Sul periodico Cuadernos Electronicos de Filosofia del Derecho è recentemente apparso un interessante scritto di Francisco Javier Ansuátegui Roig dal titolo “Le sfide concettuali della solidarietà”. L’autore, studioso noto in Spagna come a livello europeo, si pone una serie di domande sul tema della solidarietà, della carità e delle loro relazioni con l’uguaglianza e la vulnerabilità umane, nel contesto  in cui l’uomo svolge molte delle sue attività, cioè nella società.

Sostenere come fa Aristotele che “l’uomo è un animale socievole”, equivale a dire che l’uomo è un animale solidale, portato alla vita in comune con gli altri uomini. La politica, infatti, definisce le relazioni nella società che si sviluppa dentro le mura della città, nella polis, appunto.

Francisco Javier Ansuátegui Roig, professore di Filosofia del diritto all’Università Carlos III di Madrid

La solidarietà fondamento della società

Ma perché l’uomo è un soggetto politico e in linea di principio solidale? Un altro grande pensatore antico, Protagora di Abdera, spiega che all’origine della società politica ci sono i bisogni individuali, che si combinano con le diverse competenze degli individui. In altri termini, ci si unisce nella comunità per poter usufruire, reciprocamente, delle diverse competenze di cui si è portatori.

Ma non basta mettere insieme bisogni e competenze. Occorre qualcosa che le leghi e le armonizzi: ci vuole la politica descritta come un’arte, una tecnica, una virtù che viene dagli Déi e si apprende pure nella società. La politica si fonda sul “sentire insieme”, cioè sulla simpatia, ma pure sulla solidarietà, cioè sull’idea di far parte “in solidum” di un tutto, di quella società dalla quale le nostre vite dipendono, ma che a nostra volta possiamo condizionare con i nostri comportamenti. Perciò la solidarietà, ricorda Ansuátegui Roig, è qualcosa di necessario nelle relazioni umane. Una virtù che si può esercitare solo se sente l’altro “uno come me”: “implica la capacità di porsi al posto dell’altro, di assumere come propri i suoi interessi e le sue condizioni”.

Tanto la solidarietà che l’uguaglianza sono due nozioni con evidenti tratti di ambiguità, che emergono immediatamente se poniamo la domanda: perché devo essere solidale e chi, e secondo quali parametri, devo riconoscere a me uguale? Si tratta, come nota lo studioso madrileno di definire innanzitutto “le ragioni sulle quali si fonda l’identificazione con l’altro”.

Solidarietà e uguaglianza

Se la solidarietà si esercita soprattutto in ambito comunitario, sociale e politico, rischia di escludere tutti quelli che hanno un ruolo subalterno, economicamente e socialmente, nella comunità politica, ma anche e soprattutto i “non cittadini”, quanti non sono considerati parte della comunità politica. Lo vediamo, ad esempio, nelle politiche sull’emigrazione promosse da molti stati. In Italia vige una legge che vieta di soccorrere tutte le persone che stanno per affogare, se appartengono a due diverse imbarcazioni in panne. Se si soccorre un’imbarcazione bisogna lasciar affondare l’altra. Questa legislazione inumana viene presentata come una misura di protezione per la comunità politica, per i cittadini dello stato italiano. Chi vuole venire in Italia senza autorizzazioni, è visto come una minaccia: se sta per affogare chi gli getta un salvagente è considerato colpevole di favorisce l’immigrazione clandestina, uno che per solidarietà verso “emigranti irregolari” compromette gli interessi dei suoi concittadini.

La solidarietà si può esercitare solo su un piano orizzontale, fra simili. Ma chi è il mio simile?  La solidarietà, a differenza della carità, si può esercitare essenzialmente in ambito sociale, ma in quale società? Quella dei cittadini, quella degli uomini, quella dei credenti nella stessa fede? La solidarietà fondata sulla particolarità delle appartenenze genera spesso il suo contrario.

La carità non è sinonimo di solidarietà

La carità, anche quella sinonimo di amore universale, ricorda Ansuátegui Roig, si basa su un’asimmetria: è l’atto benevolo dall’alto va verso il basso; ha caratteri di spontaneità, di gratuità, ma pure di non obbligatorietà. Dura fino a quando colui che dona ritiene di farlo, si rivolge a chi il donatore ritiene più meritevole della sua carità, spesso secondo un criterio di vicinanza e prossimità. La carità non mira ad annullare le cause della diseguaglianza, ma ad alleviare le condizioni di quelli in stato di minorità e disagio. Presuppone e mantiene una società gerarchica, dove il ricco offre qualcosa del suo benessere al povero, semmai raccogliendo i soldi durante una serata di gala, fra un tramezzino al salmone ed un bicchiere di prosecco. La carità è la solidarietà dei tempi antichi, la giustizia sociale è la solidarietà dei tempi moderni.

Più sopra ricordavo che l’appartenenza ad una comunità, ad una società fondata su valori collettivi ma di parte, come può essere l’appartenenza politica o la condivisione di un credo religioso, non è sufficiente per creare una solidarietà vera. Il nazionalismo, lo statalismo e il fondamentalismo religioso non hanno prodotto solidarietà, ma riempito i secoli di guerre e la terra di tombe. Il concittadino e il correligionario rinviano sempre al non concittadino, al nemico, al non credente, all’infedele, all’eretico. I due piani, dell’appartenenza politica e religiosa, spesso si confondono e si esaltano, in senso negativo, a vicenda.

Per creare una solidarietà non effimera, non selettiva, non escludente gran parte dell’umanità, bisogna radicarla, fondarla su condizioni e valori che non siano di una parte, di un gruppo, di una religione o di una ideologia. Una solidarietà universale può esserci solo se ci si riconosce in qualcosa che accomuna ogni uomo, a prescindere da tutto il resto. Abbiamo bisogno degli altri e gli altri hanno bisogno di noi soprattutto per “la nostra vulnerabilità [che] è una condizione condivisa da tutti gli esseri umani che si presenta in modo graduale in funzione delle circostanze personali e sociali”, si legge sui CEFD.  La vulnerabilità si presenta “come condizione e come situazione” e sta pure ad indicare il maggiore o minore livello di inclusione in un gruppo. La vulnerabilità accompagna la condizione umana e quella sociale degli individui in modo costante. È legata all’età, alla condizione sociale, familiare, lavorativa, alla appartenenza ad un gruppo umano, alla condivisione di un credo religioso, alle circostanze ed agli eventi della vita. Tutte le età, dall’infanzia alla vecchiaia hanno dimensioni di vulnerabilità; la condizione umana è sinonimo di vulnerabilità, precarietà e finitezza. Chi ha un lavoro lo può perdere, il ricco può diventare povero, il sano malato, la sposa felice vedova ed il giovane e promettente studente può finire in una trincea. “La vulnerabilità genera fragilità” e quest’ultima ha bisogno dell’altro, del suo riconoscimento, della sua vicinanza, di solidarietà, appunto.

La solidarietà cristiana è ancora incompiuta

Qual è il maggiore ostacolo che ci impedisce di essere solidali?… il non riconoscere che l’altro è uno come noi e noi siamo come tanti altri, il non riconoscere la precarietà di ogni condizione umana, il non capire che in un mondo interconnesso è problematico, oltre ad essere ingiusto, mantenere uno status quo che vede il 20% della popolazione mondiale appropriarsi e godere dell’80% delle risorse disponibili. La principale barriera alla solidarietà è considerare l’altro un diverso, uno straniero, un potenziale nemico e in quanto tale sacrificabile, anche se si tratta di un bambino su un barcone alla deriva.

Tra pochi giorni ricorre l’evento della natalità di Gesù Cristo, che significa ricordare la sua venuta fra gli uomini e il suo messaggio. Gesù si rivolge a tutti, a prescindere dalle loro specificità, per annunciare la “buona novella”, cioè la possibilità di salvezza universale. Tutti sono considerati capaci d’ascolto, tutti degni di una vita piena e migliore. È questa un’alta forma di solidarietà verso ogni uomo ritenuto un soggetto senziente ed intelligente, ma pure potenzialmente portato al bene, in prima istanza a migliorare se stesso, attraverso l’amore e la condivisione con il prossimo, cioè l’altro uomo. Il percorso storico di questa religione, però, ha riproposto alcune delle ambiguità intrinseche al concetto di uguaglianza: l’altro uomo da amare è diventato il cristiano; il non cristiano era da amare solo ai fini della con-versione, di una possibilità di adesione; il non-cristiano fermo nel suo essere tale andava punito o comunque isolato; persino il cristiano non in linea con la dottrina cristiana, che nei vari contesti geografici e nei diversi momenti storici si imponeva, andava perseguito fino alla punizione estrema, la condanna capitale. I cristiani morti per mano di altri cristiani sono stati più di quelli morti per mano di non cristiani, se consideriamo le persecuzioni degli “eretici”, degli “scismatici”, degli “scomunicati”, dei “non ortodossi”, ecc.

 La solidarietà vera è quella che si esprime e si esercita verso il diverso, quello che ha una differente condizione, ideologia e religione, che ha abitudini diverse e stili di vita suoi propri. Non è un passaporto o un idioma a fare dell’altro “uno come me”, ma la sua umanità. A condizione che io la riconosca e, per farlo, occorre innanzitutto che io la abbia dentro di me.

Enrico Ferri, professore di Filosofia del Diritto all’Unicusano