Mercoledì 14 dicembre, a partire dalle ore 10.30 un incontro /dibattito all’Unicusano (aula 25) sul recente libro di Giuseppe Cricenti ed Enrico Ferri.
Unicusano, tavola rotonda con Giuseppe Cricenti ed Enrico Ferri
Il libro Alla ricerca della laicità perduta. Il crocifisso laico dei giudici italiani (Fuorilinea 2023) ospita un dialogo tra il filosofo del diritto Enrico Ferri e il giudice della Corte di cassazione italiana Giuseppe Cricenti, insieme con la postfazione del filosofo del diritto Mauro Barberis; un dialogo su una specifica declinazione del problema della laicità delle istituzioni in una società (sempre più) multiculturale: l’ostensione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica.
Il tema, da un lato, si colloca in un più ampio scenario di questioni relative alla permanenza di simboli e costumi delle religioni tradizionali in ordinamenti che hanno elevato la laicità tra i «principi supremi dell’ordinamento costituzionali» (così in Italia, già Corte cost., sent. 203/1989).
Dall’altro lato, il dialogo sorge a valle di una (ennesima) pronuncia giurisprudenziale, stavolta delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sent. 24414/2021), che origina da un caso alquanto singolare: l’assemblea di classe di un istituto scolastico propone l’affissione del crocifisso nell’aula; il preside dell’istituto recepisce la richiesta in una circolare vincolante; un docente di lettere, «per avere sistematicamente rimosso il crocifisso dalla parete dell’aula prima di iniziare le sue lezioni, per poi ricollocarlo al suo posto al termine delle stesse», viene sanzionato con la sospensione dall’insegnamento per un mese.
Il caso ne richiama altri che hanno avuto nel tempo un’eco notevole: lo scrutatore avverso al crocifisso nel seggio elettorale (Corte di cassazione penale, sent. 439/2000); il genitore che ricorre contro la delibera che conferma l’ostensione del crocifisso nelle aule scolastiche (Corte cost., ord. 389/2004; Tribunale amministrativo del Veneto, sent. 1110/2005; Corte EDU, 18 marzo 2011, Lautsi vs. Italia); il giudice che si sottrae al suo servizio perché turbato dalla presenza del crocifisso nelle aule di giustizia (Corte di cassazione, sent. 5924/2011); ecc.
Le pronunce, e così anche l’ultima decisione della Suprema Corte, si connotano per elementi comuni e ricorrenti: il crocifisso sarebbe per un verso un simbolo passivo, che “tace” senza offendere la libertà religiosa dei ricorrenti, per altro verso esso rappresenterebbe dei valori universali o, se si vuole, quantomeno dei valori fondamentali per l’ordinamento costituzionale; e, in ogni caso, le istituzioni e i giudici di merito sarebbero chiamati ad assumere una postura non divisiva, a cercare un “ragionevole accomodamento” tra tutte le posizioni in gioco.
E, dunque, la Corte decide in modo salomonico: ha torto il docente a percepire una compressione della libertà di coscienza, perché essa non è limitata dall’ostensione del crocifisso; ma ha torto anche il preside, che nel sospendere il docente non ha dato prova di ricercare un ragionevole accomodamento tra le posizioni (suggerendo l’ostensione su una parete laterale e non alle spalle della cattedra, invitando a esporre anche altri simboli di religioni diverse, o simboli “laici”, ecc.).
I due Autori in dialogo si concentrano soprattutto su questi argomenti e sulle possibili fallacie, celate o palesi, che li inficiano. Enrico Ferri analizza la narrazione irenica e le connessioni arbitrarie che sorreggono la decisione «acrobatica» della Corte, evidenziando come sia «maldestro e retrogrado il tentativo di legittimare il simbolo della croce come espressione di una serie di valori universalmente accettati e condivisi» (p. 74). Giuseppe Cricenti, confortando il lettore sul fatto che «la linea più breve tra due punti, nelle aule dei tribunali, non è la retta ma l’arzigogolo» (p. 81), avvicina il focus agli argomenti giuridici che “sorreggono” la motivazione della sentenza, e conclude denunciando le contraddizioni di «una Corte che raramente riesce a dire cosa sia un diritto e a chi spetti».
Sullo sfondo del dibattito, come anticipato, resta la più generale questione dell’ampiezza e del significato della laicità. È vero, infatti, che «il principio supremo della laicità dello Stato […] è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica» (Corte cost., sent. 203/1989), ma più di un indizio ne suggerisce la natura di principio supremo “sopravvenuto”, che tuttora mostra piuttosto il carattere di un ideale regolativo che fatica a imporsi.
La scelta del Costituente di includere nell’art. 7 Cost. il riferimento ai Patti lateranensi – scelta ben consapevole e ampiamente dibattuta – ha determinato che sino alla revisione dei Patti, cioè sino all’Accordo di modifica del 1984, la religione di Stato sia rimasta, almeno testualmente, quella cattolica. Del resto, soltanto con la citata sentenza del 1989 si sancì la non obbligatorietà dell’ora di religione. Come a dire che la laicità, per quanto suprema e fondamentale, non c’era nelle origini e anche oggi, almeno in parte, non c’è del tutto. Forse non a caso, in orizzonti come quello tedesco o anglosassone, ai calchi del francese laicity o Laizität sono preferiti il secularism, o la Säkularisierung, che indicano un processo anziché un risultato. O, se si vuole, bisognerà convenire con quanti affermano che la laicità non sia soltanto quella francese, ma che si diano diverse laicità, via via più “inclusive” (o “accomodanti”) nei confronti del fenomeno religioso. E un esempio di laicità “sfumata” lo si osserverebbe proprio nella pronuncia della Cassazione.
La Corte, infatti, nel tentativo di includere tutte le religioni, senza determinare una retrocessione di quella cattolica, suggerisce di affiggere nell’aula una processione di simboli religiosi in continuo spostamento, perché – afferma – «la laicità italiana non è “neutralizzante”», ma «si fonda su un concetto inclusivo».
Del resto, sull’ostensione del crocifisso non si era pronunciata la Corte costituzionale, perché l’obbligo è sancito da una fonte secondaria, un regio decreto del 1924 (ord. 389/2004). E, comunque, il Consiglio di Stato ne aveva ribadito la legittimità, giungendo ad affermare la «funzione simbolica, altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni» (sent. 556/2004). Alla Cassazione restava aperta – forse – la sola via della disapplicazione del decreto (il giudice ordinario può disapplicare l’atto direttamente lesivo di un diritto soggettivo); una via che però avrebbe condotto al medesimo risultato evitato dalla giustizia amministrativa e costituzionale – oltreché, a ben vedere, dalla politica. E, dunque, la soluzione “originale”, quella di tramutare l’obbligo sancito nel 1924 in mera facoltà: «là dove si leggeva imposizione autoritativa della presenza del crocifisso, è ora da intendere facoltatività della collocazione, riportata ad una richiesta che proviene dal basso, dagli studenti»; magari direzionandosi verso una «pluralità dei simboli, ispirata ad un universalismo concreto, fondato empiricamente e democraticamente responsivo rispetto alla mutata composizione etnica e quindi anche religiosa della popolazione».
Probabilmente, l’immagine restituita dalla Corte, e avversata dagli Autori, secondo cui accanto alla tradizionale (asimmetrica) presenza della religione cattolica si debbano affiancare anche le altre religioni non è l’immagine della laicità: non è il pluralismo delle istituzioni, ma il politeismo. E questa prospettiva, oltre che ambire a un risultato quantomeno discutibile, sembra trascurare il fatto che negli istituti superiori gli studenti che non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica sono il 20%, e in alcune città, come Firenze o Bologna, sfiorano il 40 % (le stime sono state fornite nel 2022 dall’UAAR e OnData, sulla base di dati ministeriali). Un dato che si spiega solo in parte con il mutare della “composizione etnica”, perché il numero degli studenti non avvalentisi è ben più alto di quelli stranieri, e in termini assoluti cresce di anno in anno, nonostante il calo progressivo degli studenti complessivi. E quale “simbolo” potrà mai rappresentare quanti non si riconoscono in nessuna religione, magari professandosi agnostici o atei?
Ma più in generale, siamo davvero sicuri che l’atteggiamento critico nei confronti della presenza della religione nelle istituzioni non sia esso stesso un valore fondamentale delle società moderne e pluraliste? E che proprio questo atteggiamento non garantisca la miglior convivenza tra culture che hanno conosciuto secoli di guerre e conflitti? Il dialogo tra Enrico Ferri e Giuseppe Cricenti contribuisce ad avvalorare quest’ipotesi.
Francesco Cirillo