Le università telematiche sono “un modello sbagliato”. L’affondo è arrivato nei giorni scorsi dal Rettore dell’Alma Mater Giovanni Molari. Ne parliamo con il Prof. Enrico Ferri, docente di Filosofia del Diritto all’Unicusano, autore del libro “L’Università al tempo della rivoluzione telematica”, Edicusano 2022.
Il Prof. Enrico Ferri sulla polemica riguardo alle università telematiche
D. Recentemente il prof. Giovanni Molari, rettore dell’Università di Bologna, è tornato sulla questione della didattica on line, dichiarando senza mezzi termini che “le università telematiche sono un modello sbagliato”, che “non sono un bene per il nostro paese”. Le chiediamo un commento su simili dichiarazioni.
Leggere queste parole mi ha provocato sensazioni di scoramento e frustrazione. Il mondo universitario dovrebbe rappresentare l’avanguardia intellettuale e scientifica della nazione, un traino per il progresso e lo sviluppo. Una realtà scevra da pregiudizi, capace più di altre di cogliere i processi vitali che attraversano la società, a partire dalle nuove tecnologie come l’informatica e la telematica, che investono la nostra quotidianità e la caratterizzano, aprendo orizzonti fino a qualche anno addietro impensabili.
D. Il prof. Molari ripropone un modello di università in presenza a suo avviso insuperato.
Nell’era dell’intelligenza artificiale c’è chi è legato a un modello di università ferma agli anni Cinquanta, con lo studente che si reca nell’aula con il suo block note e prende appunti, ascoltando una conferenza/lezione di un docente di cui non resta alcuna traccia. Poi, semmai, se non ci sono altre lezioni in programma, se ne torna a casa. Oppure, come accade a mia nipote, iscritta alla Facoltà di Economia della Sapienza, gli capita di seguire quattro ore consecutive di lezione della stessa materia!
Eppure, per molti suoi colleghi, la “vera” università è quella in cui docenti e studenti si incontrano in un’aula dove si svolge la lezione e la didattica. La così detta “didattica in presenza”.
Come se stessimo nel quarto secolo avanti Cristo, quando per ascoltare una lezione di Aristotele si doveva andare al Ginnasio di Atene, ad una certa ora di un certo giorno. Senza considerare che quasi sempre non c’è nessun “incontro”. Un docente svolge una “conferenza” di un’ora a studenti dei quali non certifica né l’attenzione, né tantomeno il livello di comprensione. Se ci sono carenze nell’intelligenza degli argomenti si scoprirà all’esame, cioè troppo tardi per migliorare l’apprendimento.
D. A voler essere maliziosi, si potrebbe commentare che forse lei non apprezza molto la “didattica in presenza” perché da 15 anni insegna in un ateneo telematico…
Per 25 anni ho insegnato in università tradizionali come la Sapienza, Roma Tre e Sassari. La formula “Università in presenza” è ipocrita perché tutti sanno, a maggior ragione chi insegna nell’università, che la cosiddetta “presenza” non è reale. Se consideriamo gli studenti lavoratori, i fuorisede che non possono trasferirsi nella sede universitaria, gli studenti che hanno problemi di mobilità, quelli che non reputano utile recarsi all’università per seguire le lezioni, ne risulta che solo una minoranza di studenti presenzia le lezioni. Tutto questo sarebbe facilmente verificabile se si confrontassero due dati: gli studenti che in anno accademico seguono le lezioni e quanti sostengono la prova d’esame.
D. Qual è la percentuale dei frequentanti rispetto a quanti poi sostengono la prova d’esame?
Bella domanda, la rivolga al prof. Molari, semmai chiedendogli pure se è obbligatoria la presenza nella facoltà in cui insegna. Non le risponderebbe perché la presenza non è obbligatoria e non è monitorata. Anche per un altro motivo. Il numero degli esami delle varie materie, almeno quelli sostenuti con esito positivo, è registrato e certificato. In molte materie delle facoltà umanistiche e non solo, c’è una presenza alle lezioni che si conta sulle dita di una mano. Quindi facilmente calcolabile, almeno dal docente del corso. Ovviamente questi dati non vengono né calcolati, né tantomeno diffusi. Servirebbero a dimostrare che la “presenza” nelle università tradizionali è minoritaria. La stessa formula è ambigua, dovrebbe essere piuttosto questa: “Università in cui si richiede la presenza fisica degli studenti, che però non è obbligatoria”.
D. Il rettore dell’Università di Bologna sostiene che “le università telematiche non sono un bene per il nostro paese”…
Vorrà dire che iscriveremo i nostri figli e nipoti in università come quella di Bologna. Ma le autorità accademiche del posto dovrebbero contribuire a rendere possibile la frequenza in presenza degli iscritti. A Bologna, come a Roma, a Milano e in tante altre città universitarie, i costi degli affitti delle case (stanze) e della vita è assai alto. Insostenibili per molti. Non sono pochi quanti non hanno la possibilità di affrontarli ed evitano di iscriversi, oppure studiano sui libri, per conto loro.
D. Da quanto lei dice emerge un quadro paradossale, la maggior parte degli iscritti nelle università in presenza, in realtà studia a distanza, con il materiale didattico costituito dai libri?
Ovviamente, io per primo, iscritto a suo tempo alla Sapienza, ho preparato da solo gran parte degli esami, a casa o in biblioteca, studiando sui libri di testo. A suo modo, si tratta di una forma di insegnamento a distanza, dove però la didattica è costituita da un libro, “muto”, come dice Platone nel Fedro, incapace di rispondere ai dubbi ed alle domande del lettore, senza l’ausilio del suo autore. Il libro cristallizza il sapere, lo rinchiude in una prigione di carta, o di bronzo, come sostiene Socrate. Bronzo che quando si batte dà sempre lo stesso suono. Grazie agli strumenti offerti dalla telematica le possibilità e le modalità di studio, comprensione, interconnessione ed interazione sono moltiplicate.
D. In conclusione, le università telematiche potrebbero “essere un bene per il nostro paese”?
Mi permetta di dire che la questione è mal posta. La telematica e le nuove tecnologie svolgono un ruolo fondamentale nei processi di informazione e formazione, di conoscenza, di studio e ricerca. Questa è una realtà globale, che non investe solo questo o quel Paese.
D. Anche la resistenza a questa nuova realtà è un fenomeno globale?
Francamente non so se esista un’internazionale dei passatisti. Le posso rispondere con alcune cifre, più esplicite di tante parole. Secondo recenti dati del National Center for Education Statistics (NCES) ci sono 5999 College negli US che servono 15,9 milioni di studenti universitari e 3,1 milioni di laureati. Di queste istituzioni post-secondarie, 3928 servono anche studenti a distanza, attraverso corsi di laurea online, rendendo possibile per molti una formazione superiore. La maggior parte delle principali università, incluse quelle della Ivy League (Princeton, Harvard, Yale, Cornell, per citarne alcune), ai vertici delle classifiche mondiali, offrono corsi e Masters on line. Ma l’elenco è assai lungo ed articolato e riguarda moltissime nazioni ed università prestigiose, dall’Inghilterra all’Australia, dal Giappone alla Francia e via dicendo. Risparmio l’elenco al lettore, sarebbe lunghissimo.
D. Le chiedo una considerazione di chiusura e di sintesi.
L’università deve utilizzare, in prima istanza per la formazione delle nuove generazioni, tutti gli strumenti che la tradizione e le nuove tecnologie mettono a disposizione. Per migliorare la qualità e l’estensione dell’offerta formativa. L’informatica e la telematica hanno ed avranno un ruolo fondamentale. Ma ancora più importante era e sarà l’impegno e la passione di chi insegna.