Perché tornare al cinema per vedere o rivedere un film come Il Cacciatore, uscito 45 anni fa? La risposta più semplice a banale è perché si tratta di uno dei film più belli nella Storia del cinema (americano e non solo). Un’altra potrebbe riguardare il cast sontuoso chiamato a raccontarla, composto da nomi che, ancora oggi, sono conosciuti e idolatrati dagli amanti del cinema come dagli spettatori più ‘occasionali’. Ma il vero motivo è che, come tutti i capolavori, la pellicola di Michael Cimino – sebbene catturi magnificamente un contesto storico, politico e sociale ben preciso e irripetibile – dice moltissimo anche sul mondo di oggi, sulle sue tensioni, sui suoi slanci e sulle sue tragedie.
Il Cacciatore, torna al cinema il canto del cigno della New Hollywood
Torna al cinema per soli tre giorni – 22-23-24 gennaio 2024 – Il Cacciatore di Michael Cimino, uno dei tanti film-simbolo di un’epoca entusiasmante quanto tragica, gli anni Sessanta e Settanta di Hollywood e degli Stati Uniti d’America.
Uscito nel 1978 negli Usa (il 27 febbraio 1979 in Italia), resta uno degli spaccati più affascinanti e tremendi di un’epoca in cui l’illusione di poter cambiare il mondo e risolvere le sue ingiustizie risplendette con tale e tanta forza da non far vedere la catastrofe che si nascondeva dietro di essa. Finché non fu troppo tardi.
Una pellicola che rifiutava le etichette facili del pur meraviglioso ‘cinema di impegno civile’ di quegli anni, realizzato da quella ‘New Hollywood’ sulla quale si sarebbero scritti libri su libri, tanta era la vitalità di quel gruppo di cineasti, rimasta caso isolato nella storia del cinema made in Usa.
Un cinema, quello della Nuova Hollywood, quasi per sua natura ‘di contestazione’, perché fatto da registi giovani che avrebbero passato – quasi tutti – le giornate a contestare nelle piazze un Paese che aveva tradito i suoi ideali, se non fossero stati troppo impegnati a tradurre quel malcontento, quella rabbia, quel dolore nei loro film. Aiutati, in questo, da una congiuntura favorevole che consentiva loro una libertà creativa senza precedenti in un’industria – Hollywood – fino a quell’epoca irregimentata al limite del controllo totalizzante sulla creatività dei suoi protagonisti, che sconfinava nella coercizione sulle loro vite.
Michael Cimino, probabilmente, non sarebbe sceso in piazza.
Come John Milius, regista di Un mercoledì da leoni – uscito lo stesso anno, perché il destino non è mai casuale – Cimino volle raccontare chi, di quella generazione, aveva creduto ingenuamente all’illusione di una nuova frontiera da conquistare, partendo per il Vietnam per difendere pace e democrazia.
Il Vietnam come ‘nuova frontiera’ e l’America tradita
Protagonista del suo film è un gruppo di giovani minatori di una piccola cittadina della provincia americana. Molto diversi, dunque, dal benestante Benjamin Braddock interpretato da Dustin Hoffman ne Il Laureato, che può permettersi di ‘ciondolare’ tra un dilemma esistenziale e un’analisi delle contraddizioni della società americana.
La loro vita è scandita dai turni di lavoro nella fabbrica locale e dalle serate ad alto tasso alcolico che ne seguono. Un rapporto, quello tra gli uomini de Il Cacciatore, virile nel senso più puro del termine: tanti gli abbracci, gli spintoni, le litigate a brutto muso che, poi, si risolvono in un nuovo, ennesimo brindisi.
Un machismo che si dissolve di fronte alle donne, la cui purezza rende gli uomini – anche quelli destinati a diventare ‘eroi’ – timidi e impacciati (o violenti, salvo poi pentirsene).
Come la Linda interpretata da Meryl Streep che arriva al film di Cimino per un puro atto d’amore verso il suo compagno, John Cazale, malato di cancro allo stadio terminale ma deciso a fare quel film di cui, evidentemente, aveva compreso il potenziale. La Streep accetta il ruolo solo per stargli accanto negli ultimi momenti della sua vita, lui che, nella in quella breve carriera, aveva fatto solo capolavori, dalla collaborazione con Francis Ford Coppola nella trilogia de Il Padrino (nel terzo compare grazie all’uso di immagini d’archivio) e ne La conversazione, a quella con Sidney Lumet in Quel pomeriggio di un giorno da cani.
Per di più, questi ragazzi così ansiosi di ‘Servire Dio e la Patria con orgoglio’ (‘Serving God and Country proudly’ troneggia su uno striscione sopra ai protagonisti al matrimonio di uno di loro, prima di partire per il Vietnam) sono immigrati, come ci mostra tutta la prima parte del film. Ai loro occhi invincibili, partire per il Vietnam e tornare da eroi rappresenta il prestigio massimo cui aspirare, per ringraziare quel luogo che gli ha aperto le sue porte di libertà e democrazia.
Ma quell’America non esiste più. Si è trasformata in una terra che ha barattato i valori che l’avevano resa grande con la follia del sangue e della morte. Un Paese che, in quegli anni, ha ammazzato presidenti e paladini dei diritti civili in nome di un ‘ordine’ occulto da preservare, oltre a mandare al macello i suoi giovani in una guerra insensata.
La caccia ai cervi che dà il titolo al film (Deer hunter in originale), è la metafora dolorosa di questo mutamento. L’idea di Mike (un Robert De Niro che riesce a svettare in un cast corale fatto solo di fuoriclasse) di cercare una qualche lealtà persino nella morte, con la sua regola del “colpo solo“ in canna, per dare la possibilità della fuga al cervo, trova il suo rovescio nella follia della guerra, con la ‘roulette russa’ cui i tre amici – Nick, Steve e, appunto, Mike – vengono costretti a ‘giocare’ dai vietcong che li tengono prigionieri.
Non c’è regola che tenga, non c’è speranza o illusione di onestà, quando intorno a te c’è posto solo per l’incubo che è diventato il sogno americano.
Quanti Oscar ha vinto Il Cacciatore?
Una pellicola tanto complessa e dolente nelle mani di un regista esordiente o quasi? Anche nel clima dissoluto e senza catene della New Hollywood, sembrava un azzardo.
Cimino venne ostacolato continuamente dai suoi produttori, che non credevano minimamente nel progetto e nella sua visione di come realizzarlo.
Alla fine, ebbe ragione lui, e anche i suoi oppositori dovettero cedere di fronte a un film che aveva le stimmate di un’opera destinata a fuoriuscire dallo schermo per farsi coscienza di un intero tessuto sociale e civile.
Gli Oscar del 1979 rappresentarono il giusto tributo al genio di Cimino e di coloro che furono al suo fianco. Il Cacciatore vinse, infatti, cinque statuette su nove candidature:
- Miglior Film
- Miglior Regia a Michael Cimino
- Miglior attore non protagonista a Christopher Walken
- Miglior montaggio
- Migliore sonoro
Rimasero esclusi, in maniera incomprensibile, Robert De Niro e Meryl Streep – candidati rispettivamente come Miglior Attore Protagonista e Miglior Attrice Non Protagonista – oltre a Vilmos Zsigmond per la Miglior Fotografia e lo stesso Cimino per la Miglior Sceneggiatura Originale.
Ma Hollywood seppe prendersi la sua rivincita, condannando a una morte artistica Cimino dopo il suo film successivo, I Cancelli del Cielo. Un flop clamoroso, che segnò la fine della United Artist – lo Studio creato da Charlie Chaplin con l’obiettivo dichiarato di dare più libertà ai registi – e, in pratica, della carriera del regista.
Il Cacciatore, il cast del capolavoro che torna al cinema il 22-23-24 gennaio 2024
Come già ricordato e reso palese dalle nomination agli Academy Awards, il cast de Il Cacciatore fu una delle ‘armi’ con cui Cimino provò a tenere a bada i produttori.
Il regista fece affidamento, infatti, su alcuni dei nomi che stavano segnando quella stagione, destinati a diventare, col tempo, veri e propri idoli. Oltre ai già citati Robert De Niro, Meryl Streep e John Cazale, è doveroso ricordare John Savage nei panni di Steven, che tornerà traumatizzato nel corpo e nell’anima dalla guerra.
E poi, inevitabilmente, Christopher Walken, che interpreta Nick. Lui, il più sensibile tra i suoi amici, che sogna “gli alberi” delle montagne di casa e che ha visto un mondo diverso, è destinato a soccombere. Anche la Natura, infatti, cambia prima e dopo il Vietnam: la pace e la bellezza delle montagne di casa vengono spazzate via dalle asperità della giungla vietnamita, in un passaggio anche cromatico e visivo raccontato dalla magnifica fotografia di Vilmos Zsigmond.
La parabola di Nick si chiude senza grida di denuncia o protesta, ma con un sorriso beffardo e tragico in faccia a chi ancora è convinto di poter scongiurare o, al limite, dare un senso a tutta quella sofferenza. E a chi rimane resta solo di aggrapparsi nervosamente gli uni agli altri, intonando un ‘National Anthem’ che somiglia ormai a un canto funebre.