Quando morì, l’11 gennaio del 1996, il piccolo Giuseppe Di Matteo aveva 14 anni e da oltre venti mesi era prigioniero degli uomini di mafia che lo avevano rapito a scopo di ritorsione nei confronti del padre Mario Santo: ecco la sua storia, dal sequestro in un maneggio al macabro omicidio, seguito dallo scioglimento nell’acido in un bunker.

La storia del piccolo Giuseppe Di Matteo, dal sequestro all’omicidio

Giuseppe Di Matteo era nato a Palermo il 19 gennaio del 1981. Era il primogenito di Mario Santo, detto “Santino”, e di Franca Castellese, di origini contadine. Il 23 novembre del 1993, all’età di 12 anni, fu rapito, in un maneggio di Villabate, da un gruppo di mafiosi facente capo a Giovanni Brusca, boss di San Giuseppe Jato, allora latitante.

Il motivo? Il padre, nato in una famiglia mafiosa e affiliato a Cosa Nostra, era stato arrestato per aver fornito supporto tecnico e logistico per la preparazione dell’attentato di Capaci: si temeva che, una volta in carcere, avrebbe deciso di collaborare con gli inquirenti, tradendo il codice che gli era stato tramandato fin da bambino.

L’obiettivo era inviargli un messaggio, spingerlo a restare in silenzio dopo le prime dichiarazioni che aveva fatto. Per il piccolo fu l’inizio di mesi e mesi di agonia, culminati nell’omicidio. Nei 779 giorni di sequestro, oltre a non poter parlare con i suoi cari, visse sempre recluso, salvo i casi in cui, per sviare i sospetti, venne spostato da un nascondiglio all’altro, imbavagliato e incappucciato. Fu privato della sua infanzia, dei giochi e dell’aria aperta.

Quando fu strangolato, l’11 gennaio del 1996, uno degli esecutori materiali del delitto notò che “non aveva la reazione di un bambino, sembrava molle, fatto di burro”: per venticinque mesi era stato tenuto prigioniero in posti dalle scarse condizioni igienico-sanitarie, senza luce e legato a pesanti lacci, riportando ferite e piaghe.

Il suo corpo non sarebbe mai stato ritrovato: dopo l’omicidio, infatti, i suoi sequestratori lo sciolsero nell’acido nitrico nel bunker in cui aveva passato l’ultimo periodo, ora adibito a luogo della memoria.

Il ruolo di Giovanni Brusca, Matteo Messina Denaro e altri

Per il macabro omicidio del piccolo Di Matteo sono state condannate, negli anni, diverse persone, tra cui Giovanni Brusca, tra i mandanti. Dopo essere diventato collaboratore di giustizia, durante un’udienza del processo sulla strage di Capaci, l’uomo chiese perdono per ciò che aveva fatto ai Di Matteo.

Nel 2021 è tornato in libertà. Matteo Messina Denaro, arrestato a Palermo lo scorso 2023 dopo quasi trent’anni di latitanza, ha scaricato su di lui la responsabilità dell’omicidio del bambino, sostenendo, davanti agli inquirenti, di aver solo ordinato il suo rapimento. Quando è morto, lo scorso 25 settembre, ha portato con sé i tanti interrogativi che ancora avvolgono quando accaduto al piccolo Di Matteo, che finalmente avrebbe potuto ottenere la giustizia che meritava.

La sua storia è rimasta impressa nell’opinione pubblica per tanti motivi: le modalità del rapimento (gli fu detto che gli avrebbero consetito di rivedere il padre detenuto), le condizioni della detenzione e il macabro omicidio, anticipato da anni di torture psicologiche. Vari collaboratori di giustizia hanno raccontato che il suo caso ebbe addirittura un ruolo nel suicidio di Vincenzina Marchese, moglie di Leoluca Bagarella, anch’egli arrestato per la vicenda.

Sembra che la donna, entrata in depressione dopo aver subito due aborti e per la vergogna di essere sorella di Pino Marchese, il “primo pentito” dei corleonesi, fosse rimasta a tal punto sconvolta dalla notizia dell’omicidio del bambino da convincersi di non poter avere figli come punizione divina, decidendo infine di togliersi la vita.