La pensione di vecchiaia nel regime contributivo è stata introdotta nel 2019. La misura, presentata dalla Riforma Dini (legge 335/1995) dal 1° gennaio 1996, è stata creata per legare il requisito anagrafico al diritto alla pensione di vecchiaia.
La marcia ai cambiamenti previdenziali è proseguita con la legge Fornero, con l’introduzione di norme per molti aspetti discutibili, ma a qualcuno verrà in mente che gli interventi sono stati indispensabili per mantenere stabile l’equilibrio del sistema.
Pensione di vecchiaia nel regime contributivo
Negli anni scorsi, il sistema previdenziale italiano ha subito diversi cambiamenti, dalla Quota 100 alla Quota 103, passando per Ape sociale e Opzione donna. Ora, però, il conto salato viene servito ai giovani, ovvero coloro che iniziano a maturare un’anzianità contributiva dal 31 dicembre 1995.
Non si può certo dire che in futuro ci sarà una maggiore flessibilità d’uscita dal mondo del lavoro. Tutt’altro, l’importo della pensione sarà calcolato esclusivamente in regime di calcolo contributivo. In altre parole, l’INPS, per liquidare la rendita mensile, terrà conto esclusivamente dei contributi versati.
La pensione di vecchiaia nel regime contributivo attualmente prevede due requisiti per l’accesso: uno anagrafico e l’altro contributivo:
- 67 anni di età;
- almeno 20 anni di anzianità contributiva.
Tuttavia, si ricorda che nel 2026 il requisito anagrafico sarà adeguato all’incremento dell’aspettativa di vita media.
In pensione a 67 anni di età
Chi va in pensione con il sistema contributivo?
In sintesi, i lavoratori possono andare in pensione al compimento dei 67 anni di età, a condizione che risultino aver maturato almeno 20 anni di contributi.
Tuttavia, i lavoratori integralmente nel sistema contributivo, ovvero che hanno iniziato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995, potrebbero vedere il requisito anagrafico oscillare in rialzo.
È importante notare che il diritto alla pensione di vecchiaia viene perfezionato a condizione che l’assegno risulti essere 1,5 volte l’importo del trattamento minimo vitale.
A quanto ammonta il trattamento minimo? Nel 2023, l’importo dell’assegno sociale corrisponde a 503,27 euro al mese erogati per 13 mensilità, corrispondenti a 6.542,51. In altre parole, l’importo dell’assegno dovrà essere almeno pari a 9.813,765 euro (6.542,51 x 1,5).
Se vengono meno queste condizioni, il lavoratore dovrà attendere il compimento dei 71 anni di età per andare in pensione.
La pensione di vecchiaia a 71 anni
Come detto sopra, l’INPS, per coloro che hanno iniziato a maturare un montante contributivo dopo il 1995, applica il regime contributivo. Dopo aver portato a casa il requisito contributivo, è arrivata la stangata sull’età anagrafica minima di 71 anni, con almeno cinque anni di versamenti contributivi effettivi.
Chi va in pensione a 71 anni riceve un assegno che non è condizionato dalla presenza del trattamento minimo. Questo perché la rendita mensile è strettamente commisurata ai versamenti effettuati, con l’applicazione della rivalutazione e del tasso di interesse fino alla data di accesso alla pensione.
Pertanto, possono accedere al trattamento i contributivi puri e coloro che optano per il cumulo nella Gestione Separata INPS.
Pensione di vecchiaia nel regime contributivo nel 2024
Nella legge di Bilancio 2024 sono state prorogate le misure Ape sociale, Opzione donna e Quota 103 con diverse modifiche applicate sui requisiti e condizioni.
Inoltre, sono state previste delle modifiche alla pensione di vecchiaia che perderebbe il limite legato all’assegno sociale. In altre parole, i lavoratori potranno andare in pensione con il sistema contributivo compiuti 67 anni di età e 20 anni di contributi, senza condizioni sulla rendita mensile.
In conclusione, le variazioni nella pensione di vecchiaia dovrebbero consentire un accesso più ampio al trattamento per una vasta platea di aventi diritto.