In un saggio dal titolo “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte”, scritto nella primavera del 1915, sei mesi dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, Sigmund Freud esprime a chiare lettere la delusione sua e di molti altri intellettuali del suo tempo: “La guerra a cui non volevamo credere è scoppiata e ci ha portato… la delusione”. I motivi di questo rammarico sono spiegati in questi termini: “Dalle grandi nazioni di razza bianca dominatrici del mondo [primato della ‘razza’ europea?], nelle cui mani è affidata la guida del genere umano [presa d’atto dell’imperialismo europeo?], che si sapevano intente a perseguire interessi estendentisi al mondo intero [primato degli ‘interessi’ dell’Europa sul resto del mondo?] e a cui erano dovuti i progressi tecnici per il dominio della natura, oltre a tanti altri valori culturali, artistici e scientifici [giustificazione del primato politico dell’Europa?], da questi popoli almeno [ per popoli meno acculturati sarebbe stato accettabile?] era legittimo attendersi che giungessero a risolvere per altre vie i loro malintesi e i loro contrasti d’interesse”.
Questo passaggio, da solo, meriterebbe di essere commentato in un corso universitario, per una serie di pregiudizi che emergono e che io ho sottolineato con un icastico commento a margine, pregiudizi che potremmo riassumere come razzismo e imperialismo. Anche ad uno spirito illuminato come Freud, non reca scandalo la guerra in sé, ad esempio le guerre coloniali, ma il fatto che la guerra sia scoppiata fra “le grandi nazioni di razza bianca dominatrici del mondo”, fra nazioni come la Germania e la Francia, l’Inghilterra e l’Austria. Ci si sarebbe aspettato che queste nazioni antesignane della Civiltà e del Diritto, avessero risolto per altre vie, ad esempio con la diplomazia e il diritto, il compromesso e la ragione, i loro contrasti.
Due tipi di guerre: quelle in Europa e le altre
Questo atteggiamento non ci deve meravigliare affatto: è quello che noi “Grandi nazioni di razza bianca” continuiamo costantemente a tenere. In cosa consiste? Nel considerare degno d’attenzione, guerre comprese, solo ciò che ci riguarda e ci coinvolge in prima persona. Questo spiega anche il rinato interesse, a livello di riflessione e ricerca politico-filosofica, per tematiche che riguardano la guerra ed il conflitto.
Lo scorso settembre, nell’undicesima edizione della Scuola Estiva Arpinate, proprio sul tema de “La guerra nell’Europa del XXI° secolo”, l’amico e collega Alberto Scerbo faceva notare che la guerra in corso fra Ucraina e Federazione russa ci coinvolge in modo particolare non tanto perché in Europa ci sia di nuovo un conflitto, evento verificatosi già nella ex Jugoslavia, ma perché tale evento stimola la nostra sensibilità e le nostre paure più di altri. A differenza di guerre, si potrebbe aggiungere, scatenate a decine nel corso dell’ultimo secolo in vari continenti e che spesso hanno visto alle loro origini proprio le “Grandi nazioni di razza bianca”.
Fra gli studi recentemente apparsi sul tema della guerra, è meritevole d’attenzione quello di Alberto Andronico, noto Filosofo del Diritto, dell’Università di Catania, che porta un titolo apparentemente curioso, “Protect me from what I want”, alla lettera: “Proteggimi da ciò che voglio”. Il testo di Andronico è una riflessione sulla guerra, ma anche su ciò che sta alla base della “pulsione aggressiva” dell’uomo, considerando che “la guerra è una delle principali manifestazioni della pulsione di morte”. Andronico svolge la sua analisi a partire da un celebre carteggio, quello fra Einstein e Freud, che prende lo spunto da una lettera del primo, in data 30 luglio 1932, in cui pone la questione cruciale: “Poiché l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere?”. Nel settembre dello stesso anno Freud risponde con un lungo testo nel quale riassume le sue riflessioni sul tema, elaborate soprattutto in un saggio del 1929, “Das Unbehangen in der Kultur”, che alla lettera si potrebbe tradurre “Il disagio (dell’uomo) nella Civiltà”.
Il nazionalismo una delle cause della guerra
Parlare della guerra, però, significa allo stesso tempo affrontare la questione del diritto e della politica, ma discutere pure di antropologia e psicologia, a partire dal dato elementare che la guerra la fanno gli uomini, individui organizzati in società, stati, imperi, ecc. Il Collega di Catania non si sottrae a questa evidenza ed affronta in modo chiaro alcune questioni fondamentali come quella della sovranità, della rivendicazione dei singoli stati di avere un potere assoluto nei propri affari, anche quando questi ultimi coinvolgono altri stati. Attitudine di chi, per usare una nota formula, Superiorem non recognoscens, di chi non riconosce niente e nessuno a sé superiore. Al contrario, si potrà risolvere la questione della guerra, ricorda Andronico, “ Quando gli stati saranno disposti a limitare (cedere) la loro sovranità, riconoscendo l’esistenza di un potere superiore al loro”. Questa mancata limitazione/cessione della sovranità sta anche alla base degli attuali conflitti in Ucraina e a Gaza. A questa rivendicazione di sovranità esclusiva ed illimitata degli stati si combina quello che con l’Autore possiamo definire “un meccanismo paranoico di attivazione della colpa”: “l’altro”, il nemico, diviene il simbolo stesso del male e la sua sola presenza un indice di minaccia mortale. La colpevolizzazione dell’altro, del “nemico”, procede in parallelo alla nostra de-responsabilizzazione: tutto è permesso a chi si difende, a chi sta dalla parte del bene.
Le dinamiche della guerra: colpevolizzazione dell’altro ed autoassoluzione
È quanto sta avvenendo nei due conflitti in corso in Europa e in Palestina. Il non rispetto del Trattato di Minsk, come degli accordi fra l’URSS di Gorbaciov e la Nato, stanno all’origine della guerra in corso. In Palestina la situazione è più complessa, Il risultato di tre guerre perse dagli Arabi, territori palestinesi occupati e “colonizzati”, risoluzioni dell’ONU disattese. In questi giorni assistiamo ad una guerra anomala fatta di attacchi terroristici da una parte e bombardamenti (anche) su civili, ospedali e scuole dall’altra. In nome della lotta ai “terroristi di Hamas” sembra che tutto possa giustificarsi, per quel meccanismo di colpevolizzazione del nemico (in questo caso un intero popolo) di cui si parlava più sopra.
Ma torniamo alla questione di partenza, alla domanda di Einstein a Freud: “Perché gli uomini sono incapaci di vivere senza la guerra”? Questione che da una prospettiva antropologica potrebbe riformularsi in questi termini: “L’uomo è un essere socievole o un soggetto aggressivo?”. La risposta di Freud è sintetizzata da Andronico in questi termini: “Tendiamo ad unirci e tendiamo a dividerci. Tendiamo a vivere con gli altri e tendiamo ad ucciderli”. È la cosiddetta ambivalenza pulsionale o emotiva: nell’uomo sono presenti tanto pulsioni “erotiche”, cioè atteggiamenti e tendenze “socievoli”, aggreganti ed altruistiche, quanto “moti pulsioni” legati a Thanatos, alla morte: tendenze aggressive, antisociali, “egoistiche”. Altrimenti detto, comportamenti che favoriscono la pace e la convivenza ed altri, all’opposto, che creano conflitti e guerra.
Ambivalenza emotiva e naturalezza dell’aggressività
La storia dell’umanità e degli individui è un costante riproporsi di questi due scenari: pace e guerra, Eros e Thanatos, socialità e conflitto. Potremmo dire che la pulsione più originaria, se la sintassi ci permettesse tale espressione, è quella egoistica ed aggressiva, ma come insegna Hegel, l’uomo ha una duplice natura e la seconda natura si chiama Cultura, dimensione che è indice di razionalità, scienza, tecnica, arte e quant’altro. Un insieme di fattori che potremmo definire “ Civiltà”.
La Civiltà è il regno del diritto e dell’educazione alla convivenza, dovrebbe essere la condizione che favorisce la pace. Ma è così? Solo in parte: consideriamo ad esempio tutte le guerre di conquista, antiche e moderne, fatte in nome della (esportazione) della Civiltà e della Pace, ipocrita programma ideologico di tutti gli imperialismi, antichi e moderni: “là dove hanno fatto il deserto, dicono di aver portato la pace”, dice Calgato principe Caledone, nella celebre sentenza riportata da Tacito nell’ “Agricola”, testo in cui si ricorda anche come la Civiltà degli uni a volte sia la Servitù degli altri. Calgato è un Britanno, delle Highlands, l’attuale Scozia, un antenato di quel popolo imperialista come pochi, che ha portato la “sua” Civiltà in quattro Continenti.
Ma la Civiltà, anche sul piano delle esistenze private, a volte si mostra inadeguata, provoca una condizione di “disagio”, come ricorda Freud. Perché? La Civiltà attraverso l’educazione, il diritto, la religione e il controllo sociale imbriglia ai fini della convivenza i primordiali impulsi aggressivi, cioè una componente vitale e primordiale della psiche umana. In tal modo crea disagio ed insofferenza e infatti se viene meno la censura sociale sull’aggressività individuale, come accade in guerra, l’uomo torna senza remore ad aggredire ed uccidere.
“Non c’è speranza nel voler sopprimere le tendenze aggressive degli uomini”, questa è la drammatica risposta di Freud alla questione posta da Einstein. Come dire: “Non c’è speranza di vivere senza guerra”. Dobbiamo rassegnarci a convivere con la guerra, con quella condizione che già Erodoto descrive contro-natura, in cui “I padri seppelliscono in figli”? Troveremo mai chi ci proteggerà, come recita il titolo del testo di Andronico (che riprende una frase di Jenny Holzer) dalla nostra aggressività?
Non ci sono antidoti? Forse potrebbero essere un argine alla guerra l’intelligenza e la razionalità. Ma da sole non bastano. La stessa scienza, al servizio della guerra, può diventare uno strumento di morte e di distruzione di massa. La pace ha bisogno di uomini pacifici, solidali, empatici, che non chiamino l’altro “lo straniero” o “il nemico”, ma lo considerino “un altro io”, “uno come me”, uno che condivide la condizione di essere umano. Un’educazione, a tutti i livelli, umanisticamente orientata, può essere un contributo in tal senso. Tematica da approfondire, magari leggendo il libro di Andronico. La cultura e la conoscenza servono a proteggerci dall’istinto di morte.
Enrico Ferri, professore di Filosofia del Diritto all’Unicusano