È attesa per domani sera la sentenza di primo grado del processo per l’omicidio di Saman Abbas, la 18enne di origine pakistana uccisa a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021: per i genitori, il padre Shabbar e la madre Nazia, attualmente ricercata, è stato chiesto l’ergastolo; per lo zio Danish e i due cugini Noumanoulaq Noumanoulaq e Ikram Ijaz rispettivamente 30 e 26 anni di reclusione.
Omicidio Saman Abbas, chiesto l’ergastolo per i genitori e il ricalcolo della pena per gli altri parenti a processo
Secondo la pubblica accusa, i cinque familiari di Saman finiti a processo l’avrebbero attratta in una trappola e poi strangolata, nascondendone il corpo in una fossa scavata in almeno sei momenti diversi, perché si era rifiutata di sposare l’uomo che avevano scelto per lei e che in cambio avrebbe dato loro una somma di circa 15 mila euro.
Fondamentale per ricostruire la dinamica del delitto ed incastrare i presunti responsabili è stata la testimonianza del fratello della 18enne, ascoltato come super testimone in aula nonostante le minacce e le pressioni ricevute dal Pakistan per non parlare.
Il ragazzo, assistito dall’avvocato Valeria Miari, ha infatti raccontato ai giudici della Corte d’Assise di Reggio Emilia di aver sentito il padre Shabbar pronunciare la parola “scavare”, chiedendo poi ai suoi cugini e allo zio di fare attenzione alle videocamere, di “passarci dietro”, per non essere ripresi. La sorella sarebbe morta poco dopo.
Lui dall’uscio del portone avrebbe visto la scena cardine di quella serata: lo zio Danish che afferra per il collo la giovane Saman, portandola dietro a una serra insieme ai cugini. Una versione dei fatti che è sempre stata rinnegata dalla difesa degli imputati, secondo cui a causa dell’ora buia e della scarsa illuminazione presente davanti all’abitazione di famiglia, il ragazzo non avrebbe potuto riconoscere i volti delle persone che aggredirono la sorella.
Le dichiarazioni rilasciate dal fratello di Saman, super testimone in aula
Nelle scorse settimane la Corte aveva messo in dubbio l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese da Alì, all’epoca dei fatti minorenne. Secondo i giudici, infatti, la Procura le avrebbe raccolte seguendo una procedura “sbagliata” e cioè non iscrivendo il giovane nel registro degli indagati, come invece sarebbe dovuto accadere.
Alla fine si era era comunque deciso di fargli mantenere lo status di super testimone. Nel processo ha avuto un ruolo fondamentale. È stato lui a raccontare anche delle liti intercorse tra Saman e il padre dopo la scoperta, sul cellulare della giovane, di una serie di chat scambiate con il fidanzato, Saqib Ayub, mal sopportato dalla famiglia. Il movente, insomma.
Il movente del delitto
Saman si opponeva a Shabbar e alla madre: voleva vestire all’occidentale, frequentare il ragazzo di cui si era innamorata e non il cugino che avevano scelto per lei e che avrebbe dovuto raggiungere in Pakistan. Con Ayub era anche scappata di casa. Poi i familiari l’avevano convinta a tornare, dicendole che avrebbero accettato ogni sua scelta.
Era una trappola. Allora, infatti, la fossa in cui fu trovata cadavere a qualche mese dalla sua scomparsa era già pronta. E pronto era anche il piano per toglierle la vita. Ora i suoi genitori rischiano l’ergastolo. Per lo zio Danish e i due cugini a processo la Procura ha invece chiesto il riconoscimento delle attenuanti generiche.
Il primo permise il ritrovamento del corpo della 18enne; gli altri due sarebbero stati succubi di lui, meri esecutori materiali dei suoi ordini. Le pene nei loro confronti dovranno quindi essere ricalcolate. Domani, 19 dicembre, la sentenza finale.