È stato condannato all’ergastolo per aver ucciso la moglie Stefania Pivetta e la figlia Giulia, ferendo gravemente il figlio maggiore Nicolò a Samarate: ecco chi è Alessandro Maja. Ha 60 anni e alle spalle una lunga carriera da interior designer a Milano e dintorni.

Chi è Alessandro Maja, l’uomo condannato al massimo della pena per la strage di Samarate

I fatti risalgono alla notte tra il 4 e il 5 maggio del 2022. Approfittando del fatto che stessero dormendo, Maja colpì a martellate la moglie di 56 anni e i due figli di 16 e 23 anni per poi provare a darsi fuoco. A dare l’allarme, dopo aver notato che era a terra sulla soglia di casa, furono i vicini.

“Li ho uccisi tutti, bastardi”, disse ai carabinieri intervenuti poco dopo insieme ai soccorsi chiamati per portare in salvo il figlio maggiore, sopravvissuto alla strage. Oggi, 14 febbraio, la Corte d’Assise d’Appello di Milano ha confermato la sentenza con cui i giudici di primo grado l’avevano condannato all’ergastolo e a diciotto mesi di isolamento diurno.

Stando a quanto ricostruito nel corso del processo, avrebbe visto nello sterminio della sua famiglia l’unica via per sfuggire ai problemi da cui si sentiva afflitto. Sembra che fosse ossessionato dal lavoro e dai soldi e che, non di rado, rimproverasse la moglie (che accusava anche di non dargli attenzioni sessuali) di sperperarli.

Al figlio, che dopo lunghe cure ha provato a ricostruirsi una nuova vita, ha chiesto perdono ma, “pur disponendo di beni immobiliari e di liquidità consistente”, non ha offerto alcun risarcimento. All’inizio dell’udienza odierna, dopo aver raggiunto l’aula dal carcere di Monza, dove è recluso, aveva dichiarato:

A causa del mio squilibrio emotivo ho cancellato la mia famiglia. Confido nel perdono di Gesù, determinato dal mio pentimento. Mi aspetto una pena adeguata, sperando nella clemenza.

Lo riporta Rai News. Il procuratore generale aveva chiesto il massimo della pena, opponendosi alla perizia psichiatrica chiesta dalla difesa.

Il lavoro come architetto prima della strage

“Vulcanico di idee, originali e stravaganti, ma concrete e funzionali”, veniva definito sul sito del Maja Group, l’atelier di progettazione operante in Italia e all’estero che aveva fondato diversi anni fa a Milano, con sede sui Navigli.

La moglie Stefania lo sosteneva, nella vita e sui social, dove, non di rado, gli dedicava parole d’amore e di stima per il suo lavoro. “Il vero lusso è la felicità”, scriveva. E probabilmente, guardando la sua famiglia, pensava di averla trovata. Poi qualcosa si era spezzato.

La notizia della strage aveva lasciato esterrefatta l’opinione pubblica, che ora accoglie di buon grado la condanna del 60enne. La sua storia ricorda, per certi versi, quella di Martino Benzi, l’ingegnere di 67 anni che lo scorso 27 settembre ha ucciso la moglie, il figlio 17enne e la suocera, togliendosi a sua volta la vita.

Sembra che, oltre a soffrire di depressione, avesse ingenti debiti con il fisco e che non sapesse come ripagarli. Su un biglietto fatto rinvenire in cucina accanto ai corpi dei familiari aveva scritto di non avere scampo. Temeva, forse, di deludere i suoi cari, di farli soffrire a causa dei suoi errori. Alle 10.30 si era presentato nella casa di riposo della suocera e, con la scusa di farle una visita, l’aveva accoltellata alla gola con un rasoio da barbiere e poi si era ucciso.

Nella sua tasca gli inquirenti avevano ritrovato un biglietto scritto a mano, con poche, scioccanti parole: “Andate a casa, troverete i cadaveri di mia moglie e di mio figlio”. Li aveva accoltellati da qualche ora, uno in salotto e uno in camera da letto. La moglie aveva superato da poco una grave malattia.