quanto riguarda la sicurezza, alla luce della sua ormai risaputa solidità.

Per quanto riguarda invece i validatori, da parte loro devono tenere nel debito conto i rischi di perdita cui vanno incontro partecipando al sistema AVS. Devono infatti rispettare gli standard di conformità, per non essere colpiti dalle sanzioni previste dai meccanismi di taglio.

Dtube, tutto sulla piattaforma blockchain che si propone di contrastare YouTube

DTube (DTC), acronimo di Decentralized Tube, si propone come una seria minaccia nei confronti di YouTube. Si tratta infatti di una piattaforma decentralizzata di streaming video costruita su Steemit, a sua volta rete social media su blockchain che ha come modello di riferimento Reddit.

Coloro che lo utilizzano hanno l’opportunità di guadagnare token, creando o caricando materiale in grado di suscitare attenzione tra gli utenti. Proprio come fanno su YouTube, ove invece la remunerazione avviene in valuta tradizionale.

Il modello di piattaforma decentralizzata per lo streaming video ha immediatamente attirato grande attenzione. In particolare tra i trader alla costante ricerca di soluzioni su blockchain che si propongono di dare risposte ad esigenze della vita reale.

DTube: cos’è e cosa si propone

DTube è una piattaforma di video streaming su blockchain. Va quindi a proporre un nuovo modello decentralizzato in cui i creatori di contenuti vengono premiati in criptovaluta. Anche in questo caso, siamo quindi nel campo della SocialFi, un nuovo concetto di socialità online che cerca di restituire ai creatori un maggior controllo dei propri contenuti, con una remunerazione più adeguata allo sforzo profuso.

Guadagnare su DTube è in effetti estremamente semplice e potrebbe permettere alla piattaforma di togliere quote di mercato a YouTube. Soprattutto se quest’ultimo, che continua comunque a macinare numeri di grande rilievo, non riuscisse a risolvere i problemi di censura che stanno suscitando grandi discussioni tra gli utenti.

Per poter acquisire i token nativi del social, noti come DTC, infatti, occorre soltanto caricare o votare i contenuti. All’interno della piattaforma possono essere individuate quattro categorie di utenti: i partecipanti, gli inserzionisti, i follower e gli spettatori. I premi per le varie interazioni spettano soltanto a chi possiede DTC.

Le differenze tra DTube e YouTube

Il punto di partenza che ispira il funzionamento di DTube è la perdita di fiducia degli utenti nei social media centralizzati. Un portato della mancanza di voce in capitolo sul materiale postato al loro interno, dei ripetuti tentativi di censura a danno delle voci sgradite e della mancanza di sicurezza sui dati personali. Basta pensare in quest’ultimo caso a quanto accaduto con lo scandalo Cambridge Analytica, per comprendere le ragioni dei critici.

Per cercare di evitare questi errori, ogni contenuto postato sulla piattaforma è sottoposto ad esame da parte degli stessi utenti, invece che dei moderatori. Quando viene individuato un contenuto non adatti può essere vietato, ma solo al termine di una procedura tesa ad evitare abusi, come accade anche nei casi di violazione del copyright.

Ne consegue una serie di differenze significative tra i due social, tra cui le più importanti sono le seguenti:

  • Invadenza pubblicitaria, che è molto più pronunciata nel caso di YouTube, ove gli utenti sono costretti a guardare spot prolungati, prima di poter accedere ai contenuti desiderati. L’esperienza su DTube avviene invece senza soste e problemi di alcun genere.
  • Libertà di espressione, la quale può essere meglio tutelata su una piattaforma decentralizzata come DTube. Chi posta i propri contenuti può farlo senza eccessivi timori di censura o violazioni di copyright. In tal senso occorre sottolineare che nel caso in cui le aziende ritengano leso il proprio diritto al diritto d’autore non possono rimuovere i contenuti incriminati se non passando attraverso una procedura ben precisa.
  • Remunerazione dei contenuti video, che risulta meno impegnativa su DTube. Su YouTube, infatti, occorre macinare visualizzazioni e like, per poter sperare in una remunerazione di rilievo. Una scelta che penalizza i principianti, a differenza di quanto accade si DTube. Su DTube, però, si viene pagati esclusivamente in denaro virtuale. È quindi difficile capire quanto si stia effettivamente guadagnando con un proprio contenuto, considerata la tradizionale volatilità delle criptovalute.
  • Visibilità nei motori di ricerca, che è limitata a chi posta contenuti su YouTube, al momento il secondo social media in ordine d’importanza. Mentre i contenuti di DTube non sono considerati dai motori di ricerca. Ne consegue che chi non è iscritto a questa piattaforma difficilmente entrerà in contatto con un contenuto postato al suo interno.

Le prospettive di DTube

Abbiamo quindi esaminato le principali differenze tra DTube e YouTube, un raffronto doveroso considerato come il primo si proponga in qualità di alternativa decentralizzata al primo. Per capire quali siano le reali prospettive di DTube, occorre però sottolineare le due reali criticità che lo caratterizzano:

  • Reali opportunità di guadagno, che sono limitate da un punto di vista temporale. Una volta postato il proprio contenuto, il creatore viene remunerato soltanto per sette giorni. Una differenza significativa con la piattaforma concorrente, che consente invece la remunerazione senza limiti temporali;
  • Possibilità di revisionare il contenuto e rimuoverlo, che è praticamente impossibile su DTube, proprio per il fatto che a fare da base è la blockchain. Com’è noto, su questo genere di infrastruttura i dati, una volta inseriti, non possono più essere modificati. E, di conseguenza, neanche possono essere rimossi, a differenza di quanto accade su YouTube.

Si tratta in effetti di due criticità di non poco conto, le quali potrebbero infine rivelarsi una vera e propria zavorra per DTube. Soprattutto alla luce della forza del suo diretto concorrente, che non sembra intenzionato a lasciare spazi alla concorrenza, neanche quella su blockchain.

Fraud Proof: cos’è e a cosa serve in ambito blockchain

I rollup hanno rappresentato un vero fattore di svolta per la blockchain. Grazie ad essi, infatti, è possibile dare vita a soluzioni layer 2 in grado di agevolare il conseguimento di maggiori livelli di scalabilità per le blockchain di prima generazione.

Un fattore di svolta soprattutto per la Ethereum Virtual Machine. Com’è noto, infatti, la crezione di Vitalik Buterin rappresenta il vero e proprio cuore pulsante della finanza decentralizzata. Il fatto di essere un punto di riferimento per un gran numero di progetti DeFi, però, si traduce in uno svantaggio, quello della possibile congestione della rete quando i livelli di traffico si innalzano.

Per impedire lo stress della blockchain principale, sono state adottate varie soluzioni, che spostano una parte rilevante del lavoro collegato alle transazioni sul secondo livello. In alcuni casi, però, sono previste procedure che possono agevolare le frodi. Per impedirle sono state messe in campo le fraud proof. Andiamo a vedere più da vicino di cosa si tratti.

Fraud proof: cosa sono e a cosa servono

In ambito blockchain, per fraud proof si intende quella prova crittografica la quale può essere adottata da un verificatore al fine di contestare la validità di una transazione. Una possibilità collegata in particolare alle procedure che prevedono l’impiego di optimistic rollup, ovvero quei meccanismi che si propongono di velocizzare i processi di verifica dando per acquisita a prescindere la legittimità di un’operazione.

Per evitare che qualche utente di una blockchain possa approfittare di questo presupposto, è stata quindi prevista la prova di frode. Una volta che un validatore abbia riscontrato l’illegittimità di una transazione, può inviare il risultato della sua indagine agli altri nodi della blockchain, per impedire che la frode possa andare a buon fine, con l’aggiunta del blocco in cui è contenuta la transazione incriminata alla catena.

Naturalmente, le fraud proof non possono essere utilizzate in maniera indiscriminata. Ove ciò accadesse, infatti, si creerebbero le premesse per bloccare anche la rete layer 2 da parte di malintenzionati. Persone che non sono interessate all’accuratezza dei dati on-chain, bensì al danneggiamento dell’intero sistema, per propri fini.

Perché sono state messe in campo le fraud proof?

Lo scopo di queste dimostrazioni è abbastanza evidente: servono in pratica a salvaguardare la blockchain impedendo che le transazioni errate possano essere aggiunte alla catena, senza possibilità di rimuoverle. Come abbiamo ricordato, però, ci deve essere un limite anche alla loro proposizione, in quanto le risorse computazionali di una blockchain devono comunque essere preservate.

Per riuscire a impedire un ricorso indiscriminato a queste prove, si mettono quindi in campo vari accorgimenti. Il loro scopo è ben preciso, ovvero preservare i necessari livelli di scalabilità dei sistemi in cui vengono calate.

Il più utilizzato è quello che prevede un arco temporale per l’approvazione definitiva di una transazione. Se entro questo lasso di tempo non sono avanzate obiezioni l’operazione viene impacchettata insieme alle altre e spedita al livello superiore per la definitiva convalida.

Se, al contrario, in questo periodo arriva una contestazione, si possono aprire due strade: la convalida dello stato della transazione o il suo rigetto. Nel primo e nel secondo caso, però, ci sono delle penalità per chi ha torto.

Se a errare è stato chi ha sollevato la questione, l’interessato viene penalizzato sotto il profilo reputazionale, venendo estromesso dalla funzione ricoperta, o in termini finanziari, con la confisca della cauzione versata per la fraud proof. Una parte di essa andrà a ripagare l’utente per il danno che può aver patito per il ritardo nel processo di convalida della sua transazione, con il resto che può essere restituito al ricorrente o sottoposto a coin burn.

Ove, al contrario, il ricorso viene accolto, il ricorrente viene premiato con una parte di quanto versato dall’utente per condurre in porto la sua transazione. In questo caso l’operazione viene annullata e il registro torna allo stato precedente.

Conclusioni

La fraud proof è uno dei meccanismi chiamati a conferire sicurezza alle blockchain layer 2, in particolare quelle incentrate sugli optimistic rollup. Questi sistemi sono infatti diventati fondamentali per aumentare la scalabilità di Ethereum e altre reti di primi livello, sgravandole di parte del lavoro collegati alle transazioni.

Per favorire la scalabilità, però, si rischia di lasciare sul terreno qualcosa in termini di sicurezza. La prova di frode è uno dei meccanismi correzionali che sono stati messi in campo per contemperare le esigenze si sicurezza e velocità.

Se questo è il vantaggio che assicurano, ci sono però alcune zone d’ombra da valutare. A partire dalla necessità di una costante comunicazione tra le parti, per impedire che la necessità di evitare comportamenti scorretti apra le finestre al problema uscito dalla porta, quello della limitata velocità della rete.

Per cercare di far funzionare tutto al meglio, quindi, è stato predisposto un meccanismo che comporta incentivi e penalizzazioni. Un primo passo importante per l’ottimizzazione dei processi, cui in futuro dovranno esserne aggiunti altri, per riuscire ad ottenere risultati sempre più performanti.

Fairshake, anche il mondo della blockchain ha il suo strumento di pressione politica

Anche il settore blockchain ha il suo braccio politico. Si chiama Fairshake e della sua esistenza si è iniziato a parlare per un finanziamento pari a 4,9 milioni di dollari. A rilasciarlo sono stati i fratelli Vinklevoss, Tyler e Cameron, i cofondatori dell’exchange di criptovalute Gemini.

A darne notizia è stato Bloomberg, citando i documenti federali, dai quali risulta che il PAC (Political Action Committee) vantava ben 72,8 milioni di dollari in cassa. Risultato dei cospicui finanziamenti rilasciati oltre che dai fratelli Vinklevoss da realtà del settore come ARK Invest, Andreessen Horowitz, Ripple Labs, Circle, Coinbase, Jump Crypto, Payward, Electric Capital Partners e Blockchain Capital.

Fairshake: anche la blockchain scende in campo

La politica statunitense è da sempre caratterizzata dalle lobby, organizzazioni che si propongono di fare pressioni sui rappresentanti. Lo scopo è abbastanza evidente: tutelare gli interessi di ristretti gruppi e fare in modo che le sedi parlamentari ne tengano conto

Fairshake non sfugge alla regola, ma è la testimonianza del fatto che anche l’innovazione finanziaria vuole far contare il proprio peso in questo particolare ambito. Soprattutto in considerazione del fatto che il 2024 è l’anno delle presidenziali, negli Stati Uniti e l’aria che spira sulle criptovalute non è delle più salubri. A dimostrarlo le parole di Donald Trump contro le CBDC e il recente disegno di legge presentato dalla senatrice Elizabeth Warren.

Il PAC crypto si propone quindi di fornire un sostegno, anche di carattere finanziario, a quei candidati che hanno mostrato apertura mentale nei confronti degli asset virtuali. E anche di contrastare quelli che invece si sono segnalati per la contrarietà nei loro confronti, come la candidata senatrice Katie Porter.

Cosa sono i PAC

Come abbiamo già sottolineato, Fairshake è un PAC che si profila alla stregua di strumento di promozione delle criptovalute all’interno del mondo istituzionale. Si tratta di comitati politici indipendenti, i quali hanno facoltà di rivolgersi ad aziende, privati, sindacati e gruppi di vario genere per raccogliere fondi. Denaro destinato ad alimentare le campagne dei candidati favorevoli a determinate tematiche.

Fairshake è il PAC espresso dal settore blockchain. A destare scalpore è proprio il fatto che stavolta la finanza decentralizzata non si è limitata a protestare contro singole iniziative politiche, come fatto nel passato, ma ha deciso di scendere in campo direttamente. Un impegno il quale sembra la conseguenza della discussione sulle criptovalute improvvisamente entrata in maniera organica nella politica a stelle e strisce.

Già in passato alcune figure istituzionali avevano dimostrato decisa ostilità nei confronti di Bitcoin e Altcoin. O, come accaduto nel caso di Maxine Waters, fatto fuoco e fiamme per impedire che potessero trasformarsi in un pericolo per la democrazia. Come accaduto quando Facebook aveva provato a varare la sua stablecoin, Libra.

Ora, però, il tema è entrato in maniera organica nel dibattito politico. Se le parole di Trump sul dollaro digitale sembrano destinate ad accarezzare la contrarietà allo statalismo di una parte dell’elettorato statunitense, il progetto di legge presentato dalla Warren, intitolato Digital Asset Anti-Money Laundering Act (DAAMLA), è stato vissuto come un attacco diretto all’innovazione finanziaria. Tanto da spingere la Blockchain Association a inviare una lettera alla Commissione per i servizi finanziari della Camera e alla Commissione bancaria del Senato. Una missiva in cui si prefigura addirittura la perdita di competitività del sistema finanziario statunitense, ove il provvedimento fosse approvato.

Con l’intensificarsi del dibattito sugli asset virtuali, non stupisce quindi la discesa in campo di Fairshake. Una decisione la quale, però, ha a sua volta destato preoccupazioni. I critici, infatti, hanno apertamente sostenuto la tesi che le risorse finanziarie da essa utilizzate potrebbero influenzare negativamente il processo democratico. La tesi è che le decisioni politiche prese al riguardo potrebbero andare a favore di pochi e a danno della collettività. Che è in fondo la stessa accusa mossa da sempre verso le lobby, tutte.

Oval3, il Fantarugby è sbarcato su Bitget

Oval3 può essere considerato la versione rugbistica di Sorare, il fantacalcio su blockchain. Nel suo caso, infatti, il gaming ha come oggetto il mondo della palla ovale, un settore il quale vanta un gran numero di appassionati in ogni parte del globo.

Proprio per questo il suo recente sbarco su Bitget, avvenuto alla fine dell’anno passato è stato seguito con un certo interesse. Considerato il successo riscosso a livello planetario dall’ultima Coppa del Mondo, giocata in Francia e terminata con il successo degli Springbok, il nome con cui viene indicata la nazionale del Sudafrica, un interesse che non stupisce.

Oval3: lo sbarco su Bitget è fondamentale per la sua crescita

Oval3 è un vero e proprio pioniere nel mondo del rugby, in cui sta in pratica svolgendo il ruolo condotto da Sorare per il calcio. Il gioco è stato sviluppato da BAMG Sport, azienda che si era già segnalata per il lancio di un suo gioco di fantasy rugby Web2, e vanta oltre 55mila utenti attivi, grazie ai quali ha riportato un notevole successo internazionale. 

A consentirlo è stata in particolare la collaborazione instaurata con il capitano della selezione francese, Antoine Dupont, proclamato di recente miglior giocatore dell’anno. Oltre che l’enorme risonanza di cui è stata gratificata la recente Coppa del Mondo, svoltasi tra l’inizio di settembre e la fine di ottobre dello scorso anno. Un evento il quale ha accresciuto il feeling degli appassionati di sport con la palla ovale, tramutandosi in un accresciuto interesse per il merchandising che ruota intorno al rugby.

Anche i giochi di fantasy rugby che integrano la tecnologia Web3 hanno potuto approfittare di questa crescita di interesse e Oval3 ne è la più eloquente testimonianza. L’azienda, infatti, ha trovato una sponda nell’exchange di criptovaluta Bitget, che ha incluso OVL3, il token collegato al gioco, nelle sue contrattazioni.

Occorre sottolineare che Oval3 è sbarcato di recente anche su Uniswap, il più importante exchange decentralizzato (DEX). Segno evidente di un interesse sempre più forte da parte del settore verso una soluzione di gioco la quale sembra in grado di ripercorrere le orme di Sorare.

Oval3: di cosa si tratta

Oval3 è un gioco su blockchain che si propone di ripercorrere il cammino di Sorare, rivolgendosi però al mondo del rugby. Anche in questo caso, infatti, gli utenti sono chiamati a formare squadre da impiegare in sfide online, con il risultato collegato alle prestazioni reali dei giocatori che le formano. Il gioco è estremamente coinvolgente, sperando che nel caso della palla ovale non si registrino le stesse distorsioni che stanno caratterizzando la versione calcistica.

Anche Oval3 ha deciso di coinvolgere nel progetto le squadre e le leghe nazionali più note. A partire dalla Francia, la cui federazione ha siglato un contratto il quale concede all’azienda una licenza esclusiva per lo sfruttamento commerciale della sua immagine.

Nell’immediato futuro è lecito supporre che anche le altre leghe e federazioni sigleranno contratti di questo genere, consentendo a Oval3 di allargare il suo raggio d’azione. Per capirne le potenzialità, basta ricordare che il suo marketplace vede la presenza già ad oggi di oltre 10mila utenti. Una platea la quale ha già permesso la generazione di oltre mezzo milione di dollari nelle vendite di NFT collegati al gioco.

Inoltre, l’azienda ha dato vita ad una raccolta di fondi che è stata premiata sin qui dall’afflusso di 1,8 milioni di dollari, ad opera di Intervalle Capital. Cui si sono andati ad aggiungere altri 850mila dollari collezionati nel corso di una vendita privata.

Capitali che potranno essere utilizzati per i piani di sviluppo dell’azienda, risultando quindi preziosi per il suo successo commerciale. Oval3, dal canto suo, sta dando vita ad una campagna pubblicitaria molto aggressiva, incentrata su eventi esclusivi rivolti ai tifosi. Tra gli epicentri di queste iniziative è da sottolineare la presenza di Tolosa, città ove il rugby vanta un gran numero di appassionati.

Blockchain Association: la legge proposta dalla Warren minaccia il vantaggio strategico USA

La presentazione di una proposta di legge sugli asset virtuali, dal titolo “Digital Asset Anti-Money Laundering Act”, da parte della senatrice Elizabeth Warren, ha provocato l’immediata risposta da parte della Blockchain Association.

L’associazione che riunisce molte delle maggiori realtà di settore, sorta su impulso di Elon Musk, ha infatti inviato una lettera alla Commissione per i servizi finanziari della Camera e alla Commissione bancaria del Senato. All’interno della missiva sono contenute le preoccupazioni per le implicazioni del provvedimento.

DAAMLA: cosa sostiene la Blockchain Association?

Il nuovo progetto di legge della senatrice Warren ha già riscosso il sostegno di altri 19 senatori. Segno evidente che il mondo politico intende portarlo avanti. Per la Blockchain Association, è quindi scattato un vero e proprio campanello d’allarme.

Per cercare di fronteggiare la situazione, l’associazione ha deciso nuovamente di prendere carta e penna per scrivere ai rappresentanti della politica a stelle e strisce. Una prima comunicazione era infatti stata inviata nel passato mese di novembre, firmata da 40 personalità provenienti da settori come la sicurezza nazionale, l’intelligence e l’esercito statunitensi. Seguita da una visita a Capitol Hill da parte della Blockchain Association proprio per discutere del tema.

La seconda missiva è stata invece firmata da 80 persone che vantano competenze più specifiche nel settore della blockchain. Se nel primo caso si mirava a confutare la narrazione tendente a collegare gli asset digitali all’attacco condotto da Hamas contro Israele che ha poi scatenato la reazione di Netanhyau e l’occupazione della striscia di Gaza, stavolta l’attenzione si focalizza sulle possibili implicazioni che il DAAMLA potrebbe avere da un punto di vista politico.

È a rischio il vantaggio strategico degli Stati Uniti

Secondo la Blockchain Association, se venisse approvato il disegno di legge Warren così com’è, sarebbe a rischio non solo l’occupazione, ma anche il vantaggio strategico USA. Il sacrificio di decine di migliaia di posti di lavoro, peraltro, non garantirebbe reale efficacia nella lotta agli illeciti crypto.

La lettera va anche considerata una risposta ad una precedente comunicazione della Warren. La senatrice, infatti, aveva reagito alla prima missiva accusando l’associazione di minare gli sforzi bipartisan del Congresso per contrastare l’utilizzo di criptovaluta da parte delle organizzazioni terroristiche. E per farlo utilizzava impropriamente ex funzionari della difesa, della sicurezza nazionale e delle forze dell’ordine. Le varie lettere del carteggio sono peraltro state inviate al think tank Coin Center e a Coinbase.

La nuova lettera a Warren della la Blockchain Association muove proprio dalla precedente mossa della Warren. Afferma in pratica che la senatrice ha sollevato dubbi su motivazioni e integrità di numerosi veterani dell’esercito e dell’intelligence statunitense. E, soprattutto, lo ha fatto senza affrontare realmente la sostanza delle preoccupazioni da essi espresse.

Cosa potrebbe accadere ora

Le schermaglia tra le controparti sembrano destinate ad intensificarsi nei prossimi mesi. L’attività della Blockchain Association può infatti essere considerata alla stregua di lobbying, attività ormai di casa nelle stanze del potere statunitense.

È però difficile capire quale direzione potrebbe prendere la vicenda. Il presidente della commissione bancaria del Senato, il senatore Sherrod Brown, democratico dell’Ohio, non ha infatti ancora preso posizione nella discussione in atto.

Considerata la sua influenza, proprio lui potrebbe rivelarsi l’ago della bilancia. Nella sua veste istituzionale dovrà senz’altro esaminare le argomentazioni della Blockchain Association. Argomentazioni le quali non mancano di incisività, considerata la possibile perdita di posti di lavoro e, soprattutto, i riflessi sullo status di grande potenzia globale del Paese.

La lettera è molto esplicita al riguardo: “Il Digital Asset Anti-Money Laundering Act (DAAMLA) minaccia il vantaggio strategico della nostra nazione, minaccia decine di migliaia di posti di lavoro negli Stati Uniti e ha un impatto minimo sugli attori illeciti che prende di mira”.

Stando ai rilievi dell’associazione, la domanda che si dovrebbero porre i politici è quindi la seguente: questi inconvenienti sarebbero ricompensati da vantaggi reali nella lotta agli illeciti finanziari? La risposta è chiaramente negativa, secondo le realtà del mondo blockchain.

Anche minatori e validatori sarebbero interessati dalla questione

Tra gli aspetti più controversi del disegno di legge c’è quello relativo ai minatori Bitcoin e ai validatori di altre blockchain. Sarebbero infatti considerati alla stregua di parti responsabili per quanto concerne l’implementazione dei regolamenti Know-Your-Customer (KYC) e Bank Secrecy Act (BSA).

A sostenere la scarsa praticità di tale approccio sono molti esperti. Alla base della loro contrarietà c’è proprio la natura della tecnologia blockchain, ovvero la decentralizzazione che la caratterizza.

La discussione è comunque destinata a perdurare. Nel prossimo mese di marzo, la Blockchain Association ha messo in calendario una nuova visita a Capitol Hill. L’intento è quello di discutere in maniera approfondita con i politici sulle questioni relative alla legislazione DAAMLA. Resta da capire se questi ultimi ne avranno realmente voglia.

Geolier appello Sanremo

Blockchain, può essere la soluzione per garantire la trasparenza del voto a Sanremo?

Il ribaltone finale che ha caratterizzato il 74° Festival di Sanremo ha, come al solito, scatenato un fiume di polemiche. A destarle è stato in particolare il meccanismo del televoto da casa, che aveva consegnato il primato a Geolier.

Il 60% riportato dal rapper partenopeo, infatti, non è stato sufficiente, venendo ribaltato da una nuova votazione in cui il voto popolare ha avuto un peso del 33%, quindi uguale a quello di sala stampa e radio. Il problema è da ravvisare nella mancanza assoluta di trasparenza che ha distinto le nuove votazioni. Le uniche percentuali comunicate, infatti sono quelle della classifica del televoto, in cui la vincitrice, Angelina Mango, si era fermata al 16%.

E proprio in assenza di trasparenza, qualcuno ha deciso di prendere l’iniziativa e fare una richiesta precisa: adottare la blockchain per le votazioni all’interno del Festival della canzone italiana.

Sanremo: una debacle per il sistema di voto

Il confuso finale sanremese ha provocato grandi polemiche e non poteva essere altrimenti. Non solo non sono state comunicate le percentuali, ma non è neanche possibile condurre verifiche sui dati comunicati. Una assoluta mancanza di trasparenza che è stata ben presto ricondotta alla centralizzazione.

Una centralizzazione che, di conseguenza, è stata additata come il mezzo migliore per la manipolazione del risultato finale. Che si sia verificata o no, resta il fatto che quanto accaduto sembra ideale per favorire le teorie del complotto.

In questa atmosfera, si è andato ad inserire anche il Codacons, il quale ha preso la palla al balzo per un esposto all’Autorità delle Comunicazioni, alla RAI e al Ministero delle Imprese e del Made in Italy. Al suo interno si invita l’azienda televisiva a fornire tutti i dati relativi ai voti espressi dal pubblico attraverso il televoto e quelli dei singoli componenti delle giurie della sala stampa e delle radio.

Abbastanza chiaro il discorso dell’associazione dei consumatori: “Non entriamo nel merito della classifica finale del festival e delle posizioni occupate dai primi 5 artisti in gara, ma a seguito delle numerosissime proteste giunte dai telespettatori chiediamo chiarezza su quanto avvenuto ieri nel corso della kermesse canora. Si sarebbero infatti verificati problemi tecnici e disservizi durante le fasi finali del Festival, con migliaia di utenti che, pur provando ad inviare telefonicamente la propria preferenza, non avrebbero ricevuto conferma circa la raccolta del voto da parte del sistema”.

La debacle del sistema di voto è quindi da considerare completa. Tanto da spingere qualcuno a proporre quello che da più parti è considerato il vero antidoto alla centralizzazione e alla possibilità di brogli: la blockchain.

Sanremo: la soluzione potrebbe essere fornita dalla blockchain?

Ad avanzare una proposta in tal senso è stato Vincenzo Rana, amministratore delegato di Knobs. Il quale ha avuto gioco facile nel ricordare le caratteristiche che fanno della blockchain una candidata ideale per garantire trasparenza nel voto sanremese.

La tecnologia su cui si basano le criptovalute, infatti, si basa su un registro pubblico distribuito. Un database che può essere consultato da chiunque e il quale, soprattutto, è immodificabile. Ogni voto viene validato e inserito nel registro, senza grandi possibilità di interventi fraudolenti.

Inoltre, la privacy di chi ha votato è garantita in pieno. Ogni voto viene infatti crittografato e collegato in maniera univoca. La decentralizzazione concorre a sua volta a bypassare la dipendenza da un’autorità centrale, permettendo al sistema di resistere ad interventi censori. Inoltre, il conteggio dei voti avviene praticamente in tempo reale, con miglioramenti in termini di efficienza e riduzione dei costi associati al conteggio manuale.

Una serie di caratteristiche le quali hanno spinto da tempo a proporre la blockchain come soluzione ideale per i processi elettorali. Considerate le furibonde polemiche in atto da giorni, chissà che alla fine non sia proprio questa tecnologia ad essere individuata come risposta ideale alle esigenze di maggior trasparenza emerse da Sanremo.

ISPO, come funziona l’offerta iniziale di staking pool

La raccolta iniziale di fondi per poter dare gambe ai progetti in fase di debutto, è fondamentale. In tal modo, infatti, gli sviluppatori possono portare avanti il lavoro soltanto abbozzato nel white paper e rendere realtà la teoria.

Tra i modi più innovativi di riuscire a raccogliere finanziamenti, nel corso degli ultimi mesi si è andato affermando anche l’Initial Stake Pool Offering (ISPO). Si tratta di una strategia emersa per la prima volta nell’ecosistema di Cardano, noto per la sua implementazione della tecnologia Proof of Stake (PoS).

ISPO: di cosa si tratta?

Per ISPO si intende l’innovativo modello per raccogliere fondi che fa leva su una staking pool, nella blockchain di Cardano. All’atto pratico, le aziende che intendono usare questo modo per raccogliere finanziamenti da destinare ai propri piani di sviluppo, possono dare vita a staking pool cui spetta il compito di raccogliere i token ADA.

Chi partecipa a questa operazione, puntando i propri token, viene premiato con un quantitativo di coin del progetto in fase di lancio, naturalmente proporzionale a quanto depositato. Un meccanismo, quindi, affine per alcuni versi alle altre offerte iniziali esistenti, ma diverso per altri, a partire dallo strumento utilizzato, ovvero le staking pool.

Il modello ISPO è stato lanciato dal team SundaeSwap, nel corso dell’aprile 2021. Alcuni mesi dopo, a dicembre, è stato quindi MELD, il primo protocollo bancario non custodial operante in ambito DeFi, ad utilizzarlo per la raccolta di finanziamenti.

Con il trascorrere del tempo, le ISPO hanno raccolto sempre maggiori consensi. A favorirli il fatto che si tratta di un modello in grado di assicurare molti vantaggi. Tra quelli più evidenti il fatto di andare a premiare gli sviluppatori, riuscendo al tempo stesso a garantire sicurezza e liquidità dei fondi interessati.

Cosa sono le staking pool?

Per comprendere meglio il funzionamento delle ISPO occorre naturalmente partire dalla comprensione delle staking pool. Ovvero di quei fondi che fanno leva sul meccanismo di consenso Proof-of-Stake (PoS). Contrariamente a quanto avviene nel Proof-of-Work (PoW), in cui è necessario risolvere complessi problemi matematici, in questo caso la sicurezza della blockchain è garantita dai validatori. A loro spetta la verifica delle transazioni e la generazione dei nuovi blocchi da aggiungere alla catena.

Per poter partecipare a questa attività e averne i ritorni economici ad essa collegati, i validatori devono mettere in staking i propri token. Nel caso di Cardano, a essere messo in staking è il token di servizio ADA.

Le Initial Staking Pool Offering sfruttano proprio questa necessità di Cardano, proponendo ricompense a chi partecipa ad una staking pool tesa a sostenere il lancio di un nuovo protocollo. Un metodo quindi estremamente innovativo di cercare fondi in grado di sostenere lo sviluppo delle startup, il quale sembra destinato a consolidarsi nell’immediato futuro.

Quali sono i vantaggi delle ISPO?

Prima di partecipare ad una Initial Staking Pool Offering, è naturalmente consigliabile cercare di capire al meglio di cosa si tratti. E, soprattutto, capire quali sono i vantaggi che questa soluzione può garantire a chi decida di parteciparvi.

Il beneficio più rilevante è proprio quello rappresentato dal fatto che si tratta di staking. In pratica chi detiene ADA può decidere di impegnare i propri token nel sostegno ad un protocollo di cui si sono notate grandi potenzialità.

Occorre sottolineare che i partecipanti ad una ISPO sono assolutamente liberi di ritirare i propri ADA in ogni momento ritengano utile farlo. Nella fase di staking, peraltro, mantengono il pieno controllo sui propri beni, non rischiando di conseguenza nulla.

Considerato come molti investitori siano alla ricerca di soluzioni in grado di garantire buoni rendimenti e una rendita passiva, impegnarsi in una di queste staking pool può quindi rappresentare una buona opportunità. Tale da prefigurare una crescita del numero di Initial Staking Pool Offering nell’immediato futuro.

Base: cosa occorre sapere sulla blockchain layer 2 di Coinbase

Base è una soluzione Layer 2 lanciata sulla Ethereum Virtual Machine il passato 9 agosto. A sviluppare la soluzione è stato l’exchange crypto Coinbase, in collaborazione con Optimism, dandosi un preciso obiettivo: riuscire a garantire agli utenti un ambiente sicuro, conveniente e in grado di risultare amichevole per chi intenda varare applicazioni on-chain.

Base: di cosa si tratta?

Base è una blockchain di livello 2 lanciata su Ethereum che vanta un vero e proprio primato: si tratta infatti della prima blockchain ideata da una società quotata in borsa. Il suo sviluppo è stato reso possibile dalla partnership che l’exchange statunitense ha stretto con Optimism, altra blockchain layer 2 e si è concretizzato nel lancio su OP Stack, una suite di strumenti di sviluppo standardizzato presente proprio al suo interno.  

Grazie al suo utilizzo, gli sviluppatori sono in grado di dare vita a dApps, applicazioni decentralizzate con una caratteristica di non poco conto, rappresentata dalla possibilità di accedere ad un ecosistema come quello di Coinbase, popolato da oltre 110 milioni di utenti e in cui è presente una liquidità che supera gli 80 miliardi in termini di beni depositati.

Per quale motivo l’exchange ha deciso di creare Base? L’obiettivo è in effetti estremamente ambizioso: dare vita ad una supercatena alimentata da Optimism, in grado di fungere da punto di riferimento per un gran numero di sviluppatori. Al tempo stesso, occorre sottolineare che la nuova blockchain non prevede il lancio di un utility token. Una scelta la quale ha destato qualche perplessità, in quanto ha lasciato la porta aperta a truffatori che offrono un coin inesistente.

Cosa si propone Base

Le soluzioni layer 2 sono strutturate in modo da favorire aspetti fondamentali per la blockchain, a partire dalla velocità e dalla convenienza delle transazioni. In particolare cercano di dare risposte performanti in termini di scalabilità, senza andare a compromettere la decentralizzazione e la sicurezza del livello sottostante.

Tra le tante soluzioni approntate nel corso degli ultimi anni in tal senso, occorre ricordare ad esempio Lightning Network, sidechain e rollup. Proprio Optimism è un esempio di adozione di optmistic rollup che ha incontrato notevole gradimento sul mercato.

Oltre a Optimism ci sono però altre blockchain layer 2 che hanno già saputo mettersi in grande evidenza. In tale novero vanno a rientrare ad esempio Arbitrum, Polygon e zkSync. Si tratta quindi di un segmento di mercato non solo concorrenziale, ma che si sta velocemente allargando a nuovi progetti. Tutti tesi a stabilire standard sempre più performanti nell’ambito della finanza decentralizzata.

I casi d’uso

Quali sono i principali casi d’uso collegati a Base? Tra i più importanti occorre sicuramente menzionare i seguenti:

  • lo scambio di token sui DEX (Decentralized Exchange) presenti su Coinbase, ad esempio Uniswap;
  • la fornitura di liquidità, ricompensata dalle commissioni sulle transazioni, tramite applicazioni decentralizzate come Dackieswap e BaseSwap;
  • il lancio di Decentralized Autonomous Organization (DAO), resa possibile dal varo di una applicazione decentralizzata su Base, da parte di Aragon;
  • il bridging, affidato a Base Bridge, una soluzione compatibile con molti dei più importanti wallet Ethereum. Gli interessati sono in grado di spostare token ERC-20 da Base a Ethereum e viceversa nell’arco di pochi minuti. 

I vantaggi e i difetti del progetto

Base presenta un notevole ventaglio di vantaggi. Tra di essi spiccano quelli relativi alla maggiore scalabilità assicurata dagli optimistic rollup e una certa convenienza in termini di costi. La possibilità di bypassare colli di bottiglia e ridurre le inefficienze si va però a scontrare con alcuni svantaggi da tenere presenti. In particolare la dilatazione dei tempi di prelievo collegati alla presenza di un sistema anti-frode e la centralizzazione risultante dal fatto che l’unico nodo è rappresentato proprio da Coinbase.

Come abbiamo già ricordato in precedenza, inoltre, Base non ha varato un suo token. Una scelta che comunque non sembra totalmente vincolante, considerato come già altre soluzioni abbiano iniziato in tal modo per poi virare improvvisamente tramite un airdrop.

Blockchain: cos’è il protocollo Layer 0 e quali problemi risolve

Per protocollo Layer 0 si intende essenzialmente l’infrastruttura sulla quale possono essere costruite le blockchain Layer 1. Rappresenta di conseguenza un livello fondamentale per le reti e le applicazioni fondate sulla tecnologia DLT che su di esse sono destinate a girare. Grazie alla loro adozione è possibile fornire risposte una serie di problemi chiave in ambito blockchain, a partire da interoperabilità e scalabilità.

Layer 0: cos’è e a cosa serve

L’ecosistema blockchain può essere costituito da più livelli distinti, i quali possono essere a loro volta classificati alla stregua di veri e propri protocolli. In particolare, gli esperti sono soliti classificare i livelli in questo modo:

  • Layer 0, il livello su cui gli sviluppatori sono in grado di varare blockchain Layer 1, quindi una vera infrastruttura di base;
  • Layer 1, che sono a loro volta le catene su cui gli sviluppatori hanno l’opportunità di costruire le proprie dApp, ovvero le applicazioni decentralizzate;
  • Layer 2, ovvero le blockchain costruite all’esterno di quelle principali, in modo tale da sgravarle di una parte delle operazioni e alleggerirle;
  • Layer 3, quello ove vivono le applicazioni basate sulla blockchain, a partire da giochi e wallet.

In particolare, i protocolli Layer 0 si rivelano preziosi al fine di rimediare ad alcune problematiche che affliggono le reti di livello 1 che mancano di flessibilità, ad esempio la Ethereum Virtual Machine. Proprio la maggiore flessibilità che presentano consente loro di dare risposte più performanti in tema di scalabilità e interoperabilità.

Quali sono i principali protocolli Layer 1?

Non esiste un modo univoco di funzionamento, quando si parla di protocolli. Alcune regole di base, però esistono e permettono di raggruppare gli stessi. Nel caso di quelli di livello 0, ad esempio, si può dire che rientrano nella casistica i protocolli chiamati a fungere da catena principale e primaria per il backup dei dati riferiti alle transazioni liquidate dalle blockchain Layer 1.

Le blockchain più note in assoluto, all’interno di questo gruppo, sono le seguenti:

  • Polkadot, che utilizza una catena principale, la Polkadot Relay Chain, permettendo la costruzione di blockchain indipendenti su di essa, le parachain. In pratica, la prima assume la funzione di bridge tra le seconde, rendendo possibile una comunicazione efficiente delle informazioni. Per suddividere le blockchain adotta lo sharding, grazie al quale l’elaborazione dei dati è in grado di risultare più performante;
  • Cosmos, formata a sua volta da una mainnet blockchain Proof-of-Stake chiamata Cosmos Hub e da blockchain personalizzate indicate come Zone. Cosmos Hub è delegato al trasferimento di asset e dati tra le Zone collegate, oltre alla fornitura di un livello condiviso in grado di conferire sicurezza all’intero sistema. Ognuna delle Zone può essere fornita di impostazioni di convalida dei blocchi e di altre funzionalità personalizzate, offrendo agli sviluppatori la possibilità di costruire il proprio progetto. Tutte le dApps e i servizi ospitati al loro interno sono in grado di stabilire proficue interazioni per mezzo di un protocollo noto come IBC (Inter-Blockchain Communication). In tal modo è possibile lo scambio libero e senza ostacoli di asset e dati tra reti indipendenti;
  • Avalanche, la quale utilizza a sua volta un’infrastruttura composta da tre catene principali: la Contract Chain (C-chain), la Exchange Chain (X-chain) e la Platform Chain (P-chain). Ognuna di esse viene configurata in maniera tale da abilitarle alla gestione delle funzioni principali all’interno dell’ecosistema, con un obiettivo ben preciso: migliorare i profili di sicurezza della blockchain e conseguire bassa latenza ed elevato throughput. Se la X-Chain ha il compito di dare vita a beni digitali da scambiare, sulla C-Chain avviene la creazione dei contratti intelligenti. Infine, la P-Chain, cui spetta la funzione di coordinamento di validatori e sottoreti. Anche nel caso di Avalanche, questa particolare configurazione abilita gli utenti a interazioni cross-chain in grado di risultare non solo più rapidi, ma anche più convenienti.

Conclusioni

Il protocollo Layer 0 sta assumendo un’importanza sempre più rilevante in ambito blockchain. Riesce infatti a fornire risposte performanti ai problemi di incomunicabilità e scarsa scalabilità che affligge le reti di prima generazione, a partire da Ethereum.

Queste reti, sono spesso congestionate, complicando notevolmente il lavoro degli sviluppatori. Per riuscire ad alleggerirle, si è quindi pensato di spostare una parte del loro lavoro all’esterno, su livelli diversi, i quali si assumono il compito di elaborare una parte rilevante del lavoro. Ne conseguono quindi grandi vantaggi in termini di interoperabilità e di scalabilità. Proprio per questo motivo hanno raggiunto un notevole livello di popolarità, anche tra i trader.

Masternode: cos’è e come funziona

I nodi rappresentano un aspetto essenziale per le blockchain. È proprio grazie ad essi che le reti sono in grado di conseguire un determinato grado di decentralizzazione e una gestione efficace delle operazioni che avvengono al loro interno. In pratica si tratta di computer integrati in una specifica rete regolarmente ricompensati per il livello di lavoro svolto sotto forma di fornitura di servizi.

Tra di essi, però, ce ne sono alcuni che rivestono un’importanza maggiore. Stiamo parlando dei cosiddetti Masternode, cui sono affidate funzioni di maggior rilievo, quelle necessarie per il mantenimento di stabilità ed efficienza del sistema. Anche in questo caso, il lavoro condotto viene premiato sotto forma di criptovaluta, inteso come un incentivo per il mantenimento in sicurezza della rete.

Masternode: cos’è e a cosa serve

I Masternode, indicati anche come sistemi di validazione collegati, sono server che si occupano di svolgere lavoro utile a facilitare le transazioni. In questa veste vanno a differire in maniera significativa dai nodi normali in quanto sono chiamati all’esecuzione di mansioni fondamentali. Cui aggiungono la disponibilità di funzionalità più evolute. In particolare, grazie ad essi la blockchain che li ospita è in grado di conseguire:

  • transazioni dirette, più rapide e caratterizzate da livelli più alti di riservatezza, grazie alla funzionalità nota come InstantSend;
  • la possibilità di avere un ruolo di rilievo nei processi di voto che avvengono all’interno della rete;
  • l’Implementazione di un sistema di bilancio e tesoreria sulla blockchain.

I Masternode, quindi, sono caratterizzati dal ruolo che svolgono all’interno della catena, che assegna ad essi un carico maggiore di responsabilità, rispetto ai nodi normali. Non sono concepiti per propagare i blocchi destinati al processo di convalida, bensì per dare vita alla convalida stessa. A questo primo compito essenziale, ne aggiungono poi altri collegati ai processi decisionali e amministrativi.

Come funzionano i Masternode e quanto guadagnano

Per quanto concerne il loro funzionamento, i Masternode presentano molti punti di contatto con il mining Proof-of-Work. Tra le differenze, però, ce n’è una sostanziale: mentre il minatore provvede alla creazione di nuovi blocchi e alla loro aggiunta alla catena, il Masternode garantisce la transazione raggiungendo un determinato grado di consenso con i suoi omologhi. Una volta raggiunto tale consenso, la transazione viene ricondotta sulla blockchain, con la pratica estromissione dei miner più lenti dal processo in atto.

Altra differenza rilevante con i minatori è poi quella relativa ai macchinari necessari per lo svolgimento dell’attività. In questo caso, infatti, non è richiesto hardware dedicato. Ne derivano costi più contenuti, tali da rendere conveniente ricoprire tale mansione all’interno di una rete.

I Masternode funzionano inoltre su base collaterale, obbligando gli operatori interessati all’abilitazione di un nodo al blocco di una determinata quantità di token a garanzia. La retribuzione per questa mansione si concretizza sotto forma di un reddito proporzionale all’importo investito, il quale viene distribuito in base a quanto disposto dal regolamento in vigore sulla blockchain.

La retribuzione di un Masternode può variare da rete a rete. Nella maggior parte dei casi si possono raggiungere migliaia di euro, ma il guadagno deve anche essere rapportato all’investimento iniziale. In alcuni casi, infatti, il quantitativo di token che è necessario bloccare comporta un impegno finanziario consistente. Nel caso di DASH, ad esempio, tale quantitativo è pari a mille token, ovvero circa 28mila dollari alla quotazione attuale.

A questo primo svantaggio, ne vanno poi aggiunti altri due:

  • la complessità delle operazioni di installazione e manutenzione, tali da presupporre competenze in termini di programmazione non proprio secondarie. Rese necessarie anche dalla possibilità di attacchi di pirateria informatica;
  • l’obbligo di assicurare una presenza continua, lungo l’intero arco della giornata. In pratica chi assume il ruolo di Masternode deve essere presente 24 ore al giorno, con una tolleranza massima di un’ora di irraggiungibilità al giorno.

Prima di prendere in considerazione l’ipotesi di impegnarsi in tale veste, quindi, gli interessati dovrebbero riflettere attentamente sui vantaggi e gli svantaggi ad essa collegati.

Interoperabilità cross-chain: cos’è e perché è importante

Le blockchain di prima generazione hanno grandi difficoltà a stabilire interazioni tra di esse. I vari ecosistemi, di conseguenza, si ritrovano praticamente isolati, senza possibilità di scambiare informazioni. Per cercare di bypassare questo problema, molti sviluppatori si sono quindi dedicati nel corso degli ultimi anni all’interoperabilità cross-chain, tesa a consentire il flusso di dati e valore, in modo da permettere alla tecnologia blockchain una diffusione sempre più larga.

Interoperabilità cross-chain: di cosa si tratta?

Per interoperabilità cross-chain si intende la capacità delle blockchain di stabilire relazioni tra di loro. Grazie ad essa, gli smart contract delle diverse reti possono stabilire una linea di comunicazione senza alcuna necessità di dover impiegare token. In tal modo viene favorito il processo di integrazione che sfocia in un’esperienza utente semplificata.

Una soluzione la quale preveda l’interoperabilità consente a qualsiasi attività che ha luogo su una blockchain di essere rappresentata su un’altra catena. Grazie ad essa, le applicazioni possono funzionare con qualsiasi token o servizio, a prescindere dalla rete in cui avviene l’operazione.

Per gli sviluppatori, si tratta di un vantaggio notevole. Invece di distribuire singolarmente una DApp di un exchange decentralizzato (DEX) sulle reti Ethereum, BNB Chain e Polygon, coniando ogni volta i token necessari all’operazione sulla nuova blockchain, dopo aver condotto a termine il burn di quelli originari, lo si può fare evitando questi passaggi. Il risultato è un risparmio non solo in termini di tempo, ma anche di costi.

Quali sono i vantaggi e quali i limiti dell’interoperabilità cross-chain

Le blockchain di prima generazione non erano in grado di comunicare tra di loro. Per poter condurre una transazione gli utenti dovevano rassegnarsi ad un processo lento e costoso, tale da rivelarsi un freno per l’adozione della tecnologia DLT.

Il lavoro che è stato condotto dagli sviluppatori per sanare questo difetto si è tradotto in nuove soluzioni, caratterizzate dall’interoperabilità cross-chain. I vantaggi che ne conseguono sono del tutto evidenti. Le transazioni tra le diverse reti senza alcuna necessità di ricorrere a intermediari centralizzati scorrono senza eccessivi problemi.

L’esperienza utente, grazie alla capacità di comunicare tra loro delle nuove catene, è notevolmente migliorata. L’ecosistema che ne deriva è meno frammentato ed è in grado di favorire l’affermazione di nuovi modelli di business. Nuovi modelli più performanti rispetto ai vecchi.

Se questi sono i vantaggi prospettati dall’interoperabilità cross-chain, sull’altro piatto della bilancia occorre però mettere alcuni limiti di rilievo. Il primo dei quali è rappresentato dalla sfida in termini di complessità tecnica posta dalle nuove blockchain. Una sfida tale da andare ad interessare molti ambiti, a partire da quello relativo alla sicurezza. Sfide le quali dovranno essere vinte per permettere agli utenti di godere realmente dei vantaggi ricordati.

Conclusioni

L’introduzione di nuove reti in grado di stabilire proficue comunicazioni tra di esse rappresenta un notevole passo in avanti per il settore blockchain. La prima fase dell’innovazione finanziaria, al di là del grande entusiasmo generato dall’avvento di Bitcoin, è stato caratterizzato da problemi che ne hanno rallentato la diffusione.

Per riuscire a portare il settore in un territorio più agevole, gli sviluppatori hanno quindi lavorato su soluzioni più performanti. Tra di esse, per risolvere un problema vistoso come quello derivante da transazioni farraginose e costose, l’interoperabilità cross-chain.

Con l’introduzione di soluzioni come Axelar, BTC Relay, Hyperlane e, soprattutto, Solana, la situazione è andata notevolmente migliorando. Le transazioni rese possibili da questi sistemi sono più rapide e meno costose, consentendo un’esperienza utente migliore. I vantaggi collegati all’interoperabilità cross-chain sono quindi innegabili.

Resta però da capire se questa risposta sia effettivamente in grado di risolvere il problema iniziale o se, al contrario, non sia necessario un salto di qualità anche in termini di sicurezza e processi di governo. Le varie blockchain, infatti, presentano diversità da tenere in conto, in termini di linguaggi di programmazione e meccanismi di consenso. Ancora è presto per capire se non presentino problemi, e di quale genere.

Social token, di cosa si tratta e a cosa servono

L’attuale Internet, noto come Web2, è caratterizzato da un modello di business che è considerato distorto da un gran numero di utenti. Tra di essi, anche coloro i quali producono i contenuti che girano al suo interno, senza riuscire però a remunerare in maniera adeguata il proprio sforzo creativo.

Il superamento di questo modello dovrebbe avvenire con il successivo stadio evolutivo, il Web3. Proprio il suo avvento, infatti, potrebbe aprire le porte ad un sistema più sostenibile ed equo, nel quale i servizi potranno essere decentralizzati grazie alla tecnologia blockchain, venendo sottratti alle Big Tech al momento dominanti.

All’interno del nuovo modello di business, un ruolo centrale potrebbe spettare ai cosiddetti social token. Andiamo quindi a capire cosa siano e perché potrebbero rappresentare una svolta per una rete più democratica.

Social token: cosa sono?

Per social token si intendo dei beni digitali garantiti su blockchain, i quali possono restituire a coloro che creano contenuti di rilievo di monetizzare al meglio il proprio sforzo creativo. Grazie ad essi, infatti, musicisti, marchi e in genere tutti coloro che sono in grado di proporre contenuti di rilievo possono stabilire un rapporto più stretto con il proprio pubblico e restare in possesso del diritto di sfruttamento del proprio lavoro.

In pratica, chiunque sia in grado di produrre esperienze e servizi può utilizzare social token, trasformandone la proprietà in un asset il quale può essere rivenduto e aumentare di valore con il trascorrere del tempo. A garantirne la proprietà digitale sono proprio le blockchain pubbliche, ad esempio Ethereum, Solana o Optimism.

Il loro utilizzo può avvenire per disparati scopi. Ad esempio per conferire agli utenti il diritto a partecipare ai processi decisionali all’interno di una rete. Oppure per rendere possibile un’interazione più stretta tra artisti e fan base, ad esempio permettendo a chi li detiene di prendere parte ad eventi speciali. In tale veste si stanno rivelando una nuova fonte di entrate per molti settori che erano stati messi in grande difficoltà dall’avvento del Covid e dalle restrizioni sanitarie ad esso collegate.

Il caso più eclatante in tal senso è rappresentato da Chiliz. Il token collegato al fantacalcio su blockchain ha infatti rafforzato il legame con il calcio e fornito nuove entrate ai club messi in ginocchio dalla chiusura degli stadi nella fase più acuta della pandemia. Il più eclatante, ma non certo il solo.

Come funzionano i social token

I social token sociali rappresentano quindi una nuova frontiera nell’interazione tra creatori e pubblico. Un nuovo modo di rapportarsi che consente ai primi di monetizzare il proprio lavoro e ai secondi di avere esperienze uniche e personalizzate.

I modi per conseguire questi obiettivi sono molti. Solitamente, però, il procedimento che consente di sfruttare al meglio queste opportunità prevede una serie di tappe ben precise, ovvero:

  1. la creazione del token. Gli interessati, si tratti di artisti, sportivi, influencer o marchi, coniano il loro asset cui affidano il compito di rappresentare un valore specifico oppure l’accesso a esperienze, servizi o contenuti esclusivi. Il token in questione viene lanciato come NFT sulla blockchain e si avvale delle sue principali caratteristiche, a partire dall’unicità e dall’autenticità;
  2. la monetizzazione. Chi ha creato il token può venderlo oppure distribuirlo ai propri seguaci su uno dei mercati che lo consentono, a partire da OpenSea. Il token può non solo garantire la partecipazione ad eventi unici, ma anche rappresentare una quota dei futuri guadagni di chi lo ha lanciato. Un caso, quest’ultimo, che ha riguardato ad esempio la point guard dei Brooklyn Nets (franchigia NBA) Spencer Dinwiddie, qualche anno fa;
  3. la compravendita e la rivendita. I token sociali possono essere scambiati o rivenduti sulle piattaforme congegnate per supportarne le transazioni. Come avviene per le criptovalute tradizionali, ci saranno vari fattori ad influire sul loro prezzo, a partire dalla popolarità di chi li lancia;
  4. l’utilizzo. Chi detiene i social token può servirsene per riscuotere i vantaggi associati al loro possesso. Come abbiamo già ricordato, a conferire valore in tal senso è il diritto a prendere parte ad esperienze uniche e personalizzate.

SocialFi: cos’è e perché è importante

Per chi crea contenuti che andranno poi a popolare i social media, è molto importante riuscire a monetizzare il frutto del proprio ingegno. Purtroppo, però, ad oggi non è assolutamente così e a trarre giovamento dai contenuti sono esclusivamente le grandi piattaforme come Facebook e YouTube.

La polemica sul tema è da tempo infuocata e va in pratica a riflettere quella relativa ai dati, con la centralizzazione sotto accusa. E, come nel caso delle informazioni, proprio dal settore dell’innovazione finanziaria si sta cercando di organizzare un tentativo di riscossa, teso a restituire la proprietà e la sovranità dei dati agli utenti, sottraendolo alle grandi aziende centralizzate. Andiamo a vedere come.

SocialFi: di cosa si tratta?

Il termine SocialFi scaturisce dall’unione di “social media” e “finanza” e fa immediatamente capire lo stretto legame tra i due ambiti. Il principio che la informa è quello teso a consentire agli utenti di dare vita ad interazioni su una piattaforma di social media, con il preciso intento di remunerarle.

Un esempio tipico di SocialFi è quello in cui i creatori sono in grado di limitare l’accesso ai propri contenuti, mettendoli a disposizione esclusivamente agli utenti disposti a pagare. Nel farlo, non devono passare attraverso un intermediario centralizzato, ma possono stabilire un’interazione diretta con chi è interessato ai loro contenuti.

Ad assumere la responsabilità della governance del protocollo sono le Autonomous Decentralized Organization (DAO), mentre a determinare la proprietà digitale dei contenuti esclusivi sono gli NFT (Non Fungible Token)

La necessità della SocialFi

I social media hanno dato vita ad una vera e propria rivoluzione nel settore della comunicazione e dei contenuti. Questi ultimi, però, non hanno trovato il modo di essere remunerati il giusto sulle attuali piattaforme Web2, che sono centralizzate e abusano della loro rendita di posizione.

Non solo approfittano della propria posizione di forza imponendo pratiche discriminatorie nei confronti dei contenuti che non sono mainstream, ma pongono problemi di non poco conto per quanto riguarda la monetizzazione delle informazioni.

Queste difficoltà dovrebbero essere bypassate dal Web3, con una ridefinizione delle interazioni sociali basata sull’introduzione di social token, coi quali i content creator potranno essere ricompensati per il lavoro svolto.

In questo nuovo modello, gli utenti non saranno più attori passivi, ma protagonisti nel processo economico delle piattaforme. La tokenizzazione che ne risulterà avrà una conseguenza di grande portata, lo spostamento dei rapporti di forza.

Nella nuova situazione, i creatori di contenuti non dovranno più dipendere da entità centralizzate, con la possibilità di essere da queste sacrificate al potere politico e finanziario. E, soprattutto, potranno mettere a frutto le proprie creazioni, senza doverne cedere la sovranità. Il risultato finale dovrebbe concretizzarsi in un ecosistema sociale improntato a equità e trasparenza, con una crescita in termini di influenza degli individui.

In questo quadro, ci dovrebbe essere anche un ulteriore corollario, quello rappresentato dalla possibilità di aggirare i tentativi di censura e affidare la moderazione dei contenuti alla collettività. Caratteristiche che, nel Web2, sono state pesantemente sacrificate alla centralizzazione.

SocialFi: quali i vantaggi?

Da quanto abbiamo detto sin qui, non sembra difficile comprendere la reale importanza della SocialFi. Importanza che, del resto, può essere dedotta dalla lunga serie di vantaggi che offre, ovvero:

  • la decentralizzazione dell’archiviazione dei dati. Le informazioni saranno memorizzate sulla blockchain, impedendone un utilizzo distorto da parte di entità centralizzate;
  • la tokenizzazione delle ricompense, di cui potranno beneficiare sia i content creator che gli utenti, per la creazione dei contenuti, la loro condivisione e l’interazione che ne potrà risultare;
  • il controllo sul copyright, che è ormai una consuetudine sulle piattaforme centralizzate del Web2;
  • la possibilità di sfuggire a tentativi di censura. A gestire le piattaforme decentralizzate saranno le DAO, riducendo la possibilità di un deplatforming che è diventato in pratica consuetudine su Facebook e altri social, per chi canta fuori dal coro;
  • quella di preservare il diritto all’espressione considerato un diritto politico irrinunciabile.

Blockchain: da cosa dipende la sua sicurezza?

La sicurezza è un fattore essenziale per la blockchain. Una rete che si rivela poco sicura può essere rapidamente messa in difficoltà dal discredito che può discenderne. Basta in effetti vedere la preoccupazione con cui i criptofans guardano ad ogni scorreria ai danni di un network per capire la rilevanza della questione.

Per cercare di impedire attacchi devastanti a livello d’immagine, gli sviluppatori mettono in atto strategie incentrate su meccanismi di consenso e scelte tecnologiche atte a migliorare la tenuta della catena. Ad essi, inoltre si aggiungono fattori di rilevanza economica. In questa analisi cercheremo quindi di delineare quali possono essere gli accorgimenti in grado di aumentare il livello di sicurezza di una blockchain.

Perché è importante la sicurezza della blockchain?

Quando si parla di blockchain, il pensiero corre veloce al trading di criptovalute. Gli asset virtuali corrono infatti di solito su reti costruite sulla base della tecnologia dei registri distribuiti (DLT), traendone un gran numero di vantaggi.

Stiamo quindi parlando di denaro, molto, considerata la straordinaria liquidità di un mercato che vede ogni giorno scambi in gran numero, tesi a trarre profitto dalle variazioni dei prezzi. Quando girano soldi, però, è praticamente sicura la presenza di malintenzionati pronti a cercare di appropriarsi di queste risorse ricorrendo a pratiche illegali. Basta leggere un rapporto sulle attività illegali collegate alla blockchain per rendersene facilmente conto,

La blockchain, però, non viene utilizzata soltanto per fare da infrastruttura digitale alle criptovalute. Viene utilizzata anche per tracciare merci, per procedimenti elettorali e in ambito sanitario. Una serie di settori la cui importanza va anche al di là del trading crypto, i quali necessitano di sistemi in grado di resistere a tentativi di manomissione. Ecco perché l’aspetto sicurezza è fondamentale per questo particolare ambito tecnologico.

Un punto di partenza ineludibile: consenso e immutabilità

Gli elementi che possono dare un rilevante contributo alla sicurezza di una blockchain, sono molti. Tra quelli più importanti, però, un ruolo di rilievo spetta sicuramente ai concetti di consenso e immutabilità.

Per consenso si intende la capacità di concordare dei nodi presenti all’interno di un network sulla effettiva validità delle transazioni e sul suo stato generale. Soltanto una volta ottenuto il livello di consenso stabilito da ogni rete una operazione può essere registrata al suo interno e andare a comporre la catena.

Per raggiungere tale consenso, si utilizzano i meccanismi, o algoritmi, di consenso. Se il più famoso di essi è il Proof-of-Work su cui si fonda Bitcoin, con il trascorrere del tempo se ne sono affermati altri, a partire dal Proof-of-Stake adottato da Ethereum. Ognuno di questi meccanismi cerca di conseguire consenso senza dover sacrificare la decentralizzazione. Si tratta di un risultato molto difficile da condurre in porto. Solitamente, però, si ritiene che la rete Bitcoin sia praticamente impossibile da attaccare, nonostante un livello minimo di decentralizzazione.

Per immutabilità, invece, si intende la capacità di una blockchain di resistere all’alterazione di dati già immessi al suo interno. In pratica, una volta immesso al suo interno, il dato non può più essere modificato una volta che sia stato inserito in un blocco. Proprio per questo le blockchain si stanno affermando come una possibile alternativa alle votazioni elettorali tradizionali.

L’importanza della criptoeconomia

Se le capacità tecnologiche rappresentano il primo argine agli attacchi contro la blockchain, c’è un altro fattore che può pesare molto in tema di sicurezza. Stiamo parlando della criptoeconomia e del suo influsso sul comportamento di coloro che si muovono all’interno di una rete, al fine di procacciarsi vantaggi in tal senso.

Il caso di Bitcoin è emblematico in tal senso. Se teoricamente un raid contro la blockchain sarebbe possibile, ad esempio sotto forma di un attacco 51%, all’atto pratico a renderlo impossibile sono proprio i fattori economici connessi con BTC.

Per poter prendere possesso della rete, infatti, sarebbe necessario acquisire la maggioranza dell’hashrate. Si tratta però di un’operazione impossibile all’atto pratico, in quanto per riuscirci gli attaccanti dovrebbero spendere miliardi di dollari.

Un’alternativa all’affitto della forza computazionale necessaria potrebbe essere un accordo fraudolento tra gruppi di minatori, in modo da raggiungere la metà più uno necessaria. I minatori, però, sono i primi interessati al mantenimento dell’integrità della rete da cui traggono il loro guadagno. Perché dovrebbero spendere cifre ingenti per dotarsi di macchinari in grado di condurre un mining proficuo e poi tagliarsi fuori con un attacco alla rete?

Naturalmente, Bitcoin è un caso limite. Altre reti sono state ripetutamente attaccante nel passato, con esiti drammatici a livello reputazionale. Proprio per cercare di porre un argine in tal senso gli addetti hanno sviluppato una serie di meccanismi di consenso in grado di rendere complicati i raid. Il modo migliore per preservare la sicurezza, però, resta quello degli incentivi nei confronti dei nodi onesti. Una strada sempre più praticata dai nuovi progetti e destinata a rafforzarsi nel futuro.

Binance Smart Chain, tutto ciò che occorre sapere

BSC (Binance Smart Chain) ha destato grande interesse sin dalla sua comparsa, risalente al 2021. Si tratta di una blockchain compatibile con Ethereum, caratterizzata da commissioni estremamente ridotte. Una peculiarità che ha spinto un gran numero di progetti di finanza decentralizzata a sceglierla come base di appoggio.

Un interesse che ha avuto una conseguenza ben precisa, la crescita esponenziale in termini di quotazione di BNB, il token di Binance. Proprio per questo motivo in questa piccola guida andremo a vedere cos’è la Binance Smart Chain e, soprattutto, se possa essere considerata un vero e proprio avversario per Ethereum.

Binance Smart Chain: di cosa si tratta?

Binance Smart Chain è considerata dagli addetti ai lavori una vera e propria evoluzione di Binance Chain, rispetto alla quale, però, è in grado di offrire una preziosa compatibilità con la Ethereum Virtual Machine, tale da farla considerare più intelligente della catena sorella. Per effetto di questa compatibilità, infatti, BSC è in grado di far girare al suo interno tutte le dApps già sviluppate per Ethereum, apportando ritocchi minimi al loro funzionamento.

La Binance Smart Chain si basa per il consenso sul meccanismo Proof-of-Authority, una forma modificata del normale Proof-of-Stake che si basa però sulla reputazione dei nodi. In pratica, chi intende partecipare alla sua messa in sicurezza può mettere in staking BNB, ricevendone in cambio una rendita di tipo passivo. Una opportunità che è stata alla base del fortissimo aumento di valore del token di Binance nel corso del 2021.

Proprio le commissioni estremamente contenute segnano un punto di vantaggio per BNB rispetto a Ethereum. Il costo si attesta infatti tra i dieci e i venti centesimi, una dote che si aggiunge alla scalabilità di BSC, che è in grado di elaborare migliaia di transazioni al secondo. Livelli che sono diventati accessibili per EVM soltanto dopo il Merge.

Per conseguire questa scalabilità, però, la Binance Smart Chain ha dovuto sacrificare per buona parte le esigenze di decentralizzazione. Oltre l’80% dei token BMB, infatti, sono detenuti all’interno di wallet ospitati su Binance.

La compatibilità di BSC con Ethereum

Proprio la compatibilità della BSC con EVM è una delle caratteristiche che hanno sospinto le fortune iniziali della catena intelligente di Binance. Come è ormai risaputo, infatti, la seconda rappresenta un vero e proprio ecosistema il quale può essere utilizzato dagli sviluppatori per la costruzione di applicazioni decentralizzate (dApps). Se non è l’unico, è al contempo quello largamente maggioritario, fungendo da vero e proprio punto di riferimento per la finanza decentralizzata (DeFi).

Anche BSC si è proposto sin dall’inizio alla stregua di un vero e proprio ecosistema. Il suo piano di sviluppo ha però individuato un punto chiave: stante la forza di Ethereum era molto meglio sfruttarlo che cercare di combatterlo. Per farlo si è puntato a dare agli sviluppatori il modo di passare con facilità da EVM a BSC. È quindi possibile utilizzare PancakeSwap su entrambe le macchine virtuali, così come è possibile farlo con un gran numero di progetti. Basta in effetti inviare ETH e depositarlo in uno smart contract per creare un token corrispondente destinato a viaggiare all’interno di Binance Smart Chain. Il meccanismo è analogo a quello delle stablecoin, con la quantità di ETH destinato a circolare su BSC sempre uguale a quello bloccato nel contratto intelligente.

Al tempo stesso, però, la Binance Smart Chain non concede la stessa facoltà ai progetti che nascono al suo interno. Su Ethereum non possono circolare token non rientranti nella categoria ERC-20. Una peculiarità che consegna a BSC la possibilità di presentarsi come una sorta di Ethereum, ma più accogliente e, di conseguenza, grande.

I rischi di Binance Smart Chain

Sin qui abbiamo visto cos’è la Binance Smart Chain e cosa si propone. A questo punto, però, occorre sottolinearne anche i rischi, per capirla ancora meglio. Tra di essi vanno ricordati innanzitutto:

  1. la centralizzazione derivante dal fatto che quattro quinti dei BNB circolanti sono in pratica controllati da Binance. In pratica tutti i nodi della catena intelligente dello scambio sono in mano all’exchange, che ne detiene il controllo totale. Una centralizzazione la quale può aprire le porte a tentativi di pirateria informatica o furti di criptovaluta al suo interno, che potrebbero sancire una crisi dell’interno sistema;
  2. lo scarso rodaggio. Se Ethereum vanta una storia iniziata nel 2013, lungo la quale ha potuto limare i difetti e mettersi alla prova, BSC è in vita da poco più di due anni. Ha già raggiunto un gran numero di utenti, ma proprio questo potrebbe rivelarsi un tallone d’Achille, a causa del fatto che sinora non si è dovuta misurare con crisi significative. Resta quindi da capire la sua capacità di risposta in tal senso;
  3. l’affidabilità delle dApps. La grande crescita evidenziata nel corso di questo biennio ha spinto un gran numero di aziende a utilizzare BSC per sviluppare le proprie applicazioni decentralizzate. Ne sono conseguite scorrerie hacking e fughe. Se il fenomeno dovesse ampliarsi, il danno d’immagine per la Binance Smart Chain potrebbe rivelarsi devastante.

Attacco Eclipse: di cosa si tratta e perché è pericoloso

I nodi sono il vero e proprio motore di una blockchain. Non stupisce quindi eccessivamente il fatto che esista un attacco che li prende espressamente di mira. Il riferimento è all’attacco Eclipse, un raid abbastanza semplice nella sua concezione, il quale si propone di andare a interferire coi nodi con l’intento di oscurarli del tutto. In tal modo sarà possibile causare disturbi di carattere generale al network, oppure preparare il terreno in vista di attacchi più sofisticati. Andiamo quindi a cercare di capire meglio cosa siano e la loro effettiva pericolosità.

Attacchi Eclipse: cosa sono e a cosa servono

Gli attacchi Eclipse presentano alcuni punti di somiglianza con quelli Sybil, ma hanno un obiettivo finale differente, mirando di fatto a colpire un solo nodo, invece che l’intero network. Se l’attacco Sybil è concepito in maniera tale da aggirare il sistema reputazionale del protocollo colpito, quello Eclipse si ripropone di fare in modo che tutte le interazioni dell’obiettivo abbiano luogo con nodi controllati dall’hacker.

L’attaccante, infatti, provvede a inondare il bersaglio con i suoi indirizzi IP, cui è probabile che la vittima si connetterà al riavvio del proprio software. Riavvio il quale può essere del tutto naturale, oppure essere forzato dallo stesso hacker tramite un attacco DDoS ai danni della vittima. 

Una volta che l’attacco sia andato a buon fine, la vittima si ritrova praticamente in balia dei nodi controllati dall’attaccante, senza alcuna possibilità di interagire con il network, dandogli modo di indurlo ad accettare dati non corretti, in vase di validazione.

Cosa accade in conseguenza di un attacco Eclipse?

Per condurre un attacco a danno dei nodi, occorre investire del denaro. Con ogni probabilità, quindi, l’attacco ha un obiettivo finanziario. Tra quelli più frequenti, vanno ricordati i seguenti:

  • la doppia spesa (double spending), che può avere luogo in caso di accettazione di una transazione senza che sia stata confermata. In pratica, la transazione potrebbe essere stata trasmessa, ma essere in attesa di inclusione in un nuovo blocco. In questa fase transitoria, il mittente è in grado di crearne facilmente una nuova in cui sono spesi gli stessi fondi, presso un altro indirizzo. Per spingere il miner ad accettare questa seconda transazione l’hacker mette in campo una commissione più alta, con l’ìinvalidazione della precedente. La doppia spesa può essere a zero o a N conferme, con la seconda che comporta l’eclissamento sia del nodo che del commerciante:
  • l’indebolimento dei miner concorrenti, derivante dal fatto che quelli attaccati continueranno ad operare senza sapere di esserlo stati. Continueranno di conseguenza a minare blocchi seguendo le regole dal protocollo, ma i loro tentativi di aggiunta saranno declinati nella fase di sincronizzazione con i nodi onesti.

In teoria, un raid di tipo Eclipse potrebbe fornire la base per un attacco 51%. Nel caso di Bitcoin tale eventualità è un’ipotesi di scuola, in quanto servirebbe il noleggio di hash power per miliardi di dollari. In altri casi, invece, l’ipotesi è tutt’altro che remota, come il suo possibile utilizzo per il cosiddetto selfish mining.

Come impedire questo genere di attacco

Se l’attaccante possiede un numero sufficiente di indirizzi IP, è in grado di eclissare qualsiasi nodo. Le reti, però hanno la possibilità di attuare strategie difensive in grado di mitigare il pericolo. Quella più semplice in assoluto consiste nel blocco delle connessioni in entrata, oltre all’effettuazione di connessioni esclusivamente verso alcuni nodi, in particolare quelli che fanno parte di una white list.

Il problema è stato oggetto di un documento del 2015, intitolato “Eclipse Attacks on Bitcoin’s Peer-to-Peer Network”, elaborato dai ricercatori di Boston University e Hebrew University. Al suo interno sono indicate anche le possibili contromisure contro questi attacchi e si spiega che le contromisure che abbiamo ricordato hanno scarsa validità su larga scala, impedendo ai nuovi nodi di unirsi alla rete.

Nel caso di Bitcoin, invece, per impedire attacchi Eclipse bastano piccole modifiche al codice, per effetto delle quali gli attacchi diventano estremamente costosi. Tra i metodi già implementati su BTC per evitarli, occorre ricordare la selezione casuale di nuove connessioni e una maggiore capacità per l’archiviazione degli indirizzi.

InstantSend: cos’è e come funziona

La velocità delle transazioni è un dato fondamentale, per una blockchain. Quelle di prima generazione, a partire da Bitcoin ed Ethereum, risultavano in effetti molto lente, tanto da rendere impossibile pensare alla loro adozione come strumenti di pagamento in grado di competere sotto questo aspetto con quelli già utilizzati nella vita di ogni giorno.

Molte di quelle di seconda generazione hanno invece deciso di provare a rimediare a questo difetto e spesso con notevoli risultati. Tra quelle che sono riuscite a farsi notare in tal senso, un posto di riguardo spetta a Dash, con la sua funzionalità InstantSend.

InstantSend: di cosa si tratta?

Dash è una delle principali privacy coin. A favorirne la tensione alla riservatezza è la funzionalità PrivateSend, che ha fatto molto parlare di sé, e non certo in positivo. Ce n’è però un’altra di cui si dovrebbe parlare molto, ovvero InstantSend.

La prima volta che se è parlato è stato all’interno di un white paper intitolato “Transaction Locking and Masternode Consensus: A Mechanism for Mitigating Double Spending Attacks”, in cui venivano spiegati i suoi obiettivi di fondo. Una volta introdotto nel sistema Dash è stato oggetto di ulteriori miglioramenti grazie all’introduzione di LLMQ-based InstantSend, permettendo alla blockchain di garantire transazioni quasi istantanee ai suoi utenti.

Per capire i livelli prestazionali raggiunti, basta ricordare che per poter condurre in porto una transazione bastano solitamente un paio di secondi, senza alcuna necessità di dover attendere quelle conferme di blocco che possono in effetti risultare snervanti.

Ne deriva una conseguenza di non poco conto, ovvero la possibilità per i commercianti che accettano questo genere di pagamento di poter contare su transazioni quasi istantanee. Una notevole differenza rispetto ai circa 10 minuti necessari per la convalida di un pagamento con Bitcoin. Facendo di conseguenza di DASH uno dei primi token in assoluto in grado di vivere anche nella vita reale.

Come funziona InstantSend

Sinora abbiamo parlato di BTC, ma occorre sottolineare che un gran numero di criptovalute soffrono degli stessi problemi dell’icona attribuita a Satoshi Nakamoto. La lentezza in questione è del resto conseguenza della necessità di tenere in sicurezza la rete e impedire tentativi di manomissione, ad esempio sotto forma di attacchi 51%.

Dash si dimostra in grado di velocizzare al massimo i trasferimenti di denaro virtuale, senza alcun genere di contraccolpo sul piano della necessaria sicurezza. A renderlo possibile proprio la sua tecnologia InstantSend e la sua rete di Masternode di secondo livello, la cuoi presenza evita le limitazioni che sono ormai tipiche di un gran numero di blockchain.

All’interno della sua rete, i Masternode utilizzano un sistema di voto con tanto di quorum da conseguire, per poter conferire validità ad una transazione. Nel caso in cui risulti legittima, si provvede al blocco delle voci per la transazione in oggetto e alla trasmissione dell’informazione alla rete. Al tempo stesso si acclude la garanzia che l’operazione sarà inclusa in blocchi ancora da estrarre. Nel tempo occorrente per questa successiva fase le voci in questione non potranno essere utilizzate in altro modo.

A stabilire le fasi di funzionamento del sistema è stato l’aggiornamento di Dash v0.14.0, per effetto del quale è incardinato il seguente processo:

  • i Masternode presenti sulla rete di Dash sono 5mila, i quali scavano una differenza con quelli standard derivante dalla detenzione di mille Dash. In tal modo si eleva la resistenza della rete ai cosiddetti attacchi Sybil;
  • gli stessi Masternode sono delegati alla formazione dei quorum di lunga durata (Long Living Masternode Quorums), cui spetta il compito di bloccare tutte le transazioni valide per impostazione predefinita senza alcun tipo di addebito o azione aggiuntiva. Devono inoltre garantire la sicurezza che la transazione approvata verrà comunque inclusa all’interno di un blocco successivo.

In pratica, per effetto della presenza di InstantSend la rete si incarica di bloccare qualsiasi genere di input relativo ad una transazione che è stata considerata valida. In tal modo la transazione può essere convalidata immediatamente, mentre la sua inclusione in un blocco avviene in un secondo momento. Una differenza decisiva nei confronti delle blockchain che considerano valida la transazione soltanto dopo la sua inclusione in un blocco.

Mainnet: cos’è, a cosa serve e cosa la distingue dalla testnet

Quando si intende cercare di capire il reale valore di una blockchain, uno dei punti su cui sarebbe il caso di focalizzare la propria attenzione è il suo livello tecnologico. Per poterlo fare, sono gli stessi esperti a consigliare di osservare la mainnet. Il termine sta a indicare l’infrastruttura principale su cui avvengono i trasferimenti di valore all’interno della rete in esame.

Si tratta di una struttura praticamente definitiva, che si differenzia quindi in maniera profonda dalla versione di prova, indicata dagli specialisti come testnet. Le operazioni che avvengono al suo interno hanno tutti i crismi dell’ufficialità e devono avvenire in maniera tecnicamente perfetta, in modo da non comprometterne la reputazione.

Mainnet: di cosa si tratta

Per mainnet si intende una blockchain che è messa a disposizione degli utenti che intendono effettuare trasferimenti di valore al suo interno, le transazioni, senza che si vengano a verificare errori di qualsiasi genere, tali da mettere a repentaglio gli importi trasferiti.

La sua importanza è da ravvisare nel fatto che si tratta di una sorta di biglietto da visita. Ha infatti la funzione di dimostrare agli interessati che il progetto sta realmente progredendo e corrispondendo agli obiettivi di partenza, solitamente indicati nel cosiddetto white paper.

Per capirne meglio la rilevanza, occorre sottolineare che gli investitori preferiscono acquistare i token di un determinato progetto prima che la rete principale faccia il suo esordio ufficiale. Nel caso in cui le operazioni avessero una felice riuscita, infatti, la quotazione dell’asset potrebbe letteralmente schizzare verso l’alto.

Al tempo stesso, occorre sottolineare che molto difficilmente le aziende sono in grado di presentare le proprie mainnet prima dell’ICO (Initial Coin Offering) o dell’operazione di raccolta dei finanziamenti prevista. Per poter sviluppare una blockchain servono in effetti risorse che vengono raccolte e messe a disposizione della squadra di sviluppatori proprio per far avanzare i lavori.

Qual è la differenza con una testnet?

La mainnet, quindi, è la versione ufficiale destinata ad ospitare le operazioni relative ad una determinata blockchain. Potrà anche essere sottoposta a implementazioni, nel corso del tempo, o a sostituzioni di caratteristiche tecnologiche, ad esempio sostituendo un meccanismo di consenso a quello adottato inizialmente, come è accaduto con il Merge di Ethereum, ma una volta fatto il suo esordio la mainnet è la catena di riferimento.

Proprio in questo è da ravvisare la differenza con la testnet, la rete su cui i gruppi di lavoro conducono i propri esperimenti, tesi a rendere più efficiente il sistema. Provare nuove funzionalità sulla mainnet sarebbe troppo rischioso, in quanto un malfunzionamento potrebbe costringere a disattivare la blockchain. Proprio per questo le aziende operanti nel settore preferiscono far ricorso alle reti di prova, testnet, o alle canary chain, le cosiddette reti canarino.

La differenza tra testnet e canary chain, a loro volta, è da ravvisare che la testnet vede la conduzione di esperimenti non aperti a sguardi esterni, mentre la rete canarino è una rete comunque ufficiale, ma adibita agli esperimenti. La testnet offre però agli sviluppatori la possibilità di sperimentare senza dover temere in alcun modo eventuali errori.

Mainnet swap: di cosa si tratta?

Occorre peraltro sottolineare come nella fase di test molti progetti rilascino i loro token nativi, con l’evidente intento di invogliare possibili interessati. Non essendoci ancora una rete principale, si decide comunque di partire permettendo a chi vuole di finanziare la nuova blockchain, avendone ravvisato le potenzialità.

I token, conformi allo standard ERC-20, sono conservati all’interno della Ethereum Virtual Machine in attesa che la mainnet faccia il suo debutto ufficiale. Quando questo momento finalmente arriva, ne consegue il cosiddetto mainnet swap, ovvero il cambio tra i token già consegnati e i nuovi, in rapporto paritario.

I gettoni che non sono sottoposti a questo swap, dal canto loro, sono oggetto di coin burn. Per tale si intende la loro introduzione all’interno di un wallet di cui nessuno possiede le chiavi private. Da quel momento sono praticamente irrecuperabili, contribuendo in tal modo a sostenere il prezzo della criptovaluta interessata.

Congestione di rete: cos’è e perché è pericolosa per le criptovalute

Quando ad una blockchain arriva un numero di transazioni tale da esorbitare la sua capacità di elaborarle, si verifica la cosiddetta congestione di rete. Si tratta di un fenomeno derivante da diversi fattori, sia esterni, come la volatilità del mercato, che interni, riguardanti in particolare caratteristiche intrinseche della rete. Una categoria, quest’ultima, in cui vanno a rientrare, ad esempio, la block size (le dimensioni del blocco) e il block time (periodo di tempo che trascorre tra blocchi consecutivi). Andiamo quindi ad esaminare meglio il problema.

Alcuni concetti chiave della blockchain

Per capire meglio cosa sia la congestione di rete, occorre riuscire a comprendere alcuni concetti chiave attorno ai quali ruota la tecnologia blockchain. Tra di essi, in particolare, i seguenti:

  • la mempool (abbreviazione di memory pool), ovvero la raccolta di transazioni non confermate che attendono l’inclusione nel blocco successivo. Prima di essere aggiunta alla catena, una transazione viene aggiunta a questa vera e propria area di attesa, da cui sarà rimossa dopo la conferma; 
  • i blocchi candidati, quelli proposti per l’aggiunta alla blockchain. Per essere confermati devono essere minati in base al meccanismo di consenso vigente sulla rete. Nel caso di Bitcoin saranno quindi necessari complicati calcoli, mentre su Ethereum occorre mettere in staking i token (almeno 32);
  • la finalità, ovvero il momento in cui una transazione o un’operazione non è più in grado di essere modificata o annullata. A quel punto viene registrata in modo permanente sulla blockchain, senza alcuna possibilità di rimuoverla o alterarla;
  • il principio della catena più lunga, che deve essere applicato quando gruppi concorrenti di minatori producono nuovi blocchi praticamente nello stesso momento. Dovendo operare una scelta, si adotta il criterio che premia la versione di blockchain caratterizzata dal maggior lavoro computazionale, che si esprime proprio con la maggior lunghezza della catena. Su Ethereum, dopo il Merge, è stato adottato un meccanismo simile, che premia il maggior peso della catena, inteso come la somma accumulata dei voti dei validatori ponderata per i saldi dei loro ether in staking.

Le cause della congestione di rete

Quali sono le cause principali che portano ad un sovraccarico eccessivo della rete? Tra di esse occorre sicuramente annoverare:

  • un forte aumento in termini di domanda, che vede la mempool superare in capacità il numero di transazioni che possono entrare in un singolo blocco;
  • una misura di blocco inadeguata. Ogni blockchain ha un suo massimo di capacità per un blocco, che per Bitcoin, alle origini era di un megabyte. Dopo l’aggiornamento noto come SegWit (abbreviazione di Segregated Witness) tale massimo teorico è quatto volte maggiore. Se le transazioni in attesa eccedono questo limite si congestiona la rete;
  • un block time che non regge al ritmo di creazione delle transazioni. Sempre su BTC tale tempo di blocco equivale a 10 minuti.

Cosa accade se la rete entra in fase di stress?

Naturalmente, la congestione di rete si traduce in una serie di problemi molto seri. I più rilevanti, sono i seguenti:

  • il dilatamento dei tempi di attesa per la conferma della transazione eseguita;
  • un elevamento delle commissioni da versare, nell’intento di incentivare i minatori a convalidare la propria transazione a discapito di chi paga di meno;
  • il peggioramento dell’esperienza utente, con l’aggravio dei costi e il prolungarsi dei tempi di attesa;
  • un aumento della volatilità di mercato. Chi ha intenzione di vendere, ma vede prolungarsi i tempi per poterlo fare, può essere preso dal panico e scaricare più in fretta possibile i propri asset, a prezzi anche molto sfavorevoli.

Come si può notare, si tratta di conseguenze molto serie. Tali da aver spinto molti sviluppatori a dedicare i propri sforzi alla risoluzione di tali problemi. Se per Bitcoin si è pensato a Segregated Witness, altri hanno messo in campo lo sharding (divisione della blockchain in parti più piccole e autonome), o le soluzioni layer 2 (che elaborano le transazioni fuori dalla rete principale).

Tra le criptovalute che hanno abbracciato lo sharding occorre ricordare Polkadot, Near Protocol ed Elrond. Tra le soluzioni di livello 2, ci sono invece Polygon, Loopring e Immutable X. In entrambi i casi, ci sono comunque molte altre aziende che hanno deciso di dare una risposta alla congestione di rete, per offrire una migliore esperienza ai propri utenti.

Testnet: cos’è e come funziona

I progetti in ambito crypto hanno bisogno di lunghi rodaggi, prima di poter accogliere nuove funzionalità. Non prevederli può infatti lasciare spazio a vulnerabilità che possono rivelarsi dannose non solo per il loro stato di efficienza, ma anche a livello di reputazione.

Proprio per evitare che possano accadere episodi di questo genere, nel corso del tempo è stato affinato uno strumento che si è rivelato estremamente prezioso in tal senso. Stiamo parlando della testnet, ovvero una rete che è espressamente dedicata alle prove, prima che le nuove funzionalità vengano implementate sulla mainnet. Andiamo a conoscere quindi più da vicino questo strumento e perché sia considerato così prezioso in ambito blockchain.

Testnet: di cosa si tratta?

Per testnet, traducibile nella nostra lingua come rete di test, si intende uno strumento che è ormai considerato indispensabile dagli sviluppatori operanti in ambito crypto. Facendo leva su questa rete alternativa, è infatti possibile mettere alla prova nuove funzionalità e caratteristiche prima che approdino sulla blockchain principale.

Per capirne meglio la funzione, è possibile utilizzare un’altra definizione utilizzata in alternativa, ovvero canary network. Con questa definizione, traducibile come rete canarino, si stabilisce una similitudine con le gabbie in cui nelle prime miniere di carbone venivano messi questi uccellini. Mancando sistemi di ventilazione al loro interno, i canarini, che sono estremamente sensibili alla presenza di metano e monossido di carbone erano considerati un sistema di sicurezza indispensabile. Se smettevano di cantare era infatti in atto una fuga di gas.

Una funzione quindi essenziale, che è molto simile a quella svolta dalla testnet. In questo caso, le prove devono segnalare eventuali bugs e vulnerabilità e impedire che possano provocare problemi sulla rete principale. La rete canarino è completamente uguale alla mainnet e solo una volta che gli esperimenti siano andati a buon fine è arrivato il momento di portare gli aggiornamenti su di essa.

Il tutto con un altro vantaggio estremamente rilevante, derivante dal fatto che queste prove non comportano alcun genere di costo.

Come funziona, una testnet?

Le azioni che vengono condotte su una testnet non comportano alcun genere di ripercussione sulla blockchain originaria. Gli sviluppatori provvedono infatti a creare i cosiddetti blocchi genesi, che sono quasi uguali, contrassegnandoli in modo da distinguerli.

In questo modo si attua una separazione netta tra le due blockchain, impedendo che possa avvenire il trasferimento di fondi sulla catena principale, il quale equivarrebbe ad una frode. Così come in tal modo si impedisce che l’attività di estrazione dei blocchi, notevolmente più facile in questo caso, possa ripercuotersi sulla mainnet.

Soltanto una volta che il periodo di prova sulla testnet avrà dimostrato di non rappresentare un problema per la catena principale, si passerà alla vera e propria implementazione degli aggiornamenti, eliminando in tal modo qualsiasi genere di problematica.

Testnet: un po’ di storia

L’esordio del concetto di testnet risale al 2010. Proprio in quell’anno, infatti, Gavin Andresen, uno dei più noti sviluppatori di Bitcoin, decise di inviare una patch, ovvero una piccola porzione di codice tesa all’aggiornamento della catena inventata da Satoshi Nakamoto. Accettata dal fondatore di BTC, questa modifica può essere considerata la prima testnet della storia.

Una seconda operazione di questo genere avvenne poi il 3 febbraio dello stesso anno, quando fu David Francoise ad aggiungere una porzione di codice al Bitcoin Core. L’operazione in questione è nota come Testnet2 e contrariamente a quanto si pensava, non fu coronata da successo. La sua implementazione, infatti, ha comportato un aumento della difficoltà del mining e, soprattutto, la vendita da parte di alcuni utenti dei token ottenuti sulla testnet, spacciandoli per reali.

A risolvere il problema fu proprio Andresen, il quale riavviò la rete il 12 aprile del 2012. Le modifiche da lui apportate riuscirono a ovviare alle problematiche evidenziate e ancora oggi la terza testnet gira su Bitcoin.

Bitcoin, però, non rappresenta l’unica rete che ha fatto ricorso a questo nuovo sistema. Tra le blockchain che vi hanno fatto ricorso occorre ricordare in particolare Polkadot, il cui canary network è rappresentato da Kusama.