In occasione della Giornata della Memoria 2024, l’intervista di Tag24 a Pupa Garribba, giornalista e testimone della Shoah.

Giornata della Memoria 2024, l’intervista a Pupa Garribba

Le leggi razziali

Lei è nata nel 1935. Nel 1938, quando in Italia furono emanate le leggi razziali, aveva 3 anni. Come cambiò la sua vita?

“Dovemmo lasciare la villa dove ero nata e in cui abitavano sia i miei genitori che i genitori di mia mamma, perché secondo le leggi razziali gli ebrei non potevano abitare in una villa. Ci spostammo, sempre nella stessa via, ma in due appartamenti comunicanti. È stata la prima cosa che percepii anche se ancora ero una bambina.

Poi ci fu un’altra vicenda. Avevo un fratello minore di me di un anno. Mio padre era estremamente maschilista e io soffrivo moltissimo per il tipo diverso di educazione che avevamo: a mio fratello, maschio, tutto era permesso. Io invece dovevo avere un’educazione diversa, essere più proiettata verso la casa, la famiglia, i lavori domestici.

Creavo dei problemi a mio fratello per questo, come se fosse colpa sua. Allora i miei genitori mi avevano iscritto all’asilo. Il primo giorno di scuola, però, non mi ci mandarono. Quando lo scoprii mi disperai, ci tenevo tanto. Era tutto pronto. I miei genitori cominciarono a raccontarmi delle bugie, dicendomi di non avermici mandata perché avevano saputo che era scoppiata una malattia infettiva, la rosolia, e non volevano che la prendessi e la portassi a casa, attaccandola a mio fratello.

Così cominciai a pensare: ‘Ma le malattie infettive si prendono solo a scuola?’, perché durante la giornata i bambini li frequentavo. A Genova, dove sono nata, andavamo in giro, in spiaggia, oppure guardavamo le persone giocare a tennis o pattinare, al pomeriggio. Cominciai a capire che il problema non erano le malattie infettive, ma la scuola, anche se non mi erano chiare le ragioni per le quali mi era proibita”.

L’inizio della guerra

“Noi bambini naturalmente non attribuivamo la colpa alle leggi razziali, perché non ne avevamo percezione, però ci rendevamo conto dei cambiamenti che avvenivano in casa nostra. Nel 1941 i miei genitori mi convocarono e, con aria molto solenne, mi dissero che ero una bambina molto fortunata e che d’ora in avanti non sarei andata a scuola, ma avrei studiato a casa con una maestra, una loro amica. Mi fecero credere che fosse un privilegio.

Mi comprarono un grembiule bianco col fiocco rosso, una cartella, un vecchio banco di scuola a due posti con il bicchierino per l’inchiostro, il posto per la penna con il pennino e per i libri, una grande carta geografica che attaccarono al muro e per la maestra un tavolino e una seggiolina. Poi mi dissero che avrei studiato con mio fratello, che avrebbe fatto la primina. Così cominciammo le lezioni.

A scuola non potevo andare, ma non lo sapevo. Crebbi in maniera diversa dagli altri e lo percepivo in maniera molto chiara. Prima della persecuzione nazifascista lasciammo Genova, che era bombardatissima, e ci spostammo prima a Viareggio – dove vivevano i miei nonni paterni – e poi a Santa Margherita Ligure, con una domestica ariana. Le leggi razziali prevedevano che non potevamo averne, ma la nostra si era impuntata e aveva deciso di rimanere con noi, abusivamente”.

Discriminazione

Percepiva che qualcosa non andava…

“Noi ebrei non potevamo avere neanche una radio, a casa. Quindi le notizie le potevamo ascoltare soltanto fuori. Andavamo in un luogo pubblico in cui la radio era sempre accesa. L’8 settembre del 1943 eravamo attorno a un chiosco di gelati di un parco ad ascoltarla e sentimmo che era stato firmato l’armistizio. La fortuna volle che con noi ci fosse anche un amico più informato (era il vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane dell’epoca).

Ci disse: ‘La guerra non è finita, per noi comincerà il peggio, perché i tedeschi stanno premendo contro le frontiere e quando riusciranno ad entrare non solo non avremo più diritti civili, ma ci toglieranno anche la vita. Dobbiamo scappare’. I miei lo seguirono: insieme a un’altra famiglia ebrea di cinque persone scappammo, lasciando Santa Margherita Ligure.

Per la prima volta capii che il problema era che fossi ebrea. La domestica non partì con noi – perché era troppo pericoloso –, ma i miei genitori le chiesero di insegnare a me e a mio fratello l’ave Maria, il padre nostro e il segno della croce. La mia famiglia era molto laica, ma pensare che potesse pregare in un’altra religione era una cosa assurda. Capimmo che era strano.

La domenica andavamo a messa, fingevamo. E cambiammo nomi, indicandoli nei documenti falsi che i nostri genitori si erano procurati a caro prezzo per sostituire quelli veri, con la segnalazione ‘razza ebraica’. Il mio vero cognome anagrafico è Dello Strologo. Mi dissero che da quel momento sarebbe stato Bonomonte. Papà non si sarebbe più chiamato Angelo, ma Niccolò; la mamma non sarebbe stata più Giorgia… una rivoluzione. Io e mio fratello eravamo sbalorditi”.

La fuga

Poi scappaste verso la Svizzera…

“Uno dopo l’altro tredici nostri parenti stretti furono deportati. Mio padre decise che era arrivato il momento di scappare, di lasciare l’Italia. Trovammo un’organizzazione che ci mise in contatto con un gruppo di montanari che prima della guerra facevano il contrabbando di sigarette dalla Svizzera all’Italia e poi quello di ebrei dall’Italia alla Svizzera, che era l’unico Paese non in guerra.

Era un rischio, perché molti montanari si facevano pagare dagli ebrei con la promessa che li avrebbero aiutati e poi li denunciavano, ricevendo in cambio la taglia prevista per chi denunciava gli ebrei (cinquemila lire per un uomo, tremila lire per una donna, duemila lire per un bambino). Pattuimmo che metà dei soldi sarebbero stati dati ai montanari e metà all’organizzazione che si era occupata di tutto e che, solo nel caso in cui fossimo arrivati sani e salvi in Svizzera, quest’ultima avrebbe dato anche il resto ai primi.

Vennero a prenderci con un baracchino a tre ruote dal paesino in cui ci trovavamo, sopra Chiavari, sull’Appennino ligure, e ci portarono a Genova, nascosti tra i giornali. Da lì col treno arrivammo a Milano, poi a Como, dove una donna che faceva parte dell’organizzazione ci aspettava. Io e mio fratello non capivamo nulla di reale, ma capivamo che era una situazione d’emergenza.

A bordo di un’auto coi vetri oscurati arrivammo in alta montagna. Quando eravamo partiti ci avevano detto di vestirci come se dovessimo andare a trascorrere un weekend dai parenti. Mia mamma portava un pellicciotto e le scarpe col tacco; io e mio fratello vestiti leggeri, soltanto un cappottino e un berrettino di lana. Non ci aspettavamo un cambiamento di rotta, sapevamo che avremmo dovuto camminare poco. In Svizzera, invece, dovemmo arrivare a piedi, col freddo. Era il 4 gennaio del 1944”.

Lì iniziaste una nuova vita. Però una volta ha detto: “Eravamo perseguitati in Italia come ebrei e in Svizzera malvisti perché considerati tutti fascisti”…

“A settembre cominciai ad andare a scuola. In Svizzera ho fatto la quarta elementare. Fu un momento di grande felicità, perché finalmente ero diventata una bambina come tutti gli altri, però ero a disagio perché non avevo i vestiti adatti, non potevamo permettercene di nuovi. Ero un po’ intimidita.

Me lo ha confermato un mio compagno di scuola che è riuscito a rintracciarmi un mese fa, dopo ottant’anni, da un paesino vicino Lugano. Mi descrive come una bambina solitaria, che non veniva accolta a braccia aperte. C’era quest’idea che gli italiani fossero tutti fascisti e che fossero dei poveracci, perché all’estero facevano i lavori più umili”.

La fine della guerra

Dopo la Liberazione invece?

“Tornammo in Italia tre mesi dopo, nel luglio del 1945. Fu un viaggio drammatico perché l’Italia era distrutta. Per arrivare da Chiasso a Genova ci mettemmo tre giorni: le strade non c’erano più, molti ponti erano stati abbattuti. Dovemmo attraversare il fiume Ticino su una zattera.

Quando arrivammo nella nostra vecchia casa la portinaia ci disse che i miei nonni erano su, ad aspettarci. Non ci disse, però, che i nostri appartamenti erano stati regalati a due famiglie fasciste. Per molto tempo coabitammo con loro, i nuovi ‘ proprietari’, poi andammo in Tribunale per riaverli.

A settembre tornammo a scuola e io feci lo sbaglio di saltare la quinta elementare e di andare direttamente in prima media. Volevo avere a che fare con delle persone più grandi, che mi potessero accogliere in maniera più affettuosa di quanto non avessero fatto i miei coetanei svizzeri. Non mi chiesero mai niente di quello che io e la mia famiglia avevamo passato.

Sull’Italia era calata l’idea che a noi ebrei non fosse successo nulla, che le leggi razziali fossero state emanate e mai applicate. Fu un’esperienza devastante. Non mi stupisco molto, quindi, della straordinaria ignoranza che gli italiani mostrano anche in questi giorni, quando ci giudicano senza conoscere nulla del nostro passato, della nostra storia.

Si stupiscono se siamo contrari al fatto che il saluto fascista venga considerato come un gesto ‘nostalgico’. Non sanno che ogni volta che vediamo la mano alzata del saluto fascista ci ricordiamo che è stata l’ultima cosa che hanno visto i nostri parenti deportati lasciando l’Italia verso Auschwitz”. 

Sulla memoria

Anche per questo è importante ricordare…

“È importante perché non è solo la mia storia e la storia degli ebrei come me, ma è la storia d’Italia. Andando nelle scuole cerco di far capire che racconto una vicenda che riguarda tutti. I perseguitati erano anche gli evangelici, i sinti, i rom, gli omosessuali.

Purtroppo si è voluto rimuovere il passato, perché l’Italia potesse procedere, unita, ‘verso un radioso futuro’ e il risultato è che, mentre nella Germania occidentale è stato fatto un serio lavoro sulla memoria, in Italia ci si è comportati come se fosse successo poco o nulla e il risultato lo abbiamo davanti agli occhi: il montante razzismo, l’antisemitismo, i saluti romani”.