“Aveva dodici anni, ma non mi prendete per un Girolimoni, a dodici anni quelle lì erano già donne”, disse Indro Montanelli in una storica intervista rilasciata al giornalista Enzo Biagi nel 1982. Il riferimento era alla ragazzina etiope che aveva sposato molti anni prima, nel 1935; per Girolimoni intendeva un “pedofilo”. Per capire perché usò quel cognome bisogna tornare indietro nel tempo e raccontare una storia fatta di ingiustizie e di errori, che rovinò per sempre la vita di un uomo innocente.
La storia di Gino Girolimoni
I rapimenti
Tutto inizia a Roma il 3 marzo del 1924. Emma Giacomini, di 4 anni e mezzo, sta giocando insieme ad altri bambini in un giardino pubblico nei pressi di piazza Cavour quando, all’improvviso, scompare. La tata la cerca dappertutto, urlando il suo nome, chiedendo in giro se l’abbiano vista, senza successo. Due ore più tardi, a pomeriggio inoltrato, una donna avvista la bambina in strada: è viva, ma sul suo corpo ci sono evidenti segni di violenza.
Dei testimoni riferiscono di averla vista in compagnia di un uomo di circa 45-50 anni, alto 1 metro e 70, con cappotto e cappello scuri. Si ipotizza che a metterlo in fuga siano state le urla della bambina. La notizia dalla stampa non viene neanche data: sono gli albori del fascismo, i giornalisti hanno altro a cui pensare.
A giugno però succede ancora. Bianca Carlieri ha 3 anni e 8 mesi e sta giocando davanti casa su via del Gonfalone, sul Lungotevere, quando un uomo vestito di grigio la avvicina e la convince a seguirlo. Della bambina si perdono le tracce. Il giorno successivo il suo cadavere viene trovato senza vita accanto alla Basilica di San Paolo. È stata strangolata. Anche sul suo corpo ci sono segni di violenza sessuale.
La voce questa volta gira: per il regime dare la notizia è un modo per distrarre l’opinione pubblica, oscurando il delitto Matteotti. In effetti ci riesce. La rabbia si diffonde. Ai funerali della piccola qualcuno grida: “Morte all’infame!”. Gli investigatori vogliono assicurare alla giustizia un colpevole. Così, poco dopo, arrestano un vetturino. Il direttore del dormitorio in cui passa le notti riesce a farlo scagionare: non è lui “il mostro”. Passano dei mesi. Il 24 novembre del 1924 l’uomo colpisce ancora.
Sette stupri e cinque omicidi
A sparire nel nulla dal porticato di San Pietro è Rosa Pelli, di appena 2 anni e mezzo. Il giorno dopo il suo corpo viene trovato da un fornaio in un campo alla Balduina. In sede di autopsia il medico-legale incaricato rileva sui suoi genitali “vaste lacerazioni”.
Sei mesi dopo, il 30 maggio 1925, Elsa Berni, di 2 anni, viene rapita mentre sta andando a prendere l’acqua a una fontanella vicino casa, nel rione Borgo. All’alba del giorno dopo, il 31 maggio, un netturbino la trova morta sulle sponde del Tevere, vicino Ponte Mazzini.
Neanche due mesi dopo, il 26 agosto, Celeste Tagliaferro, di un anno e mezzo, scompare dalla sua cameretta nei pressi di via Tuscolana. Il rapitore abusa di lei e prova a strangolarla usando il suo pannolino. Un passante sente le urla della bimba e la salva. Il 12 febbraio del 1926 un’altra viene rapita e riesce a scappare.
Si chiama Elvira Coletti, ha 6 anni. Non è l’ultima vittima di quello che i giornali hanno iniziato a chiamare “il mostro di Roma”. L’ultima è Armanda Leonardi, di 6 anni. Il 13 marzo 1927 il suo corpo viene trovato su un prato dell’Aventino: la sera prima la bambina era scomparsa nel nulla dal rione Ponte.
Le indagini: l’arresto di Gino Girolimoni
Il 9 maggio del 1927 l’Agenzia Stefani batte la notizia che tutti stavano aspettando: “Il mostro di Roma è stato preso”. Si tratta, secondo gli inquirenti, del 38enne Gino Girolimoni, fotografo di professione. L’uomo si dichiara fin da subito innocente e, in effetti, il suo volto e la sua statura non corrispondono a quelli delle testimonianze raccolte. Elementi che non bastano a scagionarlo. C’è bisogno di un colpevole, di un capro espiatorio, qualcuno che paghi per i brutali delitti commessi ai danni di sette bambine, di cui cinque uccise. Girolimoni quindi finisce in carcere a Regina Coeli. Sarà prosciolto “per non aver commesso il fatto” solo nel 1928.
I sospetti sul pastore anglicano Ralph Lyonel Brydges
Durante l’ingiusta detenzione del 38enne, il commissario Giuseppe Dosi, che aveva preso a cuore il caso, aveva continuato ad indagare, individuando nel pastore anglicano Ralph Lyonel Brydges il possibile colpevole dei delitti. Nella sua casa, nel corso di alcune perquisizioni, erano stati trovati diversi oggetti sospetti: non solo un taccuino che riportava i nomi dei luoghi delle sette sparizioni, ma anche una serie di fazzoletti bianchi in lino come quelli usati per strangolare le piccole vittime e dei ritagli di giornale su rapimenti avvenuti a Ginevra, in Germania e in Sud Africa. Il sospetto è, ancora oggi, che “il mostro” fosse lui, ma grazie alle pressioni diplomatiche britanniche l’uomo riuscì a non essere accusato.
Il film “Gino Girolimoni. Il mostro di Roma”
Il commissario Dosi, diventato un personaggio scomodo, fu rinchiuso in un manicomio criminale, venendo reintegrato in polizia solo dopo la caduta del fascismo. La sua storia e la storia di Girolimoni hanno ispirato il famoso film di Damiano Damiani con Nino Manfredi, uscito nel 1972.
Una storia di ingiustizie e di clamorosi errori giudiziari. Una storia figlia del clima fascista che l’Italia iniziava a respirare, che ha rovinato per sempre la vita e la reputazione di un uomo, morto a 61 anni senza un amico dopo aver perso tutto e da tutti ricordato per fatti di cui non ha colpa.
Ne hanno parlato Fabio Camillacci e Gabriele Raho insieme a Marino D’Amore, sociologo della comunicazione all’Unicusano e criminologo, in una puntata di “Crimini e Criminologia” andata in onda su Cusano Italia Tv. Nell’ultimo appuntamento con la rubrica “Storia del crimine” abbiamo ricostruito, invece, l’omicidio di Katy Skerl.