“Non sono il tipo”, rispondeva Matteo Messina Denaro al procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido, che gli chiedeva se fosse interessato a collaborare; ma apriva anche uno spiraglio: “Mai dire mai”. È quanto emerge dal verbale del suo ultimo interrogatorio, rivelato nel corso dell’udienza preliminare del processo a carico di Laura Bonafede, la maestra di Campobello di Mazara a cui il capomafia era legato sentimentalmente, arrestata dopo la sua cattura per averne favorito la latitanza.

Il verbale dell’ultimo interrogatorio di Matteo Messina Denaro

Sono alla fine della mia vita, ma il punto è che non sono il tipo di persona che vengo da lei e mi metto a parlare dell’omicidio, per rovinare a X, Y, non ha senso […]. Poi nella vita mai dire mai, intendiamoci. Non sono stato mai un assolutista, nel senso che non è che perché dico una cosa sarà sempre quella, nella mia vita ho cambiato tante volte idea, però con delle basi solide,

spiegava Messina Denaro al pm che lo invitava a “ricostruire dei pezzetti di verità” sulla sua storia e la storia di Cosa Nostra. Era il 7 luglio 2023. Il 16 gennaio precedente il super boss era stato arrestato a Palermo dopo trent’anni da latitante, finendo nel carcere di massima sicurezza “Le Costerelle”, a L’Aquila, e poi in ospedale a causa di un grave tumore al colon.

Sapeva di avere i giorni contati, perché da tempo ormai era molto malato (si sarebbe spento due mesi dopo, il 25 settembre, all’età di 61 anni), ma non si diceva disposto – almeno per il momento – a collaborare, a “pentirsi”, come si dice in gergo. Facendolo avrebbe rinnegato il suo mondo, lo stesso da cui, immediatamente dopo la cattura, si era sentito “venduto”.

La mattina che mi hanno arrestato la prima cosa che uno pensa è che qualcuno ha tradito. È stato tradito Gesù Cristo,

diceva, raccontando di non essersi fidato del collonello che lo aveva assicurato che nessuno lo avesse tradito. E aggiungeva:

Poi ragionando ho detto: vero è. Ho letto le carte e mi sono fatto pure una logica. Mi avete preso per la malattia o per un errore mio, dirlo a mia sorella. Non volevo farmi trovare morto e nessuno in famiglia sapeva niente.

Si riferiva al pizzino in cui scriveva alla sorella Rosalia – che sarebbe stata fermata con l’accusa di aver gestito le sue comunicazioni e i suoi affari – quali fossero le sue condizioni di salute. Pizzino che gli inquirenti avevano rinvenuto nel bracciolo di una sedia dell’abitazione della donna mentre erano impegnati a piazzare delle microspie.

Pizzino che aveva permesso loro di risalire alla falsa identità usata dal capomafia per usufruire del Servizio Sanitario nazionale (quella di Andrea Bonafede), rintracciarlo e arrestarlo presso la clinica in cui si era recato per sottoporsi a una seduta di chemioterapia, “La Maddalena”.

La famiglia, i soldi, la mafiosità

Io sono sempre stato in quello che voi ritenete mafiosità una garanzia per tutti. Non ho mai rubato niente a nessuno. Parlo del mio ambiente, non ho mai cercato di prevaricare, né in ascese di potere, né per soldi,

diceva, ancora, Messina Denaro. E ai magistrati che gli chiedevano da dove provenisse tutto il denaro rinvenuto a casa della sorella, rispondeva:

Mi servivano per mantenermi. Il denaro trovato a mia sorella è sicuramente origine di mia madre perché erano soldi di famiglia, ovviamente se mia madre mi poteva aiutare mi aiutava […]. Non ho mai chiesto estorsioni a nessuno, non ho mai fatto traffici di droga, non ho mai fatto rapine. I soldi erano nella disponibilità della mia famiglia, mia madre ha sempre cercato di conservare e dare a tutti, specialmente a me.

Ma si lamentava anche delle indagini che coinvolgevano i suoi familiari.

Ho una famiglia rovinata – diceva -, ma alla fin fine quale colpa ho avuto io? Posso avere colpe personali: impiccatemi, datemi tutti gli ergastoli che volete; ma che la mia famiglia sta pagando da una vita questo tipo di rapporto con me […]. Mi avete distrutto una famiglia, rasa al suolo, ci sono dei sistemi che non vanno, lasciamo stare le condanne, ci sono dei sistemi che non vanno; ora sento dire: case distrutte… perché mia mamma che è: latitante o mafiosa? Lei…la legge, lo Stato gli ha distrutto la casa, i mobili fatti a pezzettini.

A volte si mostrava risentito, altre parlava tranquillamente con coloro che lo interrogavano, sostenendo di aver fatto, tutto sommato, “una vita tranquilla” sia a Palermo che a Campobello, dove aveva trascorso gran parte della latitanza in dei covi poco distanti dall’abitazione di famiglia, colmi di libri e di film in dvd, ma anche di scarpe di lusso e orologi, vestiti e preservativi.

Si descriveva come un “mafioso anomalo”, perché a suo dire aveva mantenuto buoni rapporti con tutti, non inimicandosi “nessuno del territorio”. Ma si diceva anche convinto del fatto che più di qualche mafioso volesse ucciderlo. Sembrava lucido e consapevole. Per questo il pm gli chiedeva di “riflettere” su ciò che era stata la sua vita.

Avrebbe avuto ancora del tempo per farlo, per parlare. Forse ha riflettuto, ma non ha parlato. Su un’unica vicenda, qualche tempo prima, si era espresso davanti ai pm, “per un fatto di coscienza”, come ci aveva tenuto a dire: quella del piccolo Giuseppe Di Matteo, sequestrato, ucciso e sciolto nell’acido in un arco di tempo compreso tra il 1993 e il 1996. “C’entravo semmai nel sequestro, non nell’omicidio”, aveva detto, quasi a volersi liberare da un senso di colpa. Come quando, ormai in punto di morte, aveva finalmente deciso di riconoscere la figlia Lorenza.