Tratto da un soggetto scritto a quattro mani da Federico Fellini e Tullio Pinelli nel 1948, l’omonimo “Napoli-New York” è il nuovo film colossale del regista napoletano Gabriele Salvatores. Una dolce favola ambientata nel primissimo dopoguerra si sviluppa partendo da Napoli per finire nella grande New York. Nel cast, tra i ruoli principali, troviamo l’attore romano Pierfrancesco Favino.
“Napoli-New York”, recensione
1949.
Sono trascorsi giusto quattro anni dalla meritata caduta del fascismo, ma la libertà ha sempre un prezzo e ha portato con sé fame e miseria. Napoli è distrutta e a risentirne di più è stato il popolo, ridotto a stracci e pane duro. Chi non ha abbastanza soldi per mangiare non ne ha nemmeno per lavarsi e così ti può capitare, passeggiando per i vicoli più poveri e incontrando i volti di chi la fame la conosce davvero, di vedere tra i solchi profondi di una manciata di rughe della sporcizia nera come il catrame. E quel sudiciume non appartiene a chi è troppo pigro per pulirsi, ma a chi ha la pancia così vuota che lì dentro puoi quasi sentirci l’eco dei pensieri sognanti rivolti al cibo. Decine e decine di bambini di tutte le età saltellano come grilli in giro per la città cercando disperatamente di vendere sigarette per potersi permettere una latta di fagioli, o una piccola pagnotta. Buona parte di loro sono orfani di guerra, rimasti soli, con abiti troppo leggeri per affrontare il freddo, anche quello del Sud. Ma non si danno mai per vinti: con la testa dura come il marmo e le forze prese chissà dove, si improvvisano in lavoretti arrangiati per tirare a campare fino a sera. Sono centinaia, con le vesti strappate, le scarpe rotte e le guance sporche di fango e come gatti randagi resistono, testardi, andando alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Tra questi ci sono Celestina (Dea Lanzaro) e Carmine (Antonio Guerra). La prima è la più piccola, ha perso entrambi i genitori e sua sorella Agnese (Anna Lucia Pierro) è scappata a New York per sposare uno yankee. Celestina è minuta, con gli occhi e i capelli castano scuro, la carnagione olivastra come una tazza di latte appena macchiato e le gote morbide e tonde, che a guardarle ti fanno venire voglia di prenderle a pizzichi. Fino a un instante fa viveva con un’anziana zia che se ne prendeva cura, ma d’improvviso il palazzo nel quale alloggiavano è crollato come fosse un castello di sabbia in riva al mare, abbattuto da un’onda birichina. Il secondo, amico di Celestina, è un poco più grande di lei, ha un bel visetto da scugnizzo con un’espressione furba e vispa, ed è uno di quei ragazzini che si dà fa fare, tentando imbrogli e piccoli colpi di fortuna per guadagnare due spiccioli. Carmine la notte dorme per terra, in una chiesa abbandonata e pericolante, poggiando la testa su un cuscino sottile come una fetta di formaggio e coprendosi con una coperta marrone, rigida e infeltrita, che ricorda la crosta di un pezzo di pane secco.
Tra i due amici c’è un forte legame d’affetto che li tiene uniti a doppio nodo e che fa esplodere una meravigliosa bellezza folgorante, come un tizzone ardente, nel buio della disperazione. E benché Carmine sia malnutrito e il suo stomaco sia più grosso della faccia, si priva del cibo con spavalderia per lasciarlo a lei quando non basta per tutti e due. Una notte finiranno entrambi su una grossa nave americana diretta a New York e prima che possano scendere l’imbarcazione ripartirà. Ma, anziché autodenunciarsi all’ufficiale di comando su quell’imbarcazione, Domenico Garofalo (Pierfrancesco Favino), decideranno di nascondersi per andare in cerca di un futuro migliore in America, raggiungendo la sorella di Celestina.
“Napoli-New York”, critica
Immaginate di trovare un baule abbandonato un tempo appartenuto a Fellini. Adesso provate a chiudere gli occhi e a pensare di aprirlo e di venire investiti da una ventata d’aria che ha un odore misto di polvere e carta vecchia. Ora fate ancora un altro sforzo e immaginatevi di guardare al suo interno e di trovare una pila di fogli ingialliti. Ecco, deve essere andata più o meno così quando pochissimi anni fa è stato ritrovato “Napoli-New York”, un soggetto scritto da Fellini e Pinelli nel ’48. Federico Fellini, per poco non ancora regista, all’epoca scrisse quello che a tutti gli effetti possiamo reputare un racconto romanzato insieme al suo amico e collega sceneggiatore Tullio Pinelli. Avevano pensato di farne un film, ma poi per qualche ragione finì dimenticato sul fondo del famoso baule di cui vi ho parlato un attimo fa.
È da questi scritti che il cineasta napoletano Gabriele Salvatores ha iniziato a fantasticare e sognare su quello che poi sarebbe diventato il suo nuovo lungometraggio. “Napoli-New York”, per l’appunto, è stato girato tra Napoli, Trieste, Rijeka in Croazia, gli Studios di Cinecittà a Roma ed è ambientato nella fine degli anni ’40 tra il capoluogo campano e la Grande Mela. In un genere misto che oscilla tra il neorealismo e la commedia, questa pellicola è una tenera e dolcissima favola adatta a grandi e piccini. Un colossal in pompa magna, come il cinema sfarzoso dei grandi classici. Tutto di questo film riscalda ed emoziona: non soltanto la trama, fiabesca e romanzata, ma anche le immagini bellissime e delicate con una fotografia e una scenografia di pregio. La maestria di Salvatores, eccellente professionista nostrano, la si può vedere non solo nel prodotto confezionato nel suo insieme, ma anche e soprattutto nella capacità magistrale di dirigere i due piccoli protagonisti, interpretati da Dea Lanzaro e Antonio Guerra. E cosa accade quando due bravissimi giovani attori vengono diretti da un abile professionista di spicco con decenni di carriera alle spalle? Che ne vien fuori un assoluto capolavoro. A completare un meraviglioso quadro c’è il resto del cast che con esperienza e bravura tiene in scena uno spettacolo esaltante, soprattutto uno splendido Favino che anche qui si riconferma uno dei nostri migliori attori contemporanei.
Questa favola moderna affronta diversi temi che si rivelano maledettamente attuali: non solamente la miseria che porta la guerra e che lascia anche quando finisce, ma anche il pregiudizio razziale riservato a chi emigra in continenti lontani e diversi dal proprio. Osservando il racconto realistico di come venivano trattati gli italiani negli Stati Uniti durante il periodo della grande emigrazione nella metà del ‘900, se si hanno anche solo un briciolo di coscienza e almeno due dita di cervello, non si può non pensare alle condizioni di vita e al trattamento indegno riservato agli immigrati, in particolare ai sudafricani, nel nostro Paese. Unica pecca verso il finale, dove la narrazione diventa appena un pelo esagerata, avvicinandosi al grottesco. Una tenera e commovente coccola vi aspetta nelle sale. Quattro stelle su cinque.