Ritorno al cinema per il regista Jonathan Glazer che presenta sul grande schermo il suo ultimo gelido dramma, facendoci entrare nella consueta vita familiare di Rudolf Höss e di sua moglie Hedwig Hensel.

“La Zona d’Interesse”, recensione


Oświęcim, Polonia.
Ѐ il 1943 e una giovane famiglia tedesca sta vedendo rapidamente crescere il progetto di una splendida dimora in riva al fiume Soła.
Padre, madre e cinque bellissimi figli condividono le loro giornate all’interno di un’incantevole villa circondata da un grande giardino verde.
Un cane, un cavallo, due cameriere e un giardiniere completano lo scenario di una consuetudine familiare perfetta, dove pasti consumati sul prato e bagni domenicali nel fiume scandiscono il tempo di quella che pare essere l’incarnazione della felicità.

Marito e moglie sembrano amarsi ancora stando vicini, ridendo insieme, sognando ulteriori migliorie a quella casa costruita con amore e dedizione.
Sull’erba fresca dal colore brillante trova sfogo l’esuberanza infantile dei loro bambini, che giocano liberi all’ombra delle piante rampicanti.
Tutto fa pensare a un ideale paradisiaco di serena stabilità, al punto da apparire come un dipinto dagli scenari bucolici.

L’aria leggera, le soleggiate mattine di primavera, i pranzi abbondanti serviti in soggiorno, i bambini che corrono, le fragorose risate spontanee si tingono all’improvviso di tinte oscure, nere come il catrame.
Dalla finestra si sentono dei lamenti, poi degli spari, di nuovo le urla che a tratti sporcano l’immagine di quel nido idilliaco dove sembra non esserci spazio per il dolore.
Ma quegli attimi durano poco e l’oscurità del male scompare in un istante passeggiando in quel giardino incantato.
Centinaia di fiori dai colori più vivaci crescono rigogliosi tutt’intorno alla casa e assolutamente non sembra possa esserci niente di mostruoso dinnanzi alla natura che fantasiosa si espone in tutta la sua bellezza.

E proprio lì, dove mai ti aspetteresti, si manifesta l’orrore più ripugnante: a delineare i confini di quel parco c’è un muro grigio scuro che porta con sé il peso della mostruosità umana.
Al di là di quella barriera sorge Auschwitz, dove milioni di corpi verranno presto violati, massacrati e privati della dignità e dell’esistenza stessa.
La mattanza è già iniziata, migliaia di ebrei torturati alle spalle di quella sottile parete di confine.
Il proprietario di quell’abitazione si chiama Rudolf (Christian Friedel) e la sua è la famiglia Höss.
Ѐ il comandante dei campi di sterminio dei quali lui stesso ha preso parte alla progettazione, dedicandovisi esattamente come si era dedicato al progetto di costruzione della sua amata villa.

Proprio ai margini di quel giardino, dove grazie allo sbocciare di moltissimi fiori nasce la vita, atrocemente si palesa la morte.
Non c’è umanità, non c’è tristezza, non c’è compassione nelle coscienze avide e sadiche di Rudolf e della moglie Hedwig (Sandra Huller).
Si dividono finanche gli abiti strappati via ai prigionieri, lasciati nudi per mortificarli ulteriormente nell’umiliazione.
Non un ripensamento, non uno scrupolo nelle loro anime scure come la pece.
Vivono indisturbatamente, giorno per giorno, di fronte alla costruzione di un raggelante inferno di dolore e malignità.
Dissociati dalla realtà, non avvertono la minima afflizione da ciò che percepiscono come un normale lavoro.

“La Zona d’Interesse”, critica

La Zona di Interesse”, come venivano chiamati da Hitler i 40 chilometri quadrati rubati ai polacchi dai nazisti per costruirci i campi di concentramento, è un film che ci mostra uno spaccato nella quotidianità di Rudolf Höss e di tutta la sua famiglia.
Jonathan Glazer, regista di opere come “Birth – Io sono Sean” e “Under the Skin”, firma questa pellicola ispirata vagamente al romanzo omonimo di Martin Amis.

Scegliendo di girare le scene quasi totalmente in assenza di cameramen sul posto, decidendo di installare delle telecamere nelle varie ambientazioni per dirigerlo a distanza, il regista ha avuto l’idea di creare un’arena per gli attori dandogli la sensazione di invisibilità delle riprese per crearle in tempo reale. Sono state utilizzate delle lenti Leica senza alcun tipo di filtro o aumento del contrasto per mantenere l’aspetto più naturale possibile.

Questo non è un lungometraggio che ci parla semplicemente dell’olocausto: piuttosto cerca di farci percepire la completa mancanza di umanità in personalità profondamente perverse, come quella del comandante.
Senza alcun tipo di sentimentalismo, inesorabilmente ci svela cosa si prova a essere crudeli per natura: assolutamente nulla.
Nessuna emozione, fatta eccezione per gli attimi di ira e di autoesaltazione.

Personalmente riponevo grandi aspettative in questo film.
Mi preparavo psicologicamente da giorni a vivere un dispiacere grave e acuto, che sapevo mi avrebbe guastato il sonno; ma solo dopo la visione di questo dramma ho capito che l’intento non era quello di commuovere, piuttosto di esporre il punto di vista di una persona totalmente priva di coscienza.
L’ho trovato un film senz’anima, esattamente come i criminali di guerra delle SS.
Se l’intento era questo, direi che il regista ci è perfettamente riuscito.