“Costruire una società più inclusiva e responsabile”. E’ questo uno degli obiettivi di Fondazione Paideia, un ente filantropico nato a Torino che da trent’anni è accanto ai bambini con disabilità e alle loro famiglie, offrendo supporto e assistenza. Oltre a diversi percorsi di riabilitazione, la Fondazione organizza anche varie attività e promuove inziative ed eventi.
Spesso, infatti, la disabilità spaventa, allontana, crea discriminazione e necessita di sostegno: come racconta Souad Maddahi, project manager e mamma di un bambino con autismo.
Disabilità e inclusione, la testimonianza di Souad Maddahi, una delle mamme seguite da Fondazione Paideia
Souad Maddahi lavora nel sociale ed è mamma di un bimbo nato a gennaio del 2018 a cui, all’età di due anni, è stato diagnosticato l’autismo: una conferma ai sospetti che in realtà nutriva da tempo.
“Mi sono accorta che mio figlio, intorno ai due anni, parlava meno rispetto a prima. Inoltre aveva iniziato a gattonare e poi a camminare tardi: quindi avevo iniziato a nutrire dei dubbi. Ne ho parlato con le educatrici del nido, che mi avevano tranquillizzato. ‘E’ bravissimo, magari fossero tutti come lui!’ mi avevano risposto” racconta. “Mi sono rivolta quindi al pediatra e lui mi ha preparato la prima impegnativa per vedere un neuropsichiatra infantile. A causa della pandemia, dopo alcuni incontri, siamo stati costretti a fermarci: abbiamo ripreso la situazione a settembre del 2020. Da lì abbiamo fatto tutti i test: la diagnosi è arrivata a dicembre.”
Ricevere determinate risposte ha dato vita a un’ondata di emozioni e preoccupazioni, sottolinea Souad.
“Ho trascorso notti insonni: non sai come andrà, cosa farà tuo figlio. Inizi già a pensare ai suoi 18 anni, a chi starà con lui… Inizi a proiettarti verso il futuro, a riflettere su mille cose. Io sono di origine marocchina, ho un diverso background culturale, dove i ritardi cognitivi e le malattie mentali sono ancora un tabù. C’è chi ti dice che è colpa del malocchio, e invece chi cerca di confortarti affermando che sarà una situazione passeggera, perché colpa di una ‘fattura’. Ho sentito davvero di tutto.” L’inclusione, in questi casi, è ancora un obiettivo da raggiungere: per certe culture un bambino disabile “va nascosto” agli occhi degli altri.
Dopo la diagnosi di autismo, la ricerca di un supporto
Il bimbo di Souad inizia presto a svolgere delle attività, ancora prima di ricevere una diagnosi: durante il periodo Covid non era possibile vedere un neuropsichiatra e lei voleva comunque fare qualcosa per aiutare il suo bimbo.
Dopodiché, una volta confermato il disturbo dello spettro autistico, inizia subito ad attivarsi per le sedute di logopedia e neuropsicomotricità: “Avevo già chiamato Paideia e, dopo i primi cicli con un logopedista, a giugno 2021- ero già in lista d’attesa da un anno e mezzo- hanno iniziato loro a seguirmi.”
Nella sfortuna della diagnosi, racconta Souad, è stata comunque fortunata: “Lavorando già nel sociale, e conoscendo come funziona questo mondo, sapevo come muovermi per le attività, per il sostegno a scuola, o per le pratiche burocratiche all’INPS, ad esempio.”
Molte famiglie, però, si ritrovano a brancolare nel buio e nella solitudine.
Caregiver di un figlio con disabilità e donna di origine marocchina: la “doppia discriminazione”di Souad
Nella comunità marocchina la disabilità è ancora un tabù. E in quella italiana invece? Sono stati fatti dei passi avanti nell’accoglienza e nell’inclusione? Domande a cui Souad Maddahi risponde con amarezza:
“Noi siamo una famiglia con background migratorio, diventa difficile capire se la discriminazione o la mancanza d’accoglienza siano dovuti a un bambino che inzia a urlare al supermercato, oppure perché io sono una donna velata” racconta. “Non posso distinguere tra le varie possibilità: se la discriminazione arrivi dalla disabilità, dal fatto che sono musulmana oppure perché indosso il velo.”
C’è razzismo perché donna con il velo? “Assolutamente sì. In certi uffici si comportano come se non capissi l’italiano, oppure dandomi del tu senza neanche chiederlo: piccole discriminazioni che magari già stabiliscono una relazione di inferiorità in riferimento alla persona che si ha davanti.”
Il figlio di Souad è verbale, al contrario di altri bambini con autismo. I disturbi dello spettro autistico sono infatti un gruppo eterogeneo di disturbi del neuro-sviluppo, con deficit di comunicazione, nel linguaggio o nell’interazione sociale. “Abbiamo dei problemi per la gestione delle emozioni, del ‘no’ e della rabbia. A volte mi dicono che sembra solo ‘un bambino capriccioso’. Abbiamo fatto dei grossi passi avanti sul rapporto con gli altri e sull’empatia.” Anche grazie al sostegno di Paideia.
Souad sottolinea come sia fondamentale che educatori, maestri, responsabili pedagogici abbiano una maggiore formazione su determinate tematiche: “Affinché sappiano che avere a che fare con un autistico significa anche relazionarsi con una persona che ha una neurodivergenza, un modo di ragionare diverso rispetto a tutto ciò che è neurotipico.”
Cosa desidera, invece, per la comunità che li circonda? “Banalmente che possano capire e comprendere l’altro” risponde. “Non è scontato che l’altra persona voglia essere toccata: si rischia di essere invasivi con un bambino che ha esigenze diverse.”
E invece qual è il suo consiglio per dei genitori che si ritrovano a dover affrontare la disabilità di un figlio? “Di pensare al bambino e non al proprio trauma. A volte la volontà di gestire il proprio trauma-non è affatto facile farlo- prende il sopravvento su quello del proprio figlio.”