La brutalità che accompagna i femminicidi e i casi di violenza contro le donne, oltre a creare scandalo all’interno della società, spesso fa nascere una serie di domande sul perché questi episodi si verifichino e quali siano le motivazioni che spingono a compiere tali gesti.
Uccidere una donna è un’azione che racchiude in sé diversi significati, come il desiderio di controllo della vittima da parte dell’aggressore, che fa sfociare la bramosia di potere in una sentenza di vita o di morte.
Tag24 ha deciso di approfondire la questione della violenza contro le donne, con un focus particolare su ciò che si cela dietro questi gesti, intervistando la psicologa e psicoterapeuta Viviana De Rosa, referente dell’Ordine degli Psicologi per il IX Municipio di Roma e responsabile del progetto Network Territoriale, una rete di psicologi presente nel Lazio nata dall’idea di facilitare il rapporto tra l’Ordine, i cittadini e le Istituzioni.
Cosa spinge un uomo a commettere violenza contro le donne?
D: Cosa spinge un uomo a commettere violenza contro una donna sotto il punto di vista psicologico? Quali sono le cause più comuni?
R: Le cause più comuni che si riscontrano non si possono racchiudere sotto un’unica categoria. Ci sono chiaramente varie motivazioni e differenti profili psicologici dietro questi atti. Ad esempio sicuramente c’è la necessità di controllare la vittima: nel momento in cui la persona sfugge al dominio del carnefice, si può attivare un allert che lo spinge ad intervenire in modo drastico per chiudere il rischio di non poter più controllare la vittima.
La vittima diventa un oggetto da possedere, da manipolare, da controllare per il carnefice, non è più una persona. E va annientato se la vittima in qualche modo riesce a sfuggire al suo potere.
Violenza contro le donne: il controllo della vittima e il problema della dipendenza affettiva
D: In merito all‘omicidio di Giulia Cecchettin si è parlato tanto dell’assassino, del suo profilo psicologico, dell’insoddisfazione del ragazzo rispetto alla sua vita e agli obiettivi. Ci sono delle caratteristiche all’interno di un individuo a livello psicologico che possono spingerlo maggiormente alla violenza? Cosa influisce?
R: In primo luogo ripeterei la necessità di controllare la preda. In questo caso di cronaca purtroppo, nel momento in cui la vittima è uscita fuori dal cerchio del controllo – perché stava dimostrando di essere più del carnefice, riuscendo ad ottenere un risultato in cui lui aveva fallito e che probabilmente la avrebbe allontanata ancora di più – il ragazzo non ha tollerato questo distacco e quindi ha ucciso Giulia.
Quando avvengono questi episodi così drastici e definitivi sembrano improvvisi alla gran parte delle persone. In realtà dietro ci sono sempre dei segnali o degli elementi inosservati o sottovalutati. Anche la famiglia di provenienza di Filippo non ha voluto vederli: ho letto un articolo sul padre del ragazzo che descriveva il figlio come perfetto.
Già qui c’è un segnale, un dato che non corrisponde alla realtà perché nessuno di noi è perfetto, tutti abbiamo dei limiti e riconoscerli ci aiuta proprio a capire come migliorare. Questo è un elemento molto presente all’interno della nostra società: i genitori nella realtà a volte non vedono nemmeno effettivamente come i figli gestiscono le relazioni sociali e pensano di avere davanti degli individui che hanno creato con grande perfezione, quando invece sono semplicemente degli esseri umani fallibili, che possono sbagliare e che non devono vedere nell’errore un fatto irrimediabile o qualcosa che rende indegni.
Un altro aspetto importante nel riconoscimento dei segnali di allerta contro la violenza riguarda la dipendenza – in tutte le relazioni umane in realtà – ossia quando le persone si trovano in uno spazio che non è più il loro ma quello del partner, dove si manifesta un disorientamento perché non esistono più le proprie necessità ma solo quelle del compagno. Si deve porre attenzione su questo punto perché chi non vive più rispetto ai propri bisogni ma solo in base a quelli altrui si trova in una posizione di grande vulnerabilità. Per cui poi alla fine si va in confusione e si diventa deboli, avendo l’esigenza di legarsi sempre di più al partner, per paura di non valere abbastanza da soli.
Un altro segnale da tenere presente, oltre all’invasione del proprio spazio, è anche il controllo: quando non ci si sente liberi di parlare, di esprimersi, di agire, di avere anche delle preferenze che possono essere diverse da quelle del partner. La relazione umana si manifesta in modo sano nel momento in cui le due parti sono allo stesso livello, soprattutto quando entrambi nella loro unione mantengono un’identità autonoma e ben definita.
Il ruolo della scuola, l’educazione affettiva come strumento di contrasto alla violenza di genere
D: Insegnare ai ragazzi come gestire le emozioni, introducendo iniziative ad hoc nel mondo della scuola come l’eduzione all’affettività, può aiutare nel contrasto alla violenza di genere? Ci può essere una gestione più ‘consapevole’ dei sentimenti?
R: Introdurre l’educazione affettiva nelle scuole è un passo importante e necessario. Riconoscere le proprie emozioni e capire quale sia il significato dietro di esse è il primo step per imparare a gestirle. E’ un aspetto fondamentale perché le emozioni sono espressioni dei nostri bisogni in momenti specifici: se non sappiamo riconoscerle rischiamo di rincorrere necessità che non sono davvero reali.
E’ importante che a scuola venga introdotta l’educazione alle emozioni, al rispetto reciproco e ai valori umani. I ragazzi stanno perdendo alcuni valori della vita che si attivano in presenza, a contatto con le persone: tutto questo oggi è molto limitato dal canale comunicativo principale, la scrittura, i social, dove c’è distanza. Dai messaggi non di rado nascono incomprensioni perché di fatto c’è un parziale trasferimento delle informazioni, perché ovviamente nella scrittura manca tutto l’aspetto non verbale della comunicazione.
Femminicidio: la matrice culturale nascosta e la spiegazione scientifica
D: Il problema di fondo dietro i femminicidi, come nel caso di Giulia, non è il famoso ‘raptus‘, il momento d’ira, ma una matrice di natura culturale legato al patriarcato. Come si può fare chiarezza su questo?
R: Sicuramente in tanti profili psicologici incide la cultura che ci portiamo dietro da generazioni. Quando si parla di patriarcato di solito si pensa ad un’accezione culturale ma dietro ai femmenicidi c’è anche una spiegazione scientifica, dove alla base ci sono dei disturbi che devono essere curati.
Non è sempre facile definire subito come si forma un disturbo. Spesso non si nasce con la patologia, ma ci possono essere delle predisposizioni all’origine che si manifestano nel tempo perché rinforzate da un apprendimento sociale, culturale e familiare, che appartiene al nostro vissuto, dove l’esperienza cronicizza il disturbo. Il raptus è una manifestazione estrema che spesso può essere preventivata, perché un disturbo si può diagnosticare e in molti casi anche curare.
In alcune situazioni c’è proprio un problema di disfunzionamento della persona: il soggetto in quel momento mette in atto un comportamento disfunzionale che non è stato realizzato per caso o all’improvviso, ma frutto di un disturbo mentale che c’è alla base. Per questo è importante fare psicoeducazione e diffondere conoscenza rispetto al benessere psicologico, chiedere aiuto in caso di disagio o pericolo.
Ecco un approfondimento sul tema della violenza contro le donne in un’intervista alla Presidente del Centro antiviolenza di Lecce “Renata Fonte”.