Il fast fashion ha dimostrato un’abilità innegabile nel capitalizzare sui trend emergenti, inclusi quelli legati all’empowerment femminile. Tuttavia, un’analisi più approfondita di prodotti come t-shirt e felpe con slogan apparentemente femministi rivela una realtà meno lusinghiera. Questi prodotti, spesso presentati in modo accattivante, tendono ad avere poco a che fare con i veri valori del femminismo. Questo fenomeno è noto come “pinkwashing“, un termine che coniuga “pink” (rosa), simbolo dell’emancipazione femminile, con “whitewashing“, che indica l’atto di nascondere o minimizzare. Il pinkwashing si avvale di linguaggi e simboli femministi per migliorare l’immagine del marchio, ma senza apportare cambiamenti significativi o sostenere attivamente le cause femministe. Di pinkwashing se ne sta parlando anche nella sfera politica, anche perché a suo modo è un tema che rientra nella sfera politica.
Pinkwashing: una strategia di marketing superficiale
Il pinkwashing è una forma di slacktivism, ovvero un attivismo superficiale che richiede poco impegno e permette ai brand di apparire progressisti senza intraprendere azioni concrete. Questa strategia viene utilizzata per attrarre consumatori sensibili a tematiche sociali, come il femminismo, ma si limita a una superficialità che non contribuisce realmente alla causa. È un esempio di marketing che sfrutta sentimenti e valori per fini commerciali.
Il caso di Eleonora Evi e la denuncia del pinkwashing in politica
“Non sarà la marionetta del pinkwashing”. Con queste parole, Eleonora Evi, ex co-portavoce di Europa Verde, ha lasciato il suo ruolo nel partito, denunciando una cultura “paternalista” e “patriarcale”, nonché una “deriva autoritaria e autarchica“. La sua uscita ha sottolineato la presenza del pinkwashing anche in ambito politico, dove viene utilizzato per dare un’apparenza di equità e progressismo senza sostanziali cambiamenti nelle pratiche e nelle politiche.
Questo è il pensiero espresso dalla Evi:
Quando ho espresso posizioni o visioni non allineate a quelle della dirigenza durante le riunioni della direzione nazionale e pubblicamente, sono stata accusata di ingratitudine nei confronti della “famiglia verde” che mi aveva accolta e offerto uno scranno in Parlamento. Per un partito che tra i suoi obiettivi ha quello di difendere la biodiversità, è decisamente deludente constatare che questo valore non si riesca ad applicarlo all’interno del partito stesso, schiacciando e mortificando così una sana e costruttiva dialettica interna. Dunque, non intendo continuare a ricoprire il ruolo di co-portavoce femminile che, nei fatti, è ridotto a mera carica di facciata. Per questo rassegno le mie dimissioni da Co-portavoce pur restando fermamente convinta che un progetto ecologista italiano coraggioso e contemporaneo, e non l’ennesimo partito personale e patriarcale, risulti necessario.
Pronta la risposta di Angelo Bonelli:
L’accusa di patriarcato non ha senso. Siamo l’unico partito con la parità di genere al suo interno. Evi fa riferimento alla questione femminile, ma è solo un modo di cavalcare il tema del momento. Sono un po’ spiazzato, mi chiedo quale sia la reale motivazione di questa decisione. Penso che c’entri la questione delle alleanze alle elezioni europee, visto che lei è contraria a presentarsi insieme a Sinistra Italiana.
Definizione e origini del pinkwashing
Il pinkwashing nasce come termine negli anni 2000 grazie all’attivismo di Breast Cancer Action e al progetto “Think Before You Pink“. Il concetto è stato inizialmente applicato alle campagne contro il cancro al seno, dove aziende sfruttavano il tema per fini commerciali, mascherando le loro vere intenzioni dietro un’apparente solidarietà. Questo termine descrive le pratiche aziendali che utilizzano il femminismo come strumento di marketing, senza un reale impegno nella causa.
Il concetto originario e altre forme di “washing”
Abbiamo detto che il termine “pinkwashing” si riferisce alla pratica di alcune aziende di utilizzare tematiche sociali importanti, come l’emancipazione femminile, per fini commerciali. Dalla stessa radice nascono termini come “rainbow washing“, che si riferisce all’appropriazione della simbologia LGBTQ+, e “greenwashing“, dove le aziende si dipingono di “verde” promuovendo azioni per l’ambiente e la sostenibilità. Similmente, il “purplewashing” o “violetwashing” è una strategia adottata per strumentalizzare le lotte femministe, dove le campagne di marketing creano un’illusione di empatia e sostegno per le questioni femminili, senza un reale impegno nelle cause supportate.
L’evoluzione del pinkwashing nel mercato
Il pinkwashing, oggi, è una tecnica diffusa che permette alle imprese di ottenere vantaggi economici e di reputazione sfruttando l’inclusività e l’apparente sensibilità verso le cause femminili. Questa strategia è trasversale a vari settori, dai cosmetici all’abbigliamento sportivo, utilizzando l’appeal femminista per incrementare le vendite.
Nonostante l’apparente successo del pinkwashing, sono emerse critiche e voci controcorrente che si oppongono a questa mercificazione di temi importanti. Documentari come “Pink Ribbons, Inc.” e figure come Charlotte Haley, che indirettamente diede vita alla “pink ribbon culture“, hanno contribuito a svelare le reali intenzioni dietro queste campagne.
Pro e contro
Il pinkwashing offre vantaggi economici e reputazionali per le aziende, consentendo loro di raggiungere target specifici sensibili a temi sociali. Tuttavia, può nascondere contraddizioni e portare a perdite di credibilità. Ad esempio, il caso delle magliette recanti slogan femministi, ma prodotte in condizioni di sfruttamento lavorativo mette in luce le problematiche etiche dietro queste strategie.
Il fenomeno del Femvertising e l’8 marzo
Il fenomeno del “femvertising” diventa particolarmente evidente in occasioni come la Giornata Internazionale della Donna, dove spesso si crea un’illusione di progresso sui diritti femminili, mascherando le reali pratiche aziendali. Questa data ricorda anche le condizioni lavorative disumane delle operaie della Triangle Waist Company, mettendo in evidenza la contraddizione intrinseca tra fast fashion e femminismo.
Inoltre, nel settore del fast fashion, dove il 80% della forza lavoro è costituita da donne di colore, si perpetuano condizioni di lavoro ingiuste.