Il Don Carlo (all’origine Don Carlos) è un’opera di Giuseppe Verdi, basata sulla famosa tragedia omonima di Friedrich Schiller e con un libretto redatto da Joseph Méry e Camille du Locle. Alcune scene dell’opera sono state ispirate al dramma “Philippe II, Roi d’Espagne” di Eugène Cormon. Nel 1864, Verdi ricevette l’incarico di comporre un nuovo Grand-Opéra mentre si trovava a Parigi e nell’estate del 1865 ricevette il testo musicale. Nel corso degli anni, Don Carlo subì diverse modifiche, con tre versioni principali, una delle quali ridusse il numero degli atti da cinque a quattro.
“Don Carlo” di Verdi: riassunto libretto
Il “Don Carlo” di Verdi si svolge tra Francia e Spagna nel 1560.
Atto primo
- Parte prima All’interno del recinto del monastero di San Giusto, un monaco invoca la divinità di fronte alla tomba di Carlo V mentre Don Carlo, infante di Spagna, ripensa al primo incontro con l’amata Elisabetta di Valois, ora moglie di suo padre Filippo II e sovrana di Spagna (Aria: “Ho incontrato lei e il suo sorriso”). Quando appare Rodrigo, marchese di Posa, tornato dalle Fiandre con notizie sulla ribellione nella regione, Carlo è colmo di gioia. Condivide con l’amico i propri sentimenti per Elisabetta e Rodrigo lo incoraggia a dimenticare le sue angosce, partendo per le Fiandre per aiutare nella lotta contro le persecuzioni religiose. Dopo l’incontro, Carlo e Rodrigo si promettono amicizia fraterna, mentre il sovrano e la regina attraversano il chiostro per entrare nel monastero (Duetto: “Dio, infondi nella nostra anima”).
- Parte seconda In un sito incantevole alle porte del chiostro di San Giusto, le dame di corte aspettano la regina, mentre la principessa d’Eboli canta accompagnata dal paggio Tebaldo (Aria: “Nel giardino del bello”). All’arrivo di Elisabetta, incontra il marchese di Posa, che le consegna una lettera dalla madre e, segretamente, un biglietto di Carlo che la prega di affidarsi a Rodrigo. Quest’ultimo la esorta a incontrare il figlio e a supplicarlo davanti al re (Aria: “Carlo, che è solo”). Eboli, a sua volta, pensa di aver riconosciuto nell’agitazione di Carlo, che segretamente ama, un segno del suo amore. Quando Carlo viene presentato alla regina, chiede a Elisabetta di intercedere presso il re per permettergli di partire per le Fiandre. Ma il dialogo si trasforma presto in una dichiarazione d’amore, interrotta da Elisabetta che ricorda a Carlo l’impossibilità della loro unione (Duetto: “Perduto ben, mio unico tesoro”). Disperato, Carlo si allontana mentre la regina, rimasta sola, implora l’aiuto divino. Il re appare e, trovando la consorte senza il suo seguito, esilia la contessa d’Aremberg per essersi allontanata dalla regina. L’addio della dama è accompagnato dalle dolci parole di Elisabetta (Aria: “Non piangere, mia compagna”). Filippo ordina a Rodrigo di restare con lui. Rimasti soli, Rodrigo racconta al sovrano la difficile situazione delle Fiandre e gli chiede di concedere l’autonomia a quei territori. Il re non accetta la richiesta ma, dopo aver ricordato a Rodrigo il potere del grande inquisitore, rivela le proprie pene: è consapevole del legame tra Carlo ed Elisabetta e incarica Rodrigo di sorvegliare la giovane coppia. Il marchese accetta la proposta del re che lo congeda, avvertendolo nuovamente sul grande inquisitore (Duetto: “O signore, sono tornato dalle Fiandre”).
Atto secondo
- Parte prima Nei giardini della regina a Madrid, durante il ballo della regina, Elisabetta, stanca, chiede a Eboli di sostituirla, indossando il suo mantello, i gioielli e la maschera. Eboli, travestita da regina, fa consegnare a Carlo un biglietto amoroso. Ingannato dal biglietto che lo invita a un incontro notturno, Carlo si prepara a un appuntamento romantico con Elisabetta. Ma compare la principessa d’Eboli, con il volto coperto da un velo, a cui dichiara il suo amore (Duetto: “Sei tu, bellissima adorata”). Quando Carlo si rende conto dell’errore, non riesce a nascondere il suo stupore. Eboli capisce il legame segreto tra Carlo e la regina e, folle di gelosia, giura vendetta. Rodrigo interviene cercando di giustificare l’amico e minaccia di uccidere Eboli per farla tacere (Terzetto: “Al mio furor sfuggite invano”). L’intervento del marchese di Posa è inutile, ma alla fine consegna i documenti delle Fiandre che erano in suo possesso.
- Parte seconda Una grande piazza di fronte a Nostra Signora di Atocha. Il popolo canta la propria gioia, mentre i frati portano al rogo coloro condannati dal Santo Uffizio (Coro: “È spuntato il giorno di gioia”). Dopo l’ingresso della corte, un gruppo di fiamminghi, guidato da Carlo, si prostra di fronte al sovrano chiedendo giustizia per la loro patria. Filippo rifiuta di ascoltarli e ordina di allontanare i ribelli (Concertato: “Sire, no, l’ora è giunta”). Carlo, quindi, dopo aver chiesto invano al padre il permesso di andare nelle Fiandre, sguaina la spada e si schiera al fianco del popolo fiammingo. Il re reagisce ordinando di disarmare il figlio, che nessuno osa avvicinare. Solo l’intervento di Rodrigo evita uno scontro diretto: lui toglie la spada all’infante e la consegna al re. Il corteo prosegue per assistere all’esecuzione degli eretici mentre una voce dal cielo invoca la pace eterna.
Atto terzo
- Parte prima Nel gabinetto del re a Madrid, Filippo riflette sulle difficoltà della vita di un sovrano (Aria: “Resterò solo nel mio mantello reale”). Chiede anche una punizione per il figlio al grande inquisitore, che propone invece una condanna per Rodrigo, colpevole della ribellione di Carlo. Ma il sovrano si oppone a tale risoluzione e, dopo un duro confronto, resta solo. Elisabetta arriva e denuncia la scomparsa di uno scrigno consegnato, senza il suo sapere, dalla principessa d’Eboli al re, che contiene un ritratto di Carlo. Nonostante la regina proclami la propria onestà, il re la accusa di adulterio. Eboli, tormentata dai rimorsi, e Rodrigo, che capisce di poter salvare Carlo solo sacrificando la propria vita (Quartetto: “Ah! Sii maledetto, sospetto fatale”). La principessa ammette le sue colpe alla regina, che le ordina di lasciare la corte. Eboli rimpiange il potere distruttivo della sua bellezza e si impegna a proteggere Carlo dal pericolo (Aria: “O destino fatale, o crudele dono”).
- Parte seconda Nella prigione di Don Carlo, Rodrigo annuncia a Carlo, imprigionato dal padre, che presto sarà libero: per scagionarlo da ogni colpa, si è autoaccusato dei documenti che l’infante gli aveva dato (Aria: “Il giorno supremo è arrivato per me”). Un colpo di archibugio colpisce Rodrigo alle spalle. Morendo, annuncia a Carlo un prossimo incontro con Elisabetta nel convento di San Giusto e gli affida la causa fiamminga. Filippo, giunto nel carcere per liberare il figlio, viene accusato da Carlo dell’omicidio di Rodrigo. Carlo aggiunge che Rodrigo si è sacrificato per lui. Anche Filippo piange la morte dell’amico, rimpiangendone la nobiltà d’animo, mentre gli astanti sono indignati per gli orrori del regno di Spagna. Il popolo, acclamando l’infante, invade la prigione. Solo l’improvvisa apparizione del grande inquisitore riesce a placare la rabbia del popolo, che si inginocchia di fronte al sovrano.
Atto quarto
Nel chiostro del convento di San Giusto, Elisabetta ricorda i momenti felici della sua giovinezza e il suo amore per Carlo (Aria: “Tu che hai conosciuto le vanità del mondo”). Di nuovo insieme, i due amanti si danno l’ultimo addio: l’infante lascerà la Spagna per andare nelle Fiandre a combattere per la libertà (Duetto: “Ma lassù ci incontreremo”). Ma il congedo è interrotto dall’arrivo di Filippo, del grande inquisitore e delle guardie del Santo Uffizio. Quando Carlo sta per essere arrestato, appare Carlo V che, tra il terrore dei presenti, afferra il nipote e lo trascina via.
Arie celebri
Posa visita Don Carlo nel monastero – il famoso duetto “Dio, che nell’alma infondere”
Nel convento, Don Carlo, tormentato dal dolore per la perdita di Elisabetta, cerca la pace interiore. Inaspettatamente, una voce familiare lo raggiunge: il suo amico Posa è tornato dalle Fiandre e lo visita. Posa, venuto a conoscenza del destino di Don Carlo, lo persuade a dedicare la sua vita alla lotta nelle Fiandre, soffocate dall’Inquisizione. Don Carlo accoglie con entusiasmo l’idea e i due si giurano un’amicizia eterna.
Insieme, sognano un mondo migliore, dove l’intelletto e l’umanità prevalgano. Verdi e Schiller dipingono con Don Carlo e soprattutto con il Marchese di Posa due figure ideali di esseri umani, forse mai esistiti in quel modo. Il loro inno, citato più volte nell’opera, diviene un leitmotiv simbolo di libertà e amicizia.
In questa scena, ascoltiamo una registrazione di Robert Merrill e Jussi Björling, la coppia di tenori dei sogni degli anni ’50. Questi due artisti collaborarono in numerose produzioni e la loro connessione vocale era eccezionale, poche furono le collaborazioni vocali, prima e dopo, che potessero competere con quella tra il tenore svedese e quello americano. Non solo erano straordinari colleghi, ma erano anche amici intimi, rendendo questa scena uno dei momenti più celebri della loro coppia.
La solitudine del re – “ella giammai m’amò”
Nello studio del re, l’aurora svela timidamente il giorno mentre il sovrano è seduto alla tavola, pervaso da una disperazione profonda. L’angoscia per il suo regno e la consapevolezza che Elisabetta non abbia mai ricambiato il suo affetto lo tormentano intensamente. Il protagonista di questa aria di Philipp è intriso di malinconia. L’orchestra introduce con delicatezza il brano.
Un violoncello solitario suona in solitudine e tristezza, riflettendo lo stato d’animo del re. I sospiri dei violini completano questo quadro musicale, intensificando il dolore. Sopra gli archi tremolanti, si percepisce il lamento di Filippo, inizia con il drammatico “non mi ha mai amato!”, suonato intorno e accompagnato dal violoncello solista. Questa aria rappresenta uno dei momenti più pregiati del repertorio operistico per la voce di basso. È uno di quegli istanti iconici in cui un accompagnamento orchestrale sobrio, una semplice recitazione e un’unica espressione melodica riescono a scolpire l’emozione nei cuori degli ascoltatori (cit. Abbate/Parker, “History of Opera”).
Boris Christoff è stato il basso preferito degli anni ’50 per il ruolo di Filippo. Il suo basso era nobile e morbido, ma con un’intensità drammatica straordinaria. La sua performance era eccezionale, tratteggiando in modo maestoso il ritratto di Filippo II. Ascoltiamo e vediamo questo notevole interprete bulgaro in una registrazione memorabile.
La grande aria di Elisabetta – la rinuncia “Francia nobile suol”
Nel monastero di San Giusto, Elisabetta si prepara a dire addio a Don Carlo. Si inginocchia davanti alla tomba di Carlo V e, in un momento di malinconia e desiderio di morte, ripensa alla sua gioventù felice in Francia.
Questa resa finale di Elisabetta richiede uno sforzo considerevole, poiché deve comunicare una gamma di emozioni: grandezza, sofferenza e un senso di fine, mantenendo un lungo arco di tensione per più di 10 minuti. L’aria inizia con un lungo preludio orchestrale in tonalità minore, rivelando le preoccupazioni di Elisabetta per Carlo. Tuttavia, la ragione di stato le richiede di trovare la forza e, così facendo, lei ripensa ai pochi momenti belli con Carlo e l’atmosfera cambia in tonalità maggiore con il tema del loro amore.
Ascoltiamo questa straordinaria esecuzione in due versioni. I due critici influenti, Kesting e Steane, non erano concordi su chi avesse eseguito la versione “definitiva”. Il primo ha elogiato la Callas, mentre il secondo ha preferito la Caballé.
Cominciamo con la registrazione integrale di Giulini con la voce di Caballé. Fischer, un noto critico, ha affermato: “In questa registrazione troviamo tutto ciò che ha persuaso Steane nel suo entusiastico giudizio: la bellezza pura del timbro vocale di Caballé che, seppur leggermente eclissata rispetto alla Callas sul palcoscenico, supera persino il tono spesso di Joan Sutherland. La chiarezza malinconica di questo soprano, la nitidezza tipica delle regioni spagnole… il suo canto, delicato e uniforme, si trasforma in un diminuendo costante, scomparendo lentamente verso la fine.