Alla fine del 2023 abbiamo assistito alla caduta di Chiara Ferragni dall’Empireo degli influencer, precipitando a velocità di stella cadente nelle polveri dei comuni mortali.
Il 2024 invece si è aperto con una storia completamente differente, che ha riguardato un’altra influencer, Selvaggia Lucarelli, proprio colei che aveva scoperchiato il vaso di Pandora, anzi di Pandoro, riguardo al Ferragni gate.
Chiara Ferragni e Selvaggia Lucarelli nella bufera social
La gogna mediatica nei confronti di Chiara Ferragni è stata scatenata, almeno secondo l’Autorità Antitrust, da un presunto inganno ai consumatori riguardo all’acquisto di un pandoro griffato.
Il giudizio senza appello del tribunale dei social l’ha condannata a una pena ben più severa rispetto alla multa dell’Antitrust: l’infamia, l’oscura faccia della fama.
La bufera che ha investito Selvaggia Lucarelli invece è dovuta a tutta un’altra storia. Si tratta del caso di Giovanna Pedretti, ristoratrice nel lodigiano, deceduta, forse suicida, forse a causa di un’ondata di disprezzo sui social che l’ha travolta, poche ore dopo aver cavalcato un’altrettanto intensa ondata di popolarità.
Semplificando la vicenda: qualche giorno fa, la ristoratrice pubblica sui social un commento di un cliente che si lamenta di aver dovuto mangiare vicino a una coppia gay e a una persona con difficoltà motorie. La sua risposta, invitando il cliente a non frequentare più il suo locale a causa della sua mancanza di umanità, ha scatenato un’esplosione di attenzione da parte dei social, giornali, televisione e persino dal mondo della politica. In poche ore, Giovanna è diventata una sorta di campionessa nazionale di civiltà e umanità.
A meno di 24 ore di distanza, Lorenzo Biagiarelli, food blogger e compagno della giornalista Selvaggia Lucarelli, ha sollevato dubbi su quanto dichiarato da Giovanna Pedretti in un post. Biagiarelli ha osservato che il commento insensibile e disumano del cliente potrebbe essere stato inventato, citando una serie di incongruenze e ipotizzando che l’intera vicenda potrebbe essere stata una mossa pubblicitaria, nonostante le apparenze.
Il vento dei social, mutevole come i Caraibi, a quel punto ha cambiato direzione rapidamente, generando un’ondata di insulti diretta a Giovanna. Poi arriva è arrivata la tragedia del suicidio.
In poche ore, le accuse contro la coppia Biagiarelli-Lucarelli si sono moltiplicate: c’è chi li accusa di aver spinto Giovanna al suicidio. Tuttavia, i due difendono la loro posizione affermando che cercare la verità e fornire informazioni non significa incitare al suicidio.
I social ti innalzano ma poi ti stroncano
Oggi, sarebbe inopportuno soffermarsi su questi aspetti della vicenda. Conosciamo troppo poco sulla morte di Giovanna, sulla validità delle accuse e sull’asprezza con cui è stata affrontata. E, ammesso che esista, sulla correlazione tra gli eventi.
Tuttavia, un dato di fatto emerge: in meno di 72 ore, una donna è stata elevata agli onori sui social e poi condannata alla gogna mediatica, secondo alcuni, addirittura a una sorta di condanna a morte per l’insostenibilità, almeno nella dimensione soggettiva, della gogna.
Proprio come nella vicenda della Ferragni, che è completamente diversa, è importante ricordarlo, la distanza tra l’applauso e la condanna, nella dimensione digitale, sembra ridursi a zero, o meglio, al cosiddetto “tempo reale”, in cui tutto accade online.
La prima considerazione è chiara: la reputazione personale nella dimensione digitale è effimera e fragile. Bastano pochi istanti per guadagnare fama, ma ancor meno per essere condannati all’infamia.
La seconda riflessione è intrinsecamente legata alla prima: il tribunale dei social è feroce e volubile, cambia opinione in brevissimo tempo e sostiene argomenti contrapposti con la stessa fermezza, la stessa forza d’urto e lo stesso impeto.
La terza considerazione è di gran lunga più rilevante: la reputazione per le persone, sebbene con intensità diversa, è come l’aria che respiriamo. Se è arricchita di ossigeno, ci dona forza ed energia, ma se è inquinata o contaminata, ci logora e può portarci alla rovina.
È pericoloso dimenticarsene, imprudente sottovalutarla, rischioso confondere l’immaterialità di alcune parole con quella delle loro conseguenze, perché ci sono parole che possono infliggere più danni di un colpo fisico.
Infine, la quarta riflessione: i processi dovrebbero svolgersi in tribunale, non in televisione, non sui giornali e neppure sui social. La gogna mediatica non è una sanzione umanamente e democraticamente sostenibile, nemmeno per chi è condannato da un giudice, figuriamoci se può esserlo da chi è giudicato con un semplice clic.
Gli errori giudiziari sono una realtà, ma gli errori nelle sentenze mediatiche pronunciate da chi fa informazione e da improvvisate giurie popolari sui social sono molto più frequenti e pericolosi.