La recente scelta da parte della Treccani di designare il termine Femminicidio quale parola dell’anno 2023 si rivela centrale nel dibattito sulla violenza di genere per almeno due aspetti fondamentali.

  • 1) Il riconoscimento del significato di questo neologismo comparso per la prima volta nel 2001 su Repubblica ed inserito 7 anni dopo nella Treccani, ad indicare l’uccisione di una donna in quanto tale come espressione di una cultura arcaica e patriarcale che ha inteso relegarla ad un ruolo di subordinata, in quanto strumentalmente mantenuta in una condizione di inferiorità rispetto all’uomo.
  • 2) Il secondo aspetto pertiene la rilevanza e l’urgenza socio-culturale rappresentata dal femminicidio, motivo per cui la parola è sempre più centrale nell’analisi di gravissimi fatti di cronaca che si susseguono inesorabilmente, rendendo evidente la necessità di sottolinearla a rappresentare la grave problematica della violenza di genere nel nostro Paese.


E poiché le parole sono importanti, come determinanti si rivelano le narrazioni per comprendere la natura di un fenomeno, vorrei raffigurare cosa possa celare quella per cui la donna che subisce maltrattamenti sia per lo più una persona estremamente fragile, incapace di reagire che tende alla adesività, all’ambivalenza e alla collusione col suo persecutore.

Femmicidio parola del 2023 per la Treccani, il commento della psicoterapeuta Alexia Di Filippo

Premesso che il fenomeno della violenza di genere è molto complesso e che ogni caso vada considerato nella sua specificità, si può considerare rispondente al vero che una delle combine classiche delle relazioni tossiche, culla dei maltrattamenti non solo intra familiari e del femminicidio, sia quella costituita dall’abusante ed una personalità dipendente o una persona che sviluppa una dipendenza affettiva da quella relazione, la quale resta dunque invischiata nei cicli di abuso senza riuscire ad allontanarsi dal legame.

Tuttavia, è sempre più frequente la condizione che a venire coinvolta in una dinamica violenta sia una donna risolta, indipendente, risoluta, che il predatore affettivo relazionale o il manipolatore di turno sceglie proprio per quelle caratteristiche che la rendono assertiva ed autorevole, prima fra tutte la capacità di autodeterminazione, seguita dal riconoscimento sociale delle sue doti.


Basti pensare ad alcuni terribili femminicidi del 2023 per constatare quanto le vittime fossero giovani donne intelligenti, indipendenti ed operose, determinate ad interrompere relazioni con uomini che avevano finito per costituire un impaccio, un allaccio abusivo, un grosso problema: da Giulia Tramontano che aveva, prima della gravidanza, una sua dimensione lavorativa in cui mostrava grande padronanza, a Giulia Cecchettin che si stava laureando con merito ed era così creativa e talentuosa da aver pianificato anche la frequentazione di una scuola per divenire fumettista, sino a Vanessa Ballan, la cui operosità come lavoratrice ed in quanto mamma è stata sottolineata da chiunque la conoscesse.

Alexia Di Filippo: “Attenzione alla narrazione che sposta il focus dall’abusante alla vittima”

Ma perché questa evidenza non viene colta e si predilige una spiegazione della violenza di genere che passa per una sorta di complicità femminile? E’ chiaro, tale narrazione sostiene una mentalità misogina ancora troppo diffusa nel nostro Paese, che propone una interpretazione della violenza sulla donna cui soggiace un pensiero per cui chi la subisce se la sia andata a cercare o quantomeno non l’abbia evitata, quando non provocata, che si contestualizza nella grande tradizione della vittimizzazione secondaria osservabile sovente nei tribunali, in cui la donna che ha subito abusi rapidamente si trova a doversi nuovamente difendere perché collocata sul banco degli imputati al posto del suo o dei suoi aguzzino/aguzzini.

Invocando e ricercando un problema nella vittima della violenza, si vuole suggerire che la donna coinvolta in un ruolo di sudditanza in una relazione tossica sia difettosa, predisposta al maltrattamento e collusa con l’abusante e questo viene affermato purtroppo mentre si sostiene l’ovvio, ovvero che le personalità dipendenti e chi soffre di dipendenza affettiva debbano farsi aiutare perché non ce la fanno a reagire e sovente colludono effettivamente con la manipolazione che subiscono in quanto non in grado di decrittarla.


Ma quando ci si focalizza su tale aspetto non si dovrebbe dimenticare che l’anima del victim blaming, ovvero il processo di colpevolizzazione della vittima, comporta proprio questo, lo spostamento del focus della responsabilità, se non della colpa, da chi commette l’abuso a chi lo subisce.


Non bisognerebbe dimenticare che più spesso le donne da quando sono bambine subiscono gravi trascuratezze ed abusi, patiscono traumi nel legame di attaccamento con i genitori ed assimilano schemi relazionali disfunzionali che inconsapevolmente replicano nelle relazioni successive, ma nella maggioranza dei casi in una posizione di sudditanza.

Assodato ciò quindi, quando vengono abusate, dobbiamo con paternalistica spocchia sottolineare che hanno scelto male, sopportato peggio e che non sanno uscirne? Che devono essere sempre o principalmente loro a lavorare su se stesse per difendersi da uomini con comportamenti violenti? O non sarà piuttosto vero che con questo sistema, puntando i riflettori su donne considerate incidentalmente difettose, si eviti di individuare ed intervenire sulla costruzione culturale sociale e sistemica della violenza di genere? Perché, sembrano sostenere i Soloni del se l’è andata a cercare, direzionare gli sforzi preventivi ed interventivi su chi commette l’abuso ed è all’apice della catena di trasmissione intergenerazionale della disparità di genere e della violenza, quando si può risolvere, senza rischiare di cambiare le cose, ricorrendo all’ampiamente collaudato “guai ai vinti”?


Certamente occorre aiutare le donne vittima di violenza a prendere coscienza di ciò che accade loro, elaborando i propri traumi con l’aiuto di esperti per sanare antiche e nuove ferite. Ma a mio giudizio è giusto e necessario che si focalizzi l’attenzione sull’abusante, sulla motivazione infausta che lo muove, sulla buia determinazione che lo abita e sui reati che compie, perché è soprattutto lui che deve prendere atto del proprio problema e rispondere delle sue azioni in modo da non ripeterle, fatto usuale. Risulta poi cruciale che sia l’esempio negativo del violento a dover essere sottolineato, compreso, contestualizzato e stigmatizzato in modo da creare consapevolezza nella società e nuovi strumenti culturali ed educativi che prevengano e contrastino la violenza di genere di cui l’atto apicale e tragico è il femminicidio.


Dr.ssa Alexia Di Filippo
Psicologa dello Sviluppo ed Educazione e Psicoterapeuta