Sfruttati e costretti a vivere in condizioni estreme i lavoratori impiegati nelle serre per la coltivazione di primizie: 2,5 ai 3 euro l’ora e nessuna garanzia. Questo il drammatico quadro che tratteggia il fenomeno del caporalato. Ma ben presto le vittime di sfruttamento potranno usufruire del progetto avviato dal Comune di Ragusa. Sarà inaugurato, infatti, il prossimo 25 gennaio il primo centro per uomini vittime di caporalato a Ragusa.

Caporalato: il primo centro a Ragusa dedicato alle vittime

Il progetto è patrocinato dall’amministrazione comunale del capoluogo, in particolare, dal sindaco Peppe Cassì, l’assessora per i Servizi Sociali Elvira Adamo e all’assessore ai Lavori pubblici e vicesindaco Gianni Giuffrida. In esclusiva per TAG24 l’intervista all’assessora per le Politiche per l’inclusione, Sevizi sociali e Pari opportunità Elvira Adamo, che ha raccontato ai giornalisti l’iniziativa promossa dal Comune di Ragusa.

D: Cos’è il caporalato?

R: Il fenomeno del caporalato è presente nel territorio della provincia di Ragusa, perché abbiamo quella che viene solitamente definita la fascia trasformata, ovvero la zona di Scoglietti, Acate ecc. Sono zone costiere dove c’è moltissima attività agricola in serra e, spesso, in queste serre vengono impiegati lavoratori in condizioni di isolamento e di semi schiavitù. Il caporalato è una forma di schiavitù, che impone a queste persone condizioni di lavoro e vita complicate. Questo fenomeno è noto nel territorio ed è anche monitorato da diverse associazioni, che cercano di portare sollievo e assistenza a queste persone.

Noi ci concentriamo sui lavoratori, che, ovviamente hanno delle famiglie. Quindi, il caporalato si collega anche al fatto che ci sia dispersione scolastica per i bambini, che non vengono accompagnati a scuola. A un isolamento culturale, perché non hanno molte relazioni con gli altri e difficilmente si inseriscono nella comunità.

L’amministrazione comunale di Ragusa, già negli anni scorsi, ha attivato un protocollo con altre istituzioni del territorio, in particolare con la Prefettura, con la quale ci sono dei tavoli permanenti per la lotta al caporalato, alla dispersione scolastica e la violenza di genere. Nel territorio di Ragusa si lavora con altri organismi e associazioni proprio per fare un lavoro più puntuale.

Il punto di partenza

D: Da dove nasce l’idea del centro?

R: Nello specifico di questo centro, parliamo di un progetto iniziato nel 2019, con un altro prefetto, la dott.ssa Filippina Cocuzza. In quell’anno è stato stipulato un protocollo fra il comune di Ragusa e la Prefettura per la lotta al caporalato. A questo punto abbiamo individuato – Ragusa è una città di 70 mila abitanti con una vasta area rurale attorno – una scuola rurale in contrada Genisi. Il luogo era stato per un certo periodo la sede di un’associazione, che si occupava di migranti.

Il Comune è riuscito a ottenere un finanziamento nazionale, che è il PON Legalità 2014-2020, di circa 600 mila euro. L’importo serve per ristrutturare la ex scuola e farne un centro anti-caporalato. Con questo finanziamento abbiamo creato un centro con delle camere per alloggiare fino a 10 persone, degli spazi comuni, una cucina e degli spazi per fare delle attività. Intorno c’è un piccolo appezzamento di terreno. Il progetto prevede un avviso pubblico, per cui abbiamo dato la gestione del centro a un’associazione specializzata in queste tematiche: la cooperativa sociale Proxima.

Quello che accadrà, è che Proxima intercetterà persone vittime di caporalato e le toglierà dalla situazione in cui si trovano. Infatti, quello che accade è che se il lavoratore decide di denunciare il proprio datore, non può dopo rimanere lì, altrimenti potrebbe essere vittima di ritorsioni. Dunque, i lavoratori potranno stare presso il centro per circa 3 mesi, durante i quali si provvederà ad assisterli da un punto di vista legale e di altro tipo per reintrodurli nel mondo del lavoro in condizioni migliori ed eliminare la marginalità sociale e il degrado. Il centro sarà inaugurato il 25 gennaio prossimo e sarà operativo.

L’indagine della Caritas

D: Visto che il centro non è ancora stato inaugurato, non ci sono ancora ospiti?

R: No, attualmente no. Abbiamo realizzato una struttura totalmente nuova – perché nell’immaginario comune si pensa che chi vive un disagio, poi, viva in strutture fatiscenti -, arredato con mobili nuovi e biancheria. Il centro dispone anche di un sistema di videosorveglianza, perché lavoriamo con persone fragili o che potrebbero subire minacce.

Ciò che è emerso da un’indagine della Carita è che i datori di lavoro fanno vivere queste persone in delle catapecchie. Quindi, prendono i lavoratore, con retribuzioni assurde, e lo fanno abitare in strutture degradate, dove non vengono rispettate le condizioni minime di vita. Nel centro, gli ospiti potranno intraprendere un percorso di crescita personale, avere consapevolezza dei propri diritti ed essere inseriti in un circuito legale di lavoro.

Caporalato e immigrazione illegale: un fenomeno dilagante

D: Ciò aiuterebbe anche con la questione dell’immigrazione illegale?

R: A Ragusa ci sono delle associazioni estremamente attive su questo, sia laiche che religiose, perché è un fenomeno che ci riguarda direttamente. Il caporalato è una vera e propria forma mafia. Il caporalato non è l’azione di un singolo datore di lavoro, ma è un sistema con una organizzazione. Queste organizzazioni intercettano i ragazzi che arrivano in Italia, e li obbligano a pagare per procurargli lavoro e documenti. L’attività delle istituzioni e delle associazioni deve essere tempestiva e deve interrompere questo circuito.

Ad esempio, Proxima, che si occupa anche di vittime di tratta, mi raccontava che la prima cosa che queste organizzazioni fanno è togliere i documenti alle ragazze e costringerle alla prostituzione per riaverli. Le donne vengono attirate nel nostro Paese con la proposta di lavorare come parrucchiera o fare le pulizie. Con il caporalato funziona allo stesso modo, perché il circuito di violenza, abusi e ricatti è lo stesso. Non solo, spesso, vengono impiegati anche i bambini. Diventa essenziale, quindi, la coordinazione con la Questura, le associazioni e le altre istituzioni.

D: Chi decide di denunciare come fa a mettersi in contatto con voi e con il centro? Lo segnala la Questura o è un passo che deve fare il lavoratore in autonomia?

R: È un doppio canale. Il lavoratore, individualmente, non è nemmeno informato dei propri diritti e non parla la nostra lingua. Anzi, non la imparano nemmeno, ma imparano il siciliano. Il primo grande passo è entrare in contatto e informare i lavoratori. Poi, essi devono trovare il coraggio di combattere la paura di eventuali ritorsioni e di perdere un lavoro – per quanto di sfruttamento – sicuro e trovare il coraggio di denunciare.

Poi ci sono i fenomeni di reato. Qui, le forze dell’ordine intercettano situazioni di questo tipo e le segnalano al Comune. Il continuo ricambio degli ospiti del centro – che, appunto, vi rimangono 3 mesi – permette di poter dare supporto a diversi lavoratori.

Progetti futuri, Adamo: “Se i modelli sono virtuosi, si può discutere di replicarli”

D: Prevedete a lungo termine di aprire altri centri in altre città?

R: Alcune associazioni svolgono nelle loro sedi attività simili a quelle del centro, certamente, prima di una valutazione dei risultati non possiamo dire se aprire o meno altri centri. Ma, poiché quello di Ragusa potrà ospitare soltanto 10 lavoratori, viene da sé che se il numero si riveli insufficiente, dovremo considerare un’espansione della struttura o un programma diverso. Si vedrà in corso d’opera.

Aprire il centro in altre città è possibile solo se lo vorranno le altre amministrazioni. Ragusa è ente capofila del distretto socio-sanitario 44, per cui, facciamo già diversi progetti con altri comuni della provincia. Se i modelli funzionano, sono virtuosi e ci sono dei risultati, si può discutere di replicarli.

L’altro problema dei comuni è che si devono ottenere i fondi. Ragusa è sempre attenta alla ricerca di bandi pubblici e finanziamenti che ci permettono di realizzare i progetti per la collettività.