Furono quattro colpi di pistola calibro 7.65 a condannare a morte il giornalista Carmine Pecorelli, per tutti Mino. Era il 20 marzo del 1979. A quasi 45 anni di distanza non si sa ancora chi sia stato a premere il grilletto, né si conosce il nome dei mandanti dell’omicidio. Un omicidio figlio della storia della prima Repubblica che, secondo alcuni, potrebbe presto ottenere la giustizia che merita.

L’omicidio del giornalista Mino Pecorelli

L’agguato

A Palazzo lo chiamavano il “cantante”, perché non era un giornalista qualunque, così come non erano notizie qualunque quelle che pubblicava: parlavano di complotti e affari loschi in cui erano coinvolti politici, massoni, magistrati, uomini dei servizi segreti e di chiesa, criminali. Carmine Pecorelli, per tutti Mino, era temuto e tenuto a distanza dai più.

In tanti lo volevano morto. Nato in provincia di Isernia nel 1928, aveva studiato giurisprudenza, intraprendendo la carriera da avvocato e diventando esperto di diritto fallimentare. Dopo una breve esperienza in politica e come giornalista per il periodico Nuovo mondo d’oggi, nel 1968 aveva fondato l’agenzia OP (Osservatore Politico), trasformatasi nel 1978 in una rivista settimanale.

Mino Pecorelli
Una foto d’archivio di Mino Pecorelli (Ansa)

Vi proponeva pezzi su veri e propri scandali, anteprime su vicende scottanti e delicate che raccoglieva grazie alla grande rete di contatti che aveva intessuto negli ambienti di Stato, della finanza e dello spettacolo. Articoli che scuotevano il pubblico e infastidivano il potere, al punto di renderlo un personaggio “scomodo”. Era il 20 marzo del 1979 quando in via Orazio, a pochi passi dalla sede della sua redazione di via Tacito, a Prati, fu raggiunto da quattro proiettili, uno alla bocca e tre alla schiena, morendo sul colpo.

Chi ha ucciso Mino Pecorelli? Le piste

Su chi abbia premuto il grilletto e per ordine di quale mandante, nonostante le indagini e i processi, non si è ancora fatta chiarezza. Si pensò, innanzitutto, alla Banda della Magliana. I proiettili rinvenuti sulla scena del crimine, di marca Gevelot e Fiocchi, facevano infatti parte dell’arsenale che sarebbe stato scoperto nei sotterranei del Ministero della Sanità qualche anno dopo, nel 1981.

I sospetti caddero, in particolare, su Massimo Carminati, storico sodale della Banda e dei Nuclei Armati Rivoluzionari. Poi furono tirati in ballo Antonio Viezzer e i fratelli Fioravanti, ma anche Licio Gelli, che dalle colonne di OP – dopo una breve esperienza nella loggia massonica P2 – Pecorelli aveva criticato duramente e di frequente.

Nel 1991 furono tutti prosciolti dalle accuse che gli inquirenti gli avevano rivolto. Nel 1993, la svolta. Il pentito Tommaso Buscetta puntò infatti il dito contro Giulio Andreotti e alcuni affiliati di Cosa Nostra, tra i quali Gaetano Badalamenti.

Badalamenti e Bontade mi hanno riferito che l’omicidio Pecorelli lo avevano fatto loro, su richiesta dei cugini Salvo, nell’interesse del senatore Andreotti,

disse. E fece intendere che il caso Pecorelli fosse collegato, in qualche modo, a quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa, assassinato a Palermo nel 1982 per mano mafiosa. Lo storico volto della Democrazia Cristiana finì quindi a processo.

Era accusato di aver ordinato di uccidere il giornalista, ma nel 2003 fu assolto in via definitiva dalla Cassazione, che annullò senza rinvio la sentenza con cui in Appello era stato condannato a 24 anni di reclusione insieme a Badalamenti.

Chi lo aveva ritenuto colpevole aveva proposto come movente il fatto che Pecorelli avrebbe pubblicato, a breve, un pezzo che lo riguardava, dal titolo Gli assegni del Presidente. Un pezzo di cui sarebbe stata ritrovata solo la copertina, mai diffuso perché Andreotti alla fine aveva sborsato 30 milioni di lire in favore della rivista.

I collegamenti con il caso Moro

Poi c’era la questione Moro. Collaborando con la giustizia, Buscetta aveva infatti sostenuto che Pecorelli avesse scoperto “cose politiche” collegate al sequestro di cui anche Dalla Chiesa era a conoscenza e che invece Andreotti avrebbe voluto tenere segrete.

In effetti, del rapimento, Pecorelli sapeva molto. E sembra che fosse venuto in possesso di alcune lettere che Aldo Moro aveva scritto nel corso della sua detenzione, mai diffuse. Lettere che aveva annunciato di voler pubblicare. Era l’inizio di gennaio del 1979.

Poco prima di morire all’avvocato Franco De Cataldo aveva invece accennato di voler comprare i fascicoli del Sifar, il servizio segreto degli anni Sessanta e Settanta: aveva scoperto che alcuni dei tanti che dovevano essere mandati al rogo – contenenti informazioni private su abitudini sessuali e scandali privati di politici e magistrati – erano stati conservati. La copertina dell’ultimo numero di OP, uscito dopo il suo omicidio, si sarebbe intitolata, non a caso, La grande fumata.

La riapertura delle indagini

Se tra le piste passate al setaccio ce ne sia una giusta non si sa. Qualche anno fa, grazie al lavoro della giornalista Raffaella Fanelli (autrice del libro La strage continua), sul caso la Procura di Roma ha però aperto un nuovo fascicolo d’inchiesta. L’impulso è arrivato da un verbale contenente le dichiarazioni dell’estremista di destra Vincenzo Vinciguerra, condannato in via definitiva all’ergastolo per la strage di Peteano.

Nel corso della testimonianza davanti al giudice Guido Salvini, Vinciguerra aveva raccontato, nel 1992, di aver sentito Adriano Tilgher dire che la pistola utilizzata per uccidere Pecorelli – mai ritrovata – era stata affidata, subito dopo il fatto, a Domenico Magnetta. Da loro bisognerebbe partire per capire chi sparò e poi risalire ai mandanti. Di moventi possibili ne esistono molti.

Nel 2023, intervistata da Andrea Purgatori, la sorella del giornalista ne aveva indicato uno, rivelando per la prima volta in oltre quarant’anni che Papa Luciani aveva ricevuto da parte di Mino un elenco di prelati giudicati infedeli e corrotti, persone di chiesa che facevano parte di una cosiddetta Grande Loggia e di cui Giovanni Paolo I aveva promesso che si sarebbe occupato.

La stessa notte, tra il 28 e il 29 settembre del 1978, si sarebbe spento all’età di 65 anni in circostanze mai del tutto chiarite. Proprio come è successo al giornalista, “il cantante”, il cui caso potrebbe ora finalmente ottenere la giustizia che merita.

Ne parleranno Fabio Camillacci e Gabriele Raho nella prossima puntata di “Crimini e Criminologia”, in onda tutte le domeniche dalle 21.30 alle 23.30 su Cusano Italia Tv (canale 122 del digitale terrestre). Ospiti in studio la giornalista Raffaella Fanelli e Andrea Pecorelli, figlio del giornalista ucciso.