Una triste e indignante vicenda si è conclusa dopo quasi 10 anni con la con la condanna al risarcimento di una società nei confronti di una sua impiegata sul quale aveva fatto “straining”. La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha confermato la condanna già imposta dalla Corte d’Appello di Brescia.
Milano, impiegata vittima di “straining”: società dovrà risarcire
Stress e ansia, per mettere sotto pressione una neo impiegata della società. Lo scopo era di farle perdere peso affinché entrasse in una taglia “M” (Medium) o “S” (Small). Queste le motivazioni che hanno spinto una dei soci e amministratrice della società a mettere in atto comportamenti persecutori e vessatori sulla neo assunta.
Nella sentenza della Corte di Cassazione – Sezione Lavoro si legge che alla vittima assunta da pochissimo tempo:
La socia e amministratrice della società consegnò un clistere con la prescrizione di utilizzarlo, le impose una dieta ipoglicemica affinché potesse dimagrire e indossare una divisa di taglia media o small, la costrinse a sottoporsi a sedute di massaggi sul luogo di lavoro che lei stessa praticava, le impose degli esami del sangue e le chiese la password per consultarli con la scusa di darle un consiglio in presenza di eventuali anomalie
Un episodio gravissimo di “straining”, ovvero l’essere vittima di comportamenti atti a creare pressione e stress da parte del proprio datore di lavoro. Una forma di violenza sul luogo di lavoro, che, però, si differenzia dal “mobbing“, che è più sistematico e prolungato nel tempo. Perciò, ora, la società per cui lavorava la vittima dovrà risarcirle 12.500 mila euro per danni biologici e morali. Infatti, secondo la perizia stilata dal medico curante, tali atteggiamenti vessatori hanno provocato nell’impiegata una depressione.
Le indagini
I fatti sono avvenuti nel 2013 e, secondo tre testimoni, i giudici sono riusciti a ricostruire quanto la vittima sia stata costretta a subire sul luogo di lavoro. Oltre alle testimonianze, i giudici si sono avvalsi di una mail dell’accusata inviata per sbaglio, dove in oggetto vi era scritto “cerebrolesi” e nella quale si parlava proprio della vittima.
Dalle indagini è emerso che la dipendente non sia stata l’unica vittima, ma che altre colleghe dovettero subire quanto capitato a lei. Infatti, nella sentenza si legge che:
Altre lavoratrici furono vittime di condotte vessatorie e lesive della loro dignità personale e professionale che si erano concretizzate in invadenze inaccettabili da parte della superiore gerarchica nella propria sfera intima e personale fino a culminare in denigrazioni e umiliazioni
Della sentenza risolutiva dà notizia lo Studio Cataldi, che riporta anche che:
La vittima dello straiming veniva spesso accompagnata in uno stanzino e lì trattenuta dalla collega più anziana.