Il 25 gennaio 2011 segnò un momento storico per l’Egitto. Una moltitudine di cittadini, stanchi di corruzione, oppressione e mancanza di prospettive, si riversarono in piazza Tahrir, nel cuore del Cairo, gridando per un cambiamento radicale. Questo luogo divenne l’epicentro di un desiderio collettivo di liberazione. L’imponente edificio della Mogamma, simbolo della burocrazia e dell’inefficienza statale, osservava la scena, come a ricordare la rivoluzione degli ufficiali liberi di Nasser del 1952. Questo giorno voleva segnare l’inizio di una nuova era, ma è stato veramente così?
La rivoluzione egiziana, 13 anni dopo
Tredici anni dopo questi eventi, ci si chiede cosa sia rimasto di quel fervore rivoluzionario. La realtà è che le speranze di un Egitto più libero e democratico si sono scontrate con una dura realtà. Il Cairo, e in particolare piazza Tahrir, non sono più le stesse. Sottoposta a un controverso restyling sotto la presidenza di Abdel Fattah al-Sisi, la piazza si è trasformata. Alcuni la vedono come un omaggio alle piazze europee, mentre altri critici vi leggono un tentativo di soffocare il ricordo della rivoluzione e di distanziare il popolo dal cuore della sua città.
Le origini della rivoluzione egiziana, che ebbe inizio 25 gennaio 2011
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’Egitto pre-2011 non era sottomesso all’inerzia. Proteste e movimenti di resistenza avevano già preso piede nel paese, culminando nel movimento Kifaya del 2004, che per la prima volta sfidò direttamente il regime di Mubarak.
Il 2010 e il 2011 furono anni di tensione crescente. Eventi come l’omicidio di Khaled Said, il suicidio di Bouazizi in Tunisia e le politiche economiche oppressive prepararono il terreno per la rivoluzione. Il popolo egiziano, ispirato dagli eventi in Tunisia, trovò quindi la forza di alzarsi contro il proprio regime.
L’Egitto del 2011 era infatti diventata una nazione in fermento, con giovani della classe media che richiedevano riforme politiche e sociali. Ispirati dalla rivoluzione dei Gelsomini in Tunisia, chiedevano le dimissioni di Hosni Mubarak, simbolo di un regime ormai obsoleto.
Il 25 gennaio non fu una data scelta a caso. Era il giorno della festa nazionale delle forze di polizia, simbolo della repressione. Questa data divenne un potente messaggio di sfida e unità contro un sistema oppressivo che aveva governato l’Egitto per decenni.
Piazza Tahrir divenne un’agorà dove studenti, operai, femministe, islamisti e intellettuali si unirono contro la dittatura. La festa per le dimissioni di Mubarak fu però breve, poiché ben presto si rivelò che il cammino verso la libertà era ancora lungo e tortuoso.
La caduta di Mubarak e l’ascesa di al-Sisi
In soli tre settimane, le proteste in piazza portarono alle dimissioni di Mubarak. Tuttavia, ciò che seguì non fu il rinnovamento sognato, ma l’inizio di un periodo ancora più repressivo. Abdel Fattah al-Sisi instaurò un regime autoritario, estendendo il suo controllo su tutta la società e soffocando ogni forma di opposizione. La speranza di un’Egitto liberato e democratico sembrò quindi svanire.
Cosa accadde dopo la rivoluzione d’Egitto del 2011
L’esercito egiziano, un tempo baluardo della nazione, si trasformò in una forza economica e politica potente. Gli accordi di Camp David e gli aiuti statunitensi rafforzarono la sua influenza, rendendolo un attore chiave negli eventi del 2011. Quando Mubarak cadde, l’esercito sfruttò l’occasione per consolidare il proprio potere, dimostrando che la lotta per la libertà e la democrazia in Egitto era lontana dall’essere conclusa.
Dopo la caduta di Mubarak, il Consiglio Supremo delle Forze Armate promise di assecondare le richieste dei manifestanti. Tuttavia, mantennero lo stato d’emergenza e limitarono le libertà civili. Un accordo segreto tra i militari e i Fratelli Musulmani accelerò il processo elettorale, conducendo all’elezione di Morsi. Tuttavia, l’esercito non aveva intenzione di cedere il potere, e attraverso manovre politiche, riuscì a mantenere il controllo dello Stato.
Nel 2014, al-Sisi assunse il potere, segnando il ritorno a una dittatura simile a quella di Mubarak.
Tredici anni dopo la rivoluzione egiziana, che portò alle prime elezioni democratiche del paese e successivamente a un colpo di stato nel 2013, la situazione dei diritti umani in Egitto si è deteriorata drasticamente. Le statistiche di Human Rights Watch indicano che tra 60.000 e 100.000 prigionieri politici, incluso un significativo numero di giornalisti, sono detenuti arbitrariamente. Questo scenario tragico rappresenta un drammatico passo indietro rispetto ai tempi di Mubarak.
L’élite militare egiziana ha intensificato il suo controllo sugli interessi economici del paese, dominando settori chiave attraverso il capitalismo di Stato. Nonostante un ampio programma di riforme economiche, sostenuto da un prestito di 12 miliardi di dollari dal FMI, gli investitori esteri restano riluttanti ad investire in Egitto, escludendo il settore energetico. Di conseguenza, la povertà è aumentata in modo significativo, con un terzo della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà.
Il fallimento delle Primavere Arabe e l’Egitto oggi
A distanza di anni, l’Egitto vive in una condizione di apparente stabilità, ma sotto la superficie si nasconde un contesto di repressione e controllo. La crisi economica, unita alle ambizioni politiche regionali del governo e ai rapporti ambigui con le potenze europee, complica ulteriormente la situazione. La memoria di Giulio Regeni e la detenzione di Patrick Zaki sono esempi di una ferita profonda nei rapporti internazionali, testimoniando un’Egitto lontana dall’immagine di apertura e giustizia che si sperava emergesse nel 2011.