Nei miei vent’anni ribelli frequentavo, fra l’altro, il teatro femminista “La Maddalena”, assai vicino al Piazza Montecitorio. Una sera, nel corso della pièce teatrale, la protagonista aggirandosi fra il pubblico chiedeva ai maschi che cosa guardassero con più attenzione in una donna. Quando fu il mio turno, d’istinto avrei risposto: “il sedere”, ma poi, pavidamente, ripiegai su “gli occhi”. In realtà, pensavo allora e penso adesso che alcuni fondoschiena siano più espressivi di tanti sguardi insignificanti.

Il corpo delle donne, presenza costante nell’onirico maschile

Non sempre uno sguardo è l’anticamera dell’anima, non sempre un’anima merita di essere esplorata. Altra cosa il corpo, la “carne”, le sue linee, le sue movenze. “La carne è debole? Non è vero, la carne è fortissima”, osservava acutamente Michail Bakunin , padre dell’anarchismo moderno. Il corpo di una donna, soprattutto un bel corpo, parla e ci parla: ai nostri sensi, ai nostri sguardi. Col suo profumo ci entra dentro, le nostre mani ne restano imprigionate, lo sguardo fa fatica ad ignorarlo. Gli occhi delle donne sono materia per i poeti; il corpo delle donne, da qualche millennio, accompagna le fantasie e i sogni di molti uomini ed è fonte di ispirazione per tanti artisti, almeno in quelle epoche in cui non ci si è vergognati di avere un corpo, di mostrarlo e rappresentarlo.

Io sono stato sempre ossessionato dal corpo delle donne, fin da piccolo. A cinque anni, i miei zii di Caserta, per conquistare la mia condiscendenza promettevano di portarmi alla Reggia per farmi vedere “le signorine nude”. Oggetto di divertiti racconti nel corso degli anni è stata la descrizione della mia reazione isterica, quando scoprii che si trattava solo di una statua di marmo, della Venere al Bagno, nel laghetto del Criptoportico della Reggia.

Venere al Bagno

Il corpo non è mai innocente, non è mai scontato il suo valore e la sua funzione. È uno, ma fatto di parti diverse. Ogni parte si distingue dalle altre, per denominazione, per funzioni, per valore. Ci sono, ad esempio, le parti alte e quelle basse, le nobili e le meno nobili. Il corpo è legato alla vita, alla sessualità ed alla riproduzione. Inutile ricordare che parti del corpo femminile come il pube, il petto e il fondo schiena, sono state da sempre e più di altre al centro dell’attenzione, a partire da quella spicciola degli adolescenti pruriginosi per arrivare a molti artisti e letterati. Senza considerare cinema e fotografia, la cui storia sarebbe stata del tutto ridimensionata senza il corpo delle donne, variamente rappresentato.

Il linguaggio sul corpo e sulla sessualità si è trasformato negli anni

Non è un caso se dal punto di vista linguistico soprattutto per le parti più sessuate del corpo, come il seno e le natiche, esistono moltissime declinazioni. Questo vale pure per il sesso maschile: dalla diffusissima ed “universale” definizione di “cazzo”, alle varie sottocategorie botaniche come “pisello”, “cetriolo”, “banana”, fino alle versioni regionali come il genovese “belin” e il siciliano “minchia”, addirittura di genere femminile. Ma il fondoschiena delle donne ha sempre richiamato un’attenzione particolare. Già il Belli, quasi due secoli or sono, in un celebre sonetto passava in rassegna più di cento modi per evocare il fondoschiena.

Il drastico ed epocale cambiamento avvenuto a partire dalla Rivolta studentesca del ’68, che ha coinvolto anche il costume, la sessualità ed il modo di rappresentarla, ha cambiato il modo di esprimersi e di interloquire. Lo si fa in modo più diretto, esplicito, aggressivo, crudo. In una maniera più esplicita e meno pleonastica. Quelle che una volta erano definite “parolacce” ora sono parte del linguaggio comune, soprattutto parlato. Molte canzoni, ad esempio, sembrano non poter fare a meno di parole come “cazzo” e “vaffanculo”. 

Questa franchezza, che spesso si esprime con un linguaggio popolare e scurrile, investe tutte le sfere della nostra esistenza e svariate categorie: i giovani e i meno giovani, gli illetterati come gli intellettuali. Settore privilegiato è quello in vario modo legato al sesso e ai suoi sinonimi. Dire, ad esempio, “nella vita ci vuole culo” è sicuramente più espressivo dell’anodina formula “nella vita ci vuole la buona sorte”.

Piaccia o non piaccia, da decenni, quelle che una volta erano considerate espressioni tipiche di persone incolte e di basso rango sono diventate comuni e assai diffuse, a partire dai grandi media di comunicazione come il cinema, la televisione e la radio, per non parlare dei Social.

Per i motivi appena ricordati, sono rimasto particolarmente meravigliato dalla polemica che si protrae da giorni su alcune considerazioni di Stefano Bandecchi, nelle quali si sono usate espressioni che hanno creato scandalo in alcuni ambienti politici e giornalistici, nonché fra certi cultori delle buone maniere. Questa la frase incriminata: “Un uomo normale guarda il bel culo di una donna e magari ci prova anche. Se ci riesce se la tromba, altrimenti se ne torna a casa”.

Bandecchi non ha diritto ad usare espressioni gergali?

 Non ho ancora chiari i motivi della polemica, se si sollevi una questione di forma o di contenuti.  Non credo che ci siano molti maschi eterosessuali che dissentirebbero da una simile considerazione. I più acculturati preferirebbero un lessico meno gergale? Questo, ad esempio: “ Ogni maschio eterosessuale è attratto dall’aggraziato sedere di una bella donna e farebbe di tutto per consumare un coito con lei”?  Tale perifrasi, a metà strada fra l’educandato delle Orsoline ed un gabinetto ginecologico, renderebbe meglio il punto di vista? La perifrasi sarebbe meno antifemminista?

Ma forse a Bandecchi si rimproverano latinismi come “culo”, o espressioni sinonimiche come “trombare”? “Scambiare la volgarità per sincerità e le buone maniere per ipocrisia”, questa la colpa di Bandecchi, secondo un noto editorialista del Corsera, che scomoda persino i 25 lettori di Alessandro Manzoni, per suffragare questa arguta lezioncina morale. Come se non bastasse, ci sono stati persino quelli che hanno chiesto le dimissioni di Bandecchi; alla prossima occasione pretenderanno anche l’interdizione dai pubblici uffici?

 Da parte mia, per timore di perdermi tra fondoschiena e trombettieri, ho cercato ausilio nelle fonti auliche della lingua italiana, nella letteratura antica e contemporanea, in prestigiose istituzioni come l’Accademia della Crusca e il Dizionario Treccani. Rassicuro i miei 24 lettori, non intendo fare una lezione sul tema, peraltro sconfinato. Arrivo ad alcune conclusioni, riprese dal “Glossario d’autore”, che Francesca Serafini riporta sul Dizionario Treccani, nell’articolo “Fare l’amore secondo gli scrittori”. Scrive la Serafini: “Ho chiesto loro [ad alcuni scrittori contemporanei] di inventare una parola (con relativa spiegazione) per dire quello che in italiano non possiamo dire se non con l’algido coito o facendo ricorso al repertorio infinito del gergo (chiavare, trombare, ecc.)”. Come la stessa redattrice nota, “trombare” è sinonimo diffuso e gergale di “fare l’amore”. Gergale o volgare? Questione di lana caprina, la risposta cambia con la prospettiva. Già in Grecia, Pericle definisce il démos, il popolo, la comunità nel suo insieme (Tucidide II, 35-46 ) mente gli antidemocratici lo identificano con il volgo fatto di poveri e ignoranti, come ad esempio fanno Platone nella Repubblica e lo Pseudo Senofonte. Senza dimentica che l’Alighieri, definisce con “volgare” la lingua che il bambino apprende dalla balia.

Dante Alighieri due volte “volgare”?

Ma in che modo rispondono gli scrittori italiani alla vexata quaestio che concerne un’adeguata definizione dell’amplesso? Alcuni hanno proposto inverosimili espressioni, come “congodere”  “fottamare” o “puffare”, altri semplicemente si sono richiamati ad una solida tradizione e ne hanno ribadito il valore. Nota ad esempio Francesco Piccolo: “Io non credo bisogna usare una parola diversa da quella necessaria […] Secondo me, insomma, scopare non è volgare, è preciso.[…] e secondo me è il termine più preciso per riuscire a includere anche qualcosa che paradossalmente veniva tenuta fuori: l’eccitazione”. Sarei tentato anch’io di offrire il mio contributo a questa dotta disputa, ma per il momento me ne astengo. Vorrei scansare l’accusa di sessismo ed anti-femminismo.

Per cautelarmi ulteriormente, finisco con una citazione accademica, mescolando sacro e profano, le definizione che troviamo del “culo” nell’Accademia della Crusca, che riporta non solo l’estroverso Boccaccio, ma pure Dante Alighieri, il quale non disdegna di usare questo termine, ad esempio nel celebre passo alla fine del Canto XXI dell’ Inferno: “Ed elli avea del cul fatto trombetta”.

Forse dovremmo sostituire il sessista “cul” dantesco con il rampiniano e polite “sedere” e semmai operare anche qualche messa a punto su verbi di uso comune come “sculacciare”, che potrebbe diventare “sdederare”? Avviare una nuova branca della “Cancel culture”, la “Cancel Cul-ture”?

Bandecchi è avvertito. Ma conoscendo il personaggio non credo servirà a molto.

Enrico Ferri, professore di Filosofia del Diritto all’Unicusano

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