C’è stato un tempo, in Italia, in cui fare cinema significava guardare il mondo oltre la macchina da presa e, attraverso di essa, interpretarlo. In quel tempo, i registi e gli attori raccontavano i difetti della società con lo scopo di sbugiardarli, di metterli alla berlina, in un tentativo di resistenza culturale al possibile declino. Gian Maria Volonté era uno degli uomini-simbolo di questa visione del cinema come strumento di intervento nella vita civile di un Paese, impegno che trovò uno dei suoi apici nel breve documentario sulla morte di Giuseppe Pinelli.
Pinelli, precipitato dal quarto piano della questura di Milano il 15 dicembre 1969, è un’altra vittima della strage di piazza Fontana a Milano, avvenuta tre giorni prima. Vittima anche dell’ingiustizia e della violenza che si stavano facendo largo nel Paese e che avrebbero segnato il decennio successivo.
La sua morte è, infatti, un manifesto di quanto sbagliata fu quella stagione racchiusa in maniera semplicistica sotto l’etichetta ‘anni di piombo’. A quella deriva, Volonté ed Elio Petri si opposero con un documento audiovisivo che unisce teatro e cronaca, spettacolo e denuncia e, per dirla con Volonté, “arte e vita“.
Gian Maria Volonté e le “Ipotesi su Giuseppe Pinelli”
Oggi, 12 dicembre 2024, sono 55 anni esatti dalla strage di piazza Fontana. La bomba che fece a pezzi la sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, uccidendo 17 persone e ferendone 88, segnò la fine dell’innocenza per il nostro Paese, gettato in un inferno di paranoia, sfiducia e violenza.
Giuseppe Pinelli è una delle vittime di quel clima che venne instaurato subito dopo l’esplosione dell’ordigno. Convocato (non arrestato) in questura la sera stessa dell’attentato per accertamenti, ne esce cadavere tre giorni dopo, quando il fermo era diventato illegale da un pezzo e dopo essere caduto da una finestra del quarto piano in circostanze mai chiarite.
Perché si muore così in Italia, tra la fine degli anni ’60 e in tutto il decennio successivo: uccisi da mani che non hanno nome.
È quella che gli storici definiranno ‘strategia della tensione’ e se politica e forze dell’ordine non possono fare nulla per contrastarla (anche perché una parte di loro ne è l’artefice), in un Paese sano è il mondo intellettuale che deve farsene carico.
È a questo punto che Gian Maria Volonté, insieme con il compagno di cinema e di lotta Elio Petri, realizza “Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli“, unico episodio montato e finito di quello che avrebbe dovuto essere il film d’inchiesta collettivo “Documenti su Giuseppe Pinelli“, mai terminato.
Un breve documentario nel quale Volonté, Petri e lo sceneggiatore Ugo Pirro ricostruiscono le tre versioni ufficiali diffuse dalla polizia sulla morte del ferroviere anarchico, e che concordavano tutte sull’ipotesi del suicidio.
Con ironia amara e tagliente, ma anche con tanta rabbia e un chiaro intento polemico, le note ufficiali vengono smentite, svelandone le contraddizioni evidenti al limite del paradossale. Una ricostruzione, ad esempio, sostiene che un poliziotto nella stanza con Pinelli abbia provato a fermarne il suo gesto suicida, riuscendo, però, solo a prendergli la scarpa. Ma il cadavere del ferroviere aveva entrambe le scarpe ai piedi…
Gian Maria Volonté, Elio Petri e il commissario Luigi Calabresi
Il documentario, però, è anche un grido d’allarme che segnala l’impotenza dei cittadini di fronte a simili trame oscure. L’atto d’accusa artistico di Volonté e Petri si pone come argine a questa deriva, per tenere all’erta la coscienza civile dei cittadini di fronte a un clima sempre più preoccupante e drammatico.
Figlio di quell’atmosfera è anche il capolavoro che i due realizzano in quello stesso 1970: “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto“.
Premio Oscar come Miglior film straniero nel 1971, la pellicola è una provocazione chiara di Petri e Volonté contro la deriva delle forze dell’ordine e, più in generale, dello Stato, all’indomani della strage di piazza Fontana. L’attore interpreta un commissario psicotico posto al comando dell’ufficio politico della Questura, ossessionato da legge e ordine (suo il motto “Repressione è civiltà!“) e, al tempo stesso, assassino della sua amante, ‘colpevole’ di prendersi gioco della sua autorità maschile.
Volonté e Petri mettono in scena un potere per sua stessa natura malato, diviso in maniera quasi schizofrenica tra gli obblighi istituzionali cui dovrebbe rispondere e la brutalità con cui li mette in pratica. E dal giornale ‘Lotta Continua’ non mancò un sentito sostegno al film, riscontrando un parallelismo tra il poliziotto interpretato da Volonté e il commissario Calabresi, contro il quale il giornale stava conducendo una campagna serrata per la morte di Pinelli, sfociata poi nel suo omicidio del 17 maggio 1972.
La strage di piazza Fontana e la sollevazione del cinema italiano
Petri e Volonté non sono i soli a condividere l’urgenza di dover fare qualcosa, mettendo le macchine da presa a disposizione del racconto di un Paese intorno a loro che sta precipitando in un orrore dai contorni indefiniti e, per questo, ancora più spaventosi.
L’industria del cinema italiano, particolarmente florida in quegli anni, si mobilita e, su spinta dello stesso Petri, di Ugo Pirro e di Damiano Damiani nasce il ‘Comitato cineasti contro la repressione’. Il suo scopo è denunciare la soppressione di ogni forma di dissenso da parte delle forze dell’ordine, con il pretesto della strage di piazza Fontana. Ne fanno parte alcuni dei nomi più influenti del nostro cinema, da Volonté a Marco Bellocchio, da Bernardo Bertolucci a Liliana Cavani, fino a Marco Ferreri e Luchino Visconti.
Un coraggio e una consapevolezza che oggi mancano drammaticamente al cinema italiano. Lo dimostra il semplice fatto che, a 55 anni di distanza sia stato fatto un solo film sulla strage di piazza Fontana, il discusso “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana del 2012.
A trent’anni esatti dalla sua morte, Gian Maria Volonté, con le sue battaglie dentro e fuori dal set condivise con gli altri maestri citati, resta il simbolo di come cultura e politica formino un binomio inscindibile, per cui sviluppo culturale e progresso sociale non possono esistere l’uno senza l’altro. Per dirla con le parole dell’attore, “ogni film, ogni spettacolo, è generalmente politico” mentre “il cinema a-politico è un’invenzione dei cattivi giornalisti“.
Conclusioni
- Gian Maria Volonté e l’impegno del cinema italiano: negli anni ’60 e ’70, il cinema italiano era caratterizzato da un forte impegno civile, utilizzando il mezzo per denunciare le ingiustizie sociali e politiche. Volonté fu un protagonista di questa stagione, in particolare con il documentario “Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli“, che denunciava le contraddizioni nelle versioni ufficiali sulla morte di Pinelli;
- Il contesto storico e politico dopo la strage di piazza Fontana: la morte di Giuseppe Pinelli, precipitato dalla questura di Milano dopo essere stato interrogato in relazione alla strage di piazza Fontana, divenne simbolo di un periodo segnato dalla violenza delle forze dell’ordine, in un clima di sfiducia e paranoia. Volonté e il regista Elio Petri si opposero a questo clima con il loro lavoro, denunciando le violazioni e le manipolazioni della verità;
- Il coraggio del cinema di allora e la sua mancanza in quello di oggi: nel periodo successivo alla strage, il cinema italiano si mobilitò contro la repressione, con nomi come Petri, Bellocchio, Bertolucci, Volonté e altri che formarono il ‘Comitato cineasti contro la repressione’. Oggi, tuttavia, manca la stessa forza di denuncia: nonostante la rilevanza storica, a distanza di 55 anni, sono pochi i film sul tema della strage di piazza Fontana, tra cui il controverso “Romanzo di una strage” (2012).