Nel cuore dell’Italia settentrionale, nella Val di Scalve, si trova il sito di una delle più tragiche e dimenticate catastrofi della storia italiana: il crollo della diga del Gleno. Avvenuto il 1° dicembre 1923, questo disastro rimane una ferita aperta nel paesaggio e nella memoria del Paese, di cui tuttavia non sembra parlarsene molto.

Il disastro della diga del Gleno: nascita e caduta di un colosso

Erigendo la diga del Gleno, l’Italia post-prima guerra mondiale mirava a modernizzare e rafforzare la sua infrastruttura industriale. Iniziata nel 1916, questa diga rappresentava un simbolo di progresso e innovazione. Alta 1.500 metri, con una capacità prevista di sei milioni di metri cubi d’acqua, prometteva di alimentare con energia elettrica le industrie tessili sottostanti.

Progettata inizialmente come una diga a gravità, subì un cambiamento radicale per adottare un design ad archi multipli. Questa struttura imponente, lunga 260 metri e situata a 1500 metri di altitudine, era destinata a fornire energia idroelettrica a basso costo per i cotonifici di Virgilio Viganò.

La diga del Gleno fu costruita utilizzando una tecnica mista, combinando una base “a gravità” con un sistema ad archi multipli nella parte superiore. Tuttavia, la pressione di risparmiare su costi e tempi portò all’uso di materiali di scarto e calcina al posto del cemento, compromettendo gravemente la struttura. Le crepe apparvero presto, ma furono ignorate dai responsabili.

Il disastro della diga del Gleno, il 1° dicembre 1923

All’alba del primo dicembre del 1923, le paure divennero realtà. La diga cedette improvvisamente, rilasciando una massa devastante di acqua, fango e detriti che spazzò via tutto sul suo cammino fino al lago d’Iseo. Le centrali idroelettriche, i villaggi, e le vite furono cancellati in un istante, lasciando dietro di sé solo distruzione e dolore.

In soli 45 minuti, interi paesi, tra cui Bueggio, Dezzo, Mazzunno e Corna di Darfo, vengono cancellati.

Le descrizioni dei primi soccorritori

Le descrizioni dei primi soccorritori rivelarono un quadro apocalittico. Angelo Pasinetti, vice pretore del mandamento di Clusone, parlò di una completa sparizione di intere frazioni, con soli pochi sopravvissuti tra centinaia di abitanti. Il maresciallo Virgilio Mocellin descrisse l’onda devastante che cancellò centrali elettriche, chiese e cimiteri. Piero Scaletta, pretore del mandamento di Lovere, riferì di un paesaggio di distruzione, con strade e campagne devastate, cadaveri ritrovati e un senso palpabile di tragedia.

Una tragedia passata quasi sotto silenzio

Perché del disastro della diga del Gleno se ne parla meno del Vajont? Nonostante l’immediata attenzione dei media, il regime fascista dell’epoca lavorò per minimizzare l’impatto del disastro, per mantenere una facciata di competenza e controllo. La tragedia, quindi, scivolò gradualmente nell’oblio, oscurata dalle narrazioni ufficiali.

Inoltre, sebbene il disastro abbia colpito profondamente l’opinione pubblica dell’epoca, con reportage estesi e visite da personalità come il re Vittorio Emanuele III e Gabriele D’Annunzio, la mancanza di mezzi di comunicazione come la televisione ha contribuito a far svanire il ricordo di questa tragedia nel tempo.

Nel corso degli anni, sono emerse diverse teorie riguardanti le cause del disastro. Alcuni ritengono che ci fossero difetti intrinseci nella progettazione e costruzione della diga, mentre altri suggeriscono l’uso di materiali scadenti e pratiche corrotte.

Studi recenti, inclusi quelli della Università di Bergamo, hanno esplorato diverse ipotesi: errori di costruzione, scelta di materiali scadenti, cambiamenti di progetto non autorizzati e persino l’ipotesi di un attentato dinamitardo. Tuttavia, una conclusione definitiva non è mai stata raggiunta e la ricerca di risposte definitive continua ancora oggi.

Il monumento alla memoria

Oggi, i resti della diga del Gleno rimangono un monumento silenzioso alla tragedia. Visibili lungo un sentiero escursionistico, hanno l’onere di rappresentare un promemoria della fragilità umana di fronte alle forze della natura e dell’avidità.

Il disastro della diga del Gleno: il processo e le indagini

Il processo che seguì il disastro vide come imputati principali il proprietario della diga, Virgilio Viganò, e l’ingegnere progettista, Giovanni Santangelo. Dopo cinque anni di indagini e testimonianze, entrambi furono ritenuti colpevoli di disastro colposo. Tuttavia, la morte di Viganò e l’assoluzione per insufficienza di prove di Santangelo lasciarono molte domande senza risposta.