“Perfetti in ogni minimo difetto”. E’ questo lo slogan che accompagna “Occhi di riso”, un profilo Instagram da oltre 35mila follower in cui Alessandra e Luca raccontano, con allegria e ironia, la sindrome di Down. La loro prima figlia Luna, che oggi ha 3 anni e mezzo, ha infatti un cromosoma in più: ed è lei la piccola protagonista delle tante avventure della famiglia. Racconti di vita quotidiana con l’obiettivo di abbattere i pregiudizi sulla disabilità. “Io guardo mia figlia e non vedo la sindrome, vedo lei” sottolinea mamma Alessandra.
Occhi di riso, la sindrome di Down raccontata su Instagram
L’account Instagram “Occhi di riso” è stato aperto pochi mesi dopo la nascita di Luna, racconta Alessandra Baruffato, medico nutrizionista. Insieme al marito Luca Renault, ingegnere, ha scoperto che la piccola aveva la sindrome al momento del parto, avvenuto in piena pandemia ad aprile 2020: infatti avevano deciso di non fare alcun test durante la gravidanza.
“Abbiamo cercato di affrontare questa scoperta in maniera positiva. E’ stata mia sorella a dirmi: ‘Perché non crei un profilo su Instagram? Servirebbe molto.’ Così, nonostante non fossi ‘social’, abbiamo iniziato. Poi la community è cresciuta” spiega Alessandra.
Come lei, tantissime altre mamme cercavano notizie sulla sindrome di Down: “Avevo bisogno di vedere cosa significasse nella vita pratica avere un figlio con la sindrome: cercavo quelle testimonianze che allora non c’erano” aggiunge.
Alessandra Baruffato di “Occhi di riso”: “Accoglienza positiva, ma non sono mancati insulti”
L’accoglienza su Instagram è positiva: molte persone iniziano a seguire “Occhi di riso”, ma i follower crescono in modo particolare dopo un’intervista pubblicata su un giornale locale di Varese, la provincia in cui la famiglia risiede.
“Chiaramente qualcosa di negativo è successo ed è da mettere in conto: sono arrivati anche degli insulti. Una persona mi ha detto che ero stata egoista ad aver messo al mondo una persona che sarebbe stata un peso per la società. Qualche commento poco carino c’è sempre stato, privatamente o nei post: per fortuna una piccola percentuale rispetto al resto” precisa Alessandra Baruffato.
A seguire l’account sono molte persone che condividono l’esperienza di avere un figlio con sindrome di Down: “Mi hanno scritto mamme che avevano avuto la diagnosi in gravidanza o alla nascita, mi chiedevano un aiuto psicologico o pratico” racconta Alessandra. Non c’è alcun protocollo a livello nazionale sulla sindrome: per questo le famiglie si sentono abbandonate.
“C’è tanta solitudine in Italia: sono pochissimi gli operatori sanitari che non giudicano e supportano in maniera adeguata le famiglie. Mi sono arrivate testimonianze di mamme e papà a cui alcuni sanitari dicevano di abortire, di non metter al mondo persone con sindrome di Down, sottolineando solo gli aspetti negativi. Certo, ci sono anche quelli che offrono supporto alle famiglie, ma in generale ho rilevato una bassa empatia. E’ come se ti dicessero: ‘Adesso vi arrangiate'”.
Sindrome di Down e inclusione: un obiettivo ancora da raggiungere
Luna intanto cresce: non parla ancora, ma va dal logopedista, fa psicomotricità. Frequenta l’asilo, va in piscina e a lezione d’inglese: “Non la trattiamo diversamente” spiega mamma Alessandra. “Ha bisogno di terapie specifiche, però oltre a questo niente di più. Luna è nata sana, non ha problemi cardiaci come a volte capita ai bimbi con la sindrome: dal punto di vista della salute è perfetta. Lo scoglio più grande è la società: gli sguardi, i giudizi. Non c’è inclusione“.
Una parola con cui, sottolinea, “ci si sciacqua la bocca. Ma in realtà non c’è nulla, né a livello scolastico né di attività. Rispetto al passato si nota qualche differenza: con i social le persone imparano a comprendere. L’inclusione però è solo una parola buttata lì, a livello pratico non si fa niente. Ho parlato con tante mamme che hanno figli con disabilità e la storia è sempre la stessa. Anzi: più è grave la disabilità, più grande è la solitudine e maggiore la distanza dalla società.”
“Occhi di riso” è nato con un obiettivo preciso: “Vogliamo dimostrare che esiste una possibilità diversa di vedere le cose, noi realmente viviamo positivamente la sindrome di Down. Serve un lavoro per le famiglie, sia a livello psicologico che di crescita personale. A volte siamo travolti dal giudizio altrui e dal pregiudizio: noi mostriamo che le persone con sindrome di Down possono avere una vita degna, una vita che vale la pena vivere” sottolinea Alessandra Baruffato.
A sostegno di questa scelta racconta di testimonianze, molto dure, di donne spinte ad abortire da parenti o dal personale sanitario, che poi si sono pentite della loro decisione. “Una volta mi hanno detto: ‘Piango tutte le notti perché mi pento, non sapevo cosa fosse la sindrome di Down, cosa avrebbe comportato.’ Io sono per la libertà di scelta, ognuno deve decidere per la propria vita. Però deve esserci l’opportunità di conoscere gli aspetti positivi e negativi per poter scegliere liberamente.”
Il cambiamento? Un passo alla volta
Alessandra Baruffato sottolinea come, grazie a “Occhi di riso”, alcune persone abbiano superato i propri pregiudizi sulla sindrome di Down. “Una ragazza mi ha detto: ‘Avevo tanti pregiudizi, ora ho cambiato idea completamente.’ Non possiamo cambiare il mondo in una volta sola, ma è già un passo avanti. Mia figlia Luna conquista i cuori: lei è così, ha uno scopo nella vita molto forte e noi andiamo avanti su questa strada.”
Luna, da qualche mese, ha un fratellino, che sui social si intravede appena. Una scelta consapevole per la famiglia, proprio in nome di questa ‘missione’ della piccola e dei suoi genitori. Che stanno lottando anche contro l’uso improprio di determinati termini (primo fra tutti, ‘mongoloide’) nel linguaggio comune.
La community di “Occhi di riso” si amplia giorno dopo giorno: molte famiglie si ritrovano per confrontarsi e combattere insieme contro l’isolamento. Con l’obiettivo di creare spazi e occasioni per i propri figli sul territorio, nel 2024 verrà creata un’associazione, aperta a tutti: persone con disabilità e ‘normodotate’.
“A volte mi dicono: ‘Ora c’è tanto per loro..’ Loro chi? Cosa sono, alieni? Chiediamo un’inclusione vera-spiega mamma Alessandra- e partiremo dalla nostra comunità”.