È quasi certo che Serena Mollicone sia stata aggredita nella caserma dei carabinieri di Arce, secondo l’ex generale del Ris Luciano Garofano, consulente di parte civile nel processo d’Appello in corso a Roma per l’omicidio della 18enne. Lo ha spiegato nel corso dell’ultima udienza, illustrando il modello probabilistico su cui si basano le conclusioni a cui è arrivato incrociando tutti i dati raccolti nel corso delle indagini.

“Serena Mollicone aggredita in caserma”: l’opinione dell’ex Ris al processo d’Appello

Sulla base del modello, secondo Garofano sarebbe possibile affermare che al 99 per cento la 18enne entrò nella caserma e che al 98 per cento fu aggredita al suo interno. Sarebbe del 94,94 per cento, invece, la possibilità che morì dopo aver sbattuto la testa contro una porta dell’alloggio di servizio in uso alla famiglia Mottola: il maresciallo Franco, suo figlio Marco e la moglie Anna Maria.

Gli elementi da lui presi in considerazione per arrivare a tali conclusioni sono diversi: innanzitutto la testimonianza del brigadiere Santino Tuzi, morto suicida in circostanze misteriose dopo aver raccontato agli inquirenti di aver visto Serena entrare in caserma la mattina della scomparsa; poi il tipo di porta e le lesioni riscontrate sul volto della 18enne, ma anche gli esami effettuati sul legno (di cui tracce furono rinvenute nei capelli della giovane).

Opposte le valutazioni del professor Saverio Potenza, nominato dalla difesa di Vincenzo Quatrale, finito a processo insieme al collega Francesco Suprano e ai tre Mottola, tutti assolti in primo grado. Secondo lui, infatti, “l’ipotesi del trauma della testa di Serena contro la porta è residuale”. Una versione dei fatti che corrisponde a quella dei legali di Franco, Marco e Annamaria, secondo cui, a giudicare dallo stato del suo volto, “Serena non ha urtato contro un corpo piatto”.

La ricostruzione dell’omicidio

L’unico punto su cui tutti i consulenti concordano è che Serena morì per asfissia e che non si difese. Fu trovata senza vita, a due giorni dalla sua scomparsa, in un boschetto di Fontecupa, una piccola frazione del Comune di San Giovanni Campano, a circa otto chilometri da dove abitava. Il suo corpo, incappucciato, era stato immobilizzato con del nastro adesivo a un albero.

Secondo le conclusioni a cui è arrivata la Corte d’Assise, era morta in un arco temporale compreso tra le 21.30 del 1 giugno e le 5.30 del giorno successivo. Poco dopo aver fatto perdere le sue tracce, quindi. Era uscita di casa per recarsi in ospedale a Isola Liri, per una visita di routine. Più tardi, in una panetteria nei pressi della stazione, aveva acquistato quattro pezzi di pizza e quattro cornetti, lasciando intendere di dover vedere qualcuno.

Il primo ad essere sospettato per la sua morte fu il carrozziere Carmine Belli, che Serena avrebbe dovuto incontrare proprio quel giorno. Nel 2002 l’uomo, però, fu assolto e la vicenda iniziò a farsi più misteriosa. Ci fu la testimonianza di Santino Tuzi, che disse di averla vista entrare in caserma e poi morì suicida. Da allora i sospetti si concentrano sui Mottola.

L’ipotesi è che Marco l’abbia aggredita al culmine di una discussione e che i genitori abbiano cercato di proteggerlo con l’aiuto di alcuni dei carabinieri che all’epoca erano in servizio nella caserma di Arce, visto che il papà ne era il comandante. Ma anche che Santino Tuzi, “colpevole” di aver indicato agli inquirenti la verità sull’accaduto, possa essere stato spinto ad uccidersi, sotto minaccia. Ne è convinta la figlia Maria, che da anni si batte affinché il caso ottenga la giustizia che merita.