Il filosofo Umberto Galimberti nel suo libro “La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo” edito da Feltrinelli nel 2018, ricorda due ricerche del linguista Tullio De Mauro. Dalla prima, condotta nel 1976, emergeva che uno studente del liceo classico conosceva circa 1600 parole, e dalla seconda, fatta nel 1996, che il numero era sceso a una media tra 600 e 700 parole.

Secondo Galimberti oggi i giovani utilizzano, più o meno, 300 parole, e commenta: “E’ un problema? Sì, è un grosso problema perché, come ha evidenziato Heidegger, noi riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perchè non riusciamo ad avere pensieri ai quali non corrisponde una parola”.

L’impoverimento del linguaggio secondo Galimberti, Carofiglio, Mancuso, Zagrebelsky

Per il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky “il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica”. Per lo scrittore Gianrico Carofiglio “la povertà della comunicazione si traduce in povertà dell’intelligenza, in doloroso soffocamento delle emozioni”.

Secondo il teologo Vito Mancuso il “triste impoverimento del linguaggio” è una conseguenza del comportamento che tanti hanno: “Stare con gli occhi incollati allo schermo del cellulare avvinti da una catena immateriale ma non meno stringente e si fanno un’idea complessiva della realtà solo a partire da quello che appare lì e da come appare lì, senza curarsi in alcun modo di tutto il resto e che lì non appare e che per loro semplicemente non esiste”. E questo impoverimento delle relazioni comporta anche un impoverimento del linguaggio. In definitiva, un indebolimento della democrazia.

Stefano Bisi