Nel 2022, in Italia, cinque persone al giorno si sono infettate con l’HIV. Un numero ancora troppo elevato: di HIV e AIDS non si parla abbastanza e i retaggi culturali legati al virus resistono, nonostante la scienza, negli ultimi anni, abbia fatto passi da gigante. In occasione della Giornata Mondiale per la lotta all’AIDS– che si celebra il 1 dicembre di ogni anno- TAG24 ha intervistato Giusi Giupponi, presidente nazionale della LILA: che ha sottolineato come, a livello sociale, ci sia ancora molto da fare, per sconfiggere lo stigma legato all’infezione.

Giornata Mondiale per la lotta all’AIDS, Giupponi della LILA: “Non c’è ancora abbastanza consapevolezza sull’HIV”

Giusi Giupponi fa parte della LILA- Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS– da ben 23 anni e da un anno è Presidente Nazionale dell’associazione, dopo aver ricoperto lo stesso ruolo per la sede di Como. Ventiquattro anni fa ha scoperto di essere una persona con HIV: da allora le terapie sono nettamente migliorate, garantendo una buona qualità nonché un’aspettativa di vita analoga a chi non ha contratto l’infezione. Eppure pregiudizi e disinformazione esistono ancora.

Non a caso, per questo 1 dicembre 2023, lo spot realizzato e promosso da ben dieci associazioni sottolinea che U=U, impossibile sbagliare (“Undetectable equals Untransmittable”). Infatti le persone con HIV, che con la terapia antiretrovirale raggiungono e mantengono livelli non rilevabili del virus nel sangue, non possono trasmetterlo ad altre persone. Neanche attraverso rapporti sessuali non protetti.

Una scoperta scientifica che in realtà risale al 2016, ma che in molti ancora ignorano. Questo non è l’unico aspetto, legato all’HIV, ancora poco conosciuto. C’è una scarsa consapevolezza del virus, in tutte le fasce d’età.

Nel 2022, secondo i dati, le diagnosi di HIV sono state 1888, che saliranno a circa 2000 con i “ritadi di notifica”. I casi, dal 2019, sono in diminuzione; ma in leggero aumento negli ultimi due anni post Covid. L’incidenza più elevata si riscontra nella fascia di età 30-39 anni, mentre fino al 2020 si riscontrava nella fascia di età 25-29 anni.

L’età media delle diagnosi- da diversi anni ormai attribuibili in gran parte alla trasmissione sessuale- è di 43 anni per i maschi e 41 per le femmine. I più giovani sono più attenti all’HIV? “Forse fanno più attenzione, ma se non ci sono quelle di HIV sono aumentate le percentuali di altre malattie sessualmente trasmissibili come sifilide, gonorrea, clamidia, in cui sono più colpiti i giovani nella fascia 18-25 anni” spiega Giuppioni.

“Non c‘è una grande consapevolezza neanche tra i più giovani a nostro parere, perché non c’è una comunicazione capillare. In generale, le persone di qualsiasi età, quando parlano di HIV, lo fanno dicendo: ‘Ah sì, l’AIDS’: non sanno neanche distinguere tra HIV e AIDS” sottolinea la Presidente LILA.

L’HIV è, infatti, il virus, mentre l’AIDS è lo stadio clinico avanzato dell’infezione. “Alla domanda
‘Sai cos’è l’HIV o cos’è l’AIDS’, la persona comune risponde risponde: ‘Ah sì, mi ricordo l’alone viola’. Lo spot, del 1989, che recitava: ‘Se lo conosci lo eviti’ e nella mente delle persone c’è ancora quello”.

Le false credenze sull’HIV

Le diagnosi di HIV fanno ancora paura, più di molte altre, nonostante oggi siano a disposizione terapie efficaci. Questo perché il virus viene visto come un ‘problema’ solo per alcuni.

“Dovremmo davvero augurarci di raggiungere 0 diagnosi nel 2030, però se la persona non si sente a rischio è perché lo associa a determinate categorie” sottolinea Giupponi. “C’è ancora questo retaggio culturale per cui l’HIV non riguarda le persone ‘normali’, etero, che non fanno uso di sostanze e non si prostituiscono.”

Dati alla mano, l’84% delle diagnosi arriva da rapporti sessuali; tra queste, il 43% sono persone eterosessuali (25% uomini, 18% donne.) Quindi significa che una persona etero spesso non pensa che fare un test sia necessario, neanche se ha avuto rapporti sessuali non protetti con persone di cui non conosce lo stato sierologico.

Nel sentire comune, l’HIV colpisce le persone ‘cattive’, non quelle ‘brave’: al massimo riguarda i gay, chi vende il proprio corpo, chi fa uso di droghe. Non il collega, o la conoscente, con cui si ha avuto un’avventura e un rapporto sessuale senza preservativo.

E’ da qui che poi ci sono le infezioni e il 60% ha diagnosi tardive: la persona non sa di avere il virus, a sua volta lo trasmette, inconsapevolmente, perché non segue le terapie creando un danno alla propria salute e a quella di altre persone” spiega Giusi Giupponi.  

“Quando sono risultata positiva all’HIV, 24 anni fa, ero già in AIDS: io ero stata classificata come ‘brava ragazza’, perché all’epoca avevo un’attività di proprietà quindi non facevo parte di quelle ‘famose’ categorie. E mi hanno ripresa per i capelli. All’inizio, quando mi avevano classificato come ‘brava ragazza’, mi sentivo come una privilegiata. Quando sono arrivata in LILA, dopo un anno, ho capito che non avevo alcun privilegio: non avevo niente di diverso da chi aveva fatto uso di sostanze, o che era gay, o che si prostituiva. Avevo l’HIV come ce l’avevano loro. E ancora oggi, a distanza di 24 anni, c’è questo pensiero. Un modo errato di considerare l’HIV che porta le persone a non responsabilizzarsi, a non dire: ‘Ok, ho avuto un rapporto a rischio, vado a fare un test.‘”

Ottenere una diagnosi precoce è fondamentale. Oggi è possibile fare un test in pochi minuti anche in luoghi protetti come le associazioni, non solo in ambito sanitario: è un’azione per fare del bene a se stessi e a tutta la comunità.

Lo stigma e le paure legate all’HIV

Lo stigma legato all’HIV è forte, anche nel 2023. Le paure delle persone che scoprono di avere l’infezione riguarda soprattutto l’ambito sociale e lavorativo.

“La prima cosa che si domandano è: ‘Cosa faccio ora?’ Il timore principale è ‘Come faccio a dirlo?’ Se a livello clinico si è positivi all’HIV, ma non in una fase di AIDS, si segue una terapia: si prenderà una pastiglia o due, non cambia la vita. Perché domani non dovrebbe essere uguale al giorno prima di scoprire di avere l’HIV?” sottolinea Giupponi.

“La mente inizia a lavorare, si pensano mille cose: e se qualcuno viene a saperlo? Cosa mi succederà? Le terapie funzioneranno? Che aspettativa di vita ho? Piano piano poi le persone capiscono che a livello clinico non ci sono più i problemi che c’erano anni fa, anche per quanto riguarda gli effetti collaterali. A livello sociale, invece, è difficile prevedere cosa accadrà perché non si conoscono le reazioni dall’altra parte” aggiunge.

“Non sai se ti cambieranno mansione sul posto di lavoro. Se una relazione è appena iniziata, forse il partner se ne andrà. Se per caso l’infezione avviene perché c’è stato un tradimento, bisogna dirlo a chi è a casa, questa persona poi starà male… Un sensazione bruttissima, che si avverte subito, è di non avere più il diritto di vivere. Anche se, ovviamente, non è così” spiega la presidente della LILA.

Non è obbligatorio comunicare il proprio stato sierologico, come previsto dalla legge 135/90. “E’ importante come la persona vive quello che ha. Ci sono i vari step. Bisogna prima rendersene conto, accettarlo, e poi affrontare tutto. Perché quando una persona decide di dirlo, decide anche come, quando e a chi. Se si è in una fase con una carica virale attiva, c’è il dovere di proteggersi, per non trasmettere il virus ad altre persone.”

Un’altra domanda che spesso si pongono è: ‘Adesso come faccio con le persone con cui vivo in casa?’

“Queste cose avvengono ancora oggi. L’HIV non si trasmette condividendo il bagno, la doccia, l’asciugamano, i servizi igienici, le stoviglie” afferma Giupponi. “U=U ha ridato la dignità e la libertà alle persone con HIV di decidere, di programmare un futuro, di fare una famiglia, concepire un figlio.”

Oggi non ci sono più sieropositivi, una definizione che non usiamo più, ma persone, donne, uomini con HIV, che possono curarsi e vivere la loro vita come chiunque altro. Perché non è di certo il virus a definirle.