Il noto social cinese non è solo video divertenti e sfide a colpi di trend. O, almeno, non è l’uso che Alessio Maronn fa su TikTok. Sul suo canale spiega perché e come combattere patriarcato e come fare per riconoscere i segnali della mascolinità tossica. In esclusiva a TAG24 l’intervista al divulgatore e content creator romano.
Alession Maronn, la Polizia del Patriarcato su TikTok
A due settimane dal funerale di Giulia Cecchettin, la giovane 22enne padovana uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, altri casi di violenza sulle donne e femminicidi hanno macchiato le pagine di cronaca. Gli ultimi, quello di Vanessa Ballan, uccisa a 26 anni e incinta di 3 mesi e Iride Casciani, di 72 anni uccisa dal marito a martellate.
Impossibile chiudere gli occhi davanti a una brutalità simile. Ragazzi e ragazze, anche giovanissimi, non vogliono più stare in silenzio e in molti hanno cominciato a far sentire la propria voce per chiedere un cambiamento, per far sì che atti del genere non accadano mai più. Fra queste voci, direttamente da TikTok arriva Alession Maronn.
Come tutto è cominciato: dai video divertenti alla lotta al patriarcato
D: Mi racconti come è nato il tuo profilo su TikTok? Eri già intenzionato a farti portavoce contro il patriarcato o è venuto dopo questo desiderio?
R: In realtà è venuto dopo. All’inizio su TikTok facevo video divertenti. Poi, mi sono reso conto che esisteva sulla piattaforma una sorta di egemonia comunicativa che mi faceva schifo. Siccome mi faceva schifo vedere un solo tipo di narrazione e dato che nel corso degli anni avevo sviluppato la consapevolezza del fatto che ci fossero dei problemi sistemici, ho pensato di fare l’“amico” che non ho mai avuto da piccolo nei confronti dei ragazzini e dei più giovani. Voglio parlare a tutti quei ragazzi convinti di odiare il genere femminile perché convinti che le donne ce l’abbiano con loro.
D: Cosa ti ha permesso di fare questo scatto in più verso queste tematiche?
R: Beh, ho ascoltato prima la storia di mia madre, poi quella della mia ragazza e quelle delle mie amiche. Ho unito i puntini. L’aver dato per scontato che nessuna di loro avesse vissuto tutte quelle cose, quando in realtà per loro è una quotidianità, è stato un duro colpo. Da qui, ho iniziato a chiedermi se ci fosse un filo rosso e come fosse possibile che tutte loro avessero esperienze simili, se non identiche. Le dinamiche erano sempre le stesse: sopraffazione, violenza, potere. Però non è un passo che fai una volta, lo devi fare sempre, è un processo continuo.
D: A te è successo per caso o è stato qualcuno a parlarti?
R: La spinta è venuta dall’esterno, da mia madre. Io e lei parliamo molto spesso e di tanti argomenti. Una volta mi raccontò di una esperienza molto delicata, relativa a queste tematiche, di cui non mi aveva mai parlato e che mi aveva molto disgustato. Sentirsi raccontare un episodio di violenza da una persona molto vicina, è stato un colpo molto forte. Questo mi ha spinto a cominciare una sorta di indagine del fenomeno partendo dalle persone intorno a me. Purtroppo, non tutti gli uomini hanno la possibilità di parlarne o la volontà di farlo.
La tragedia di Giulia Cecchettin: la rabbia delle donne
D: Dalla tragedia di Giulia Cecchettin si è tornati a parlare di patriarcato. Nel marasma di voci e opinioni, spesso il genere maschile è stato accusato solo per essere “maschio”. Cosa ne pensi?
R: Più che accusato, direi che sia esplosa una certa rabbia sociale. Anche in maniera giustificata, direi, visto che a un certo punto ci si rompe di venire ammazzate. Quindi, ciò che è stato detto è: “Il problema deriva dai gruppi di uomini, quindi voi dovete fare qualcosa”. Penso che ci sia stato qualche errore di comunicazione sicuramente. Elena ha scoperchiato il vaso di Pandora, quando ha parlato in diretta. Non so come abbia fatto a essere così lucida e precisa, in realtà, perché si parla, non di colpevolezza giuridica ma di responsabilità sociale, che diventa colpa quando ti giri dall’altra parte. Secondo me il punto è questo. Se sei indifferente e pensi: “Il problema è vostro, risolvetevelo voi”, allora lì diventi colpevole. Perché è come se vedessi una violenza per strada e non intervenissi.
D: Però c’è molta confusione, molte donne hanno riversato su di voi tanta rabbia, mentre molti uomini hanno avuto reazioni contrastanti.
R: A livello personale, più che rabbia, ho sentito tanta esasperazione, che in maniera sicuramente rabbiosa, è arrivata come una richiesta d’aiuto. Non mi è arrivata sottoforma di “sei tu il colpevole”, ma come un “dovete fare qualcosa, pure tu che non hai mai fatto niente, perché noi abbiamo paura”. Personalmente l’ho vissuta come un modo per attivarmi ancora di più. La stessa cosa non posso dirla nei confronti della stragrande maggioranza degli uomini che l’hanno presa, secondo me, come un attacco totalmente personale. Si sono sentiti in qualche modo colpevolizzati di qualcosa. Il problema è proprio questo: nessuno sta automaticamente dicendo “tu maschio sei un potenziale stupratore o un potenziale femminicida”, ma da uomo “tu devi farti la domanda: c’è stato un momento della mia vita in cui ho avuto la possibilità di diventare Filippo Turetta?”.
Patriarcato, mascolinità tossica: “Chi parla male, pensa male”
D: Quando dici che bisogna chiedersi se ci sia mai stata una volta in cui saremmo potuti diventare Filippo Turetta, che intendi?
R: Intendo che Filippo Turetta non è nato così o che lo abbia deciso all’improvviso. Turetta ha fatto un percorso preciso, composto da una serie di comportamenti che la sua stessa famiglia reputava innocui. Come ad esempio, giustifichiamo il fatto di controllare il cellulare del partner o essere possessivi. Questo è tutto un preambolo, che poi ti porti a essere un femminicida al 100%? Certamente no, altrimenti avremo 28 mila femminicidi all’anno, ma prima di arrivare a questo ci sono tutta una serie di altri passaggi. Perciò, i discorsi da spogliatoio, la possessività, il controllare il telefono, il dire alla ragazza “no, non voglio che esci la sera con le tue amiche” o manipolarla dicendole “mi dispiacerebbe se tu uscissi vestita così” fanno parte di un insieme di comportamenti, di culture e di pensieri che creano, poi, la situazione adatta affinché Filippo Turetta abbia fatto quello che ha fatto.
La questione non è “Giulia poteva essere mia madre o mia sorella”, ma se “il mio amico che controllava il telefono alla ragazza poteva essere Filippo Turetta”. Secondo me non c’entra niente che un ragazzo non abbia mai fatto nulla, ma che non sia intervenuto quando l’amico metteva in atto tali comportamenti o faceva una battuta misogina a una ragazza. C’entra la connivenza che ha avuto quando l’amico ha fischiato per strada a una ragazza e hanno riso.
Questo, io credo, sia stato male interpretato. Quando Elena dice “tutti gli uomini devono fare un mea culpa”, ci sta poco da fare. Tutti noi maschi, almeno una volta nella vita, abbiamo fatto un discorso misogino. È da lì che sviluppi il pensiero. Chi parla male, pensa male. Se il tuo linguaggio è quello, automaticamente poni le basi affinché un certo tipo di pensiero misogino si depositi nel tuo retropensiero e rimanga lì sopito, finché un giorno esploderà e quando litigherai con la tua ragazza la chiamerai “puttana”.
“Not All Men, but all women”
Dal femminicidio di Giulia Cecchettin a quello di Vanessa Ballan, il tema che si ripete è sempre lo stesso: “Non siamo tutti così”. Purtroppo, i problemi comunicativi hanno travisato e frainteso questa frase. Alession Maronn su TikTok e Instagram parla ai ragazzi.
D: “È solo una battuta”, uno scherzo, ma in realtà è molto più di così. Certo, la frase “not all men” forse riassume bene il modo di pensare attuale di molte persone.
R: Per quanto mi riguarda, coprire con il velo sottile dello scherzo e dell’ironia non significa nulla. È come se ti dessi uno schiaffo e siccome dico che è per scherzo, allora mi devi perdonare. Lo scherzo nasconde un fondo di verità in quello che si dice. È un auto-assolversi da una responsabilità precisa. Modi di dire fanno parte del linguaggio e hanno un effetto fintanto che il linguaggio rimarrà questo. Non voglio avere paura per la mia ragazza quando esce, quando va a lavoro. Non si può vivere con la costante sensazione di pericolo a prescindere dall’ambiente in cui ci si trova.
È assurdo vedere anche il continuo “not all men”, però, poi siamo i primi che diciamo alla nostra ragazza o a nostra figlia “non uscire con quel gruppo di maschietti, perché io so come sono fatti gli uomini”. Facciamo gaslighting tutta la vita alle donne dicendo “no, non ti fidare degli uomini perché io so come sono fatti. Pensano soltanto al sesso” e poi ci nascondiamo dietro al “non siamo tutti così”. Per tutta la vita tu hai cercato di convincere tua figlia a non fidarsi degli uomini perché doveva stare attenta e doveva tutelarsi, poi lei lo fa, sviluppa il pensiero che tu le hai indotto ad avere e poi ti sorprendi se lei dice “sono sicura che non siano tutti gli uomini, ma devo stare attenta perché potenzialmente potrebbe essere chiunque”.
Nessuno si è mai chiesto come mai le donne abbiano paura. Hanno paura perché per tutta la loro vita e, probabilmente, per tutta la loro giornata vivono situazioni di oppressione sistemica. Quindi, non si sa mai chi possa essere una brava persona o meno. Inoltre, avendo una fisicità diversa da quella di una donna, quest’ultima è messa automaticamente in una posizione di svantaggio, di pericolo.
Come riconoscere la mascolinità tossica
D: Come fare per riconoscere i segnali di questa mascolinità tossica e del patriarcato, dato che tanti non li riconoscono?
R: È proprio l’arroganza il punto focale. Una donna severa sul luogo di lavoro è arrogante, un uomo che sul luogo di lavoro è severo è un uomo che sa fare il suo lavoro. In un uomo si scambia l’arroganza per sicurezza in se stesso. Se una donna è arrogante è una vipera, eventualmente mestruata, o stronza. Il primo passo per comprendere ancora di più la tossicità, è fermarsi e ascoltare le donne accanto a noi. Il secondo è capire che certi comportamenti come l’essere sprezzanti, arroganti anche nell’esprimere le cose, con una sorta di aggressività di fondo, è diffusa in molti uomini. Terzo, il fatto di argomentare un caso di femminicidio parlando dei suicidi maschili.
Questo mi fa pensare due cose: la prima che non ti importa della vittima in questione e che vuoi sminuire quel problema presentandone un altro, puntando i riflettori su una cosa che non c’entra. La seconda è che a te non importa nemmeno dei suicidi maschili perché li strumentalizzi e non ti chiedi come mai siano così alti. Se te lo chiedessi, probabilmente, troveresti la stessa risposta che le donne gridano da anni: sono la mascolinità tossica e il patriarcato il problema.
Gli stessi che hanno inculcato a noi uomini che dobbiamo imbottigliare le emozioni, che non dobbiamo parlarne o chiedere aiuto a nessuno, che ci hanno convinto che aprirci ai sentimenti è da fichette o da gay. Piangere è da donne, perciò l’uomo imbottiglia tutto e poi scoppia: o si suicida o, come negli USA, fa le stragi, o uccide la propria famiglia prima di togliersi la vita. Molti di quelli che predicano che il patriarcato non esiste più perché la famiglia tradizionale non esiste più si sbagliano, perché il sistema di valori è rimasto lo stesso. Purtroppo, certe persone non capiranno mai tutto questo, finché non succederà a una loro persona cara.