Andare in pensione con soli 21 anni di contributi è un’opzione fattibile, ma con una condizione: devi aver raggiunto almeno i 67 anni di età.

Con questa anzianità contributiva, qualsiasi forma di pensionamento anticipato è esclusa, rendendo impossibile l’accesso a opzioni come l’anticipata ordinaria (richiedente 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, un anno in meno per le donne), Quota 103 e Quota 41 precoci (richiedenti 41 anni di contributi), Ape Sociale (richiedente dai 30 ai 36 anni di contributi), Opzione Donna e pensione per lavori usuranti (richiedenti 35 anni di contributi).

L’unica via rimasta è quindi la pensione di vecchiaia, che permette di ricevere un assegno mensile calcolato in base ai contributi versati e all’età anagrafica, purché si abbia un’età di almeno 67 anni e almeno 20 anni di contributi. Questa opzione rappresenta il limite massimo di flessibilità nel contesto delle regole pensionistiche.

Quanto si prende di pensione con 21 anni di contributi a 67 anni di età?

L’unica possibilità per andare in pensione con 21 anni di contributi è data quindi dalla pensione di vecchiaia. Quanto alla cifra pensionistica, non ci si può aspettare un importo esorbitante, specialmente per i lavoratori contributivi puri, i quali sono già fortemente penalizzati dal sistema contributivo e privati dell’integrazione al minimo, che non si applica sugli assegni maturati dal 1° gennaio 1996.

Per comprendere le differenze tra un lavoratore dipendente che ha prestato servizio prima del 1996 e un contributivo puro, possiamo esaminare due esempi.

Primo esempio:

Consideriamo un impiegato di 67 anni con 21 anni di contributi, di cui 5 anni fino al 1995 e 16 anni dal 1996 ad oggi, percependo una retribuzione lorda annua di 26.000 euro.

Il calcolo della sua pensione sarà effettuato mediante un sistema misto, suddiviso in due quote: la prima, derivante dal sistema retributivo, rappresenta il 2% di aliquota moltiplicato per i 5 anni di contributi versati fino al 1995, con il risultato sottratto del 10% applicato alle ultime retribuzioni percepite. La prima quota dovrebbe ammontare a 2.600 euro.

La seconda quota viene calcolata con il sistema contributivo, prendendo in considerazione il montante contributivo, ovvero le quote di retribuzione accantonate dal lavoratore dal 1996 ad oggi (considerando il 33% della retribuzione lorda annua). Il calcolo porta a un montante contributivo di 137.280 euro, al quale si applica un coefficiente di trasformazione del 5,723% a 67 anni, risultando in una seconda quota di 7.857 euro.

Sommando le due quote (2.600 euro e 7.857 euro), otteniamo l’importo lordo di un anno di pensione: 10.547 euro, pari a circa 805 euro lordi al mese o circa 570 euro netti al mese, appena sopra la soglia minima di 563.72 euro.

Se la retribuzione lorda annua fosse di 28.000 euro, la pensione si aggirerebbe intorno ai 615 euro netti al mese; mentre con una retribuzione lorda annua di 24.000 euro, il diritto a una pensione sarebbe inferiore a 530 euro al mese.

Secondo esempio:

Consideriamo ora un lavoratore dipendente contributivo puro, il quale ha accumulato 21 anni di contributi tutti a partire dal 1° gennaio 1996, con un reddito lordo annuo di 26.000 euro.

Per calcolare la sua pensione, adotteremo esclusivamente il metodo contributivo. Il suo montante contributivo (calcolato come il 33% di 26.000 euro, pari a 8.580 euro, moltiplicato per 21 anni di contributi) ammonta a 180.180 euro.

Su questo importo incide il coefficiente di trasformazione del 5,723%, restituendo un importo lordo di un anno di pensione pari a 10.312 euro, approssimativamente 795 euro lordi al mese, che si traducono in circa 520 euro netti al mese.

Con un reddito di 28.000 euro, la pensione si attesterà a circa 11.105 euro lordi annui, equivalenti a circa 550 euro netti al mese; mentre con un reddito di 24.000 euro, la pensione sarà di circa 9.519 euro lordi annui, corrispondenti a circa 480-500 euro di pensione netta mensile. In tutti questi scenari, al lavoratore non sarà concessa l’integrazione al minimo.