La privacy rappresenta uno dei presupposti su cui si fondano le criptovalute. Come tale è indicata all’interno dell’ormai celebre white paper di Satoshi Nakamoto, insieme alla decentralizzazione e all’inclusione finanziaria.

Non stupisce quindi eccessivamente il continuo lavoro condotto nel corso degli anni dagli sviluppatori, teso a cercare meccanismi sempre più performanti in tal senso. Con un corollario del tutto particolare, come quello rappresentato dalle privacy coin, le monete virtuali che si propongono di spingere la riservatezza ai confini con l’anonimato, e oltre.

Tra le soluzioni che si sono rivelate più performanti in assoluto, una menzione di merito spetta alla Zero Knowledge Proof (ZKP). Andiamo a osservarla più da vicino per cercare di capirla meglio.

Zero Knowledge Proof: di cosa si tratta

La Zero Knowledge Proof è una tecnologia crittografica concepita al fine di andare a verificare la veridicità di un’informazione senza doverla svelare. Dopo il suo varo si è trasformata in una soluzione sempre più presente nell’ecosistema blockchain, delle criptovalute e della finanza decentralizzata (DeFi). A spingerne l’adozione è la capacità di migliorare i profili di privacy e sicurezza delle applicazioni cui viene associata. 

In effetti sono già molti i progetti di finanza decentralizzata che stanno già utilizzando le ZKP al fine di garantire ai propri utenti le caratteristiche di cui è accreditata per una lunga serie di servizi come i prestiti, i mutui e il trading.

Alcune blockchain di livello 1 stanno aggiungendo roll-up o zkEVM basati su di essa. Secondo molti esperti di settore le dimostrazioni a conoscenza zero sono destinate a rivestire un ruolo sempre più cruciale nel mondo delle blockchain e del Web3, in quanto le loro applicazioni saranno via via sempre più diffuse.

Come funziona la Zero Knowledge Proof?

Il funzionamento della dimostrazione a conoscenza zero prevede un processo in cui una controparte (prover) è in grado di evidenziare a un’altra (verifier) la veridicità di un’affermazione senza dover rivelare alcuna informazione aggiuntiva. Il metodo in questione si rivela particolarmente utile nel caso in cui si tratti di dati sensibili di cui un utente non intende concedere l’accesso.

Il prover, in pratica, fornisce una prova matematica che soltanto lui è in grado di conoscere e generare. Una volta appresa tale informazione, il verifier può utilizzarla in modo tale da verificarne concretamente l’attendibilità. Al tempo stesso, non è in grado di usarla per individuare e ricostruire quella da cui ha tratto origine.

Questo genere di meccanismo è usato molto in ambito blockchain, ad esempio nelle privacy coin. Il maggior esponente in tal senso è Zcash, che utilizza lo Zero Knowledge Proof per transazioni in cui gli importi, e gli indirizzi del mittente e del destinatario, sono oscurati dalla blockchain pubblica.

I motivi della sua importanza

La popolarità delle zero knowledge proof in ambito blockchain e, in particolare, nella criptoeconomia, è da individuare nel fatto che la domanda di privacy continua a crescere. Una domanda che è sempre più pressante nel settore delle transazioni digitali, ove sono in gioco dati sensibili che non devono essere facilmente accessibili ad estranei.

Al tempo stesso, i meccanismi che consentono di celare questi dati devono risultare attendibili. Il modo migliore per farlo, contemperando le due esigenze è appunto stato individuato in questa soluzione, che permette di verificare le transazioni senza dover rendere pubbliche informazioni sensibili.

Le ZKP hanno attirato un’attenzione e un interesse sempre maggiori, per ovvi motivi. Basti pensare che nel corso della conferenza DevCon del 2022 è stato rivelato come oltre il 20% di tutti gli interventi che l’hanno caratterizzata vertevano su questa tecnologia. Un dato che, presumibilmente, è destinato ad aumentare nell’immediato futuro.

Alcuni limiti della ZKP

Sin qui abbiamo visto i pregi delle Zero Knowledge Proof. Naturalmente, però, trattandosi di una novità, si tratta di meccanismi i quali evidenziano alcuni limiti, almeno per ora. Se, infatti, sono in grado di dare vita ad un metodo in grado di mixare veridicità delle informazioni e elevati livelli di privacy, al tempo stesso non garantiscono gli utenti al 100%.

Secondo gli esperti, la probabilità che il fornitore delle informazioni stia mentendo sarebbe trascurabile, ma non può essere esclusa in linea di principio.

Al tempo stesso, l’utilizzo di questo genere di algoritmi nel corso delle dimostrazioni obbliga a fare ricorso a grandi risorse computazionali. Un ricorso il quale è del resto reso obbligatorio dal numero elevato di interazioni tra le controparti. Proprio questa necessità potrebbe limitarne il campo di applicazione nell’immediato futuro.