Cosa vuol dire “cultura dello stupro”? Il tragico femminicidio di Giulia Cecchettin, giovane studentessa veneta, per mano del suo ex fidanzato Filippo Turetta, rimarrà impresso nella memoria collettiva. Elena Cecchettin, sorella di Giulia, ha dichiarato che Turetta non è da considerarsi un mostro o un malato, ma piuttosto un “prodotto sano del patriarcato e della cultura dello stupro”.

Cosa vuol dire “cultura dello stupro”?

L’espressione “cultura dello stupro” ha preso piede negli ambienti femministi dagli anni 2000 per indicare quei processi culturali che, erroneamente, considerano lo stupro e la violenza sulle donne come qualcosa di normale e ineluttabile.

Parlando di crescita in una “cultura dello stupro”, non si intende che i genitori insegnino consapevolmente agli uomini di commettere abusi sulle donne. Piuttosto, si fa riferimento a manifestazioni culturali che contribuiscono a radicare l’idea che tali abusi siano parte integrante della realtà.

Questo sistema culturale ha gravi ripercussioni per tutte le persone coinvolte: gli uomini crescono con una percezione di impunità nei confronti della violenza di genere, mentre le donne tendono a non riconoscerla o a minimizzarla quando ne sono vittime.

Come contrastare la cultura dello stupro?

In un articolo pubblicato sul rinomato giornale femminista “off our backs”, Alyn Pearson offre una metafora significativa per illustrare la cultura dello stupro, confrontandola con il tifo e l’influenza stagionale.

Spesso si concepisce lo stupro come una malattia improvvisa e contagiosa, simile al tifo, che colpisce una comunità a causa di comportamenti errati. Tuttavia, la realtà è che lo stupro assomiglia più all’influenza stagionale, una malattia non epidemica, ma endemica, ormai radicata nell’ambiente circostante. Proprio per la sua diffusione comune, l’influenza è permeata da miti e credenze popolari (“Se prendi freddo, ti piglia l’influenza”) e la maggior parte delle persone si aspetta di contrarla almeno una volta nella vita. Come per la prevenzione dell’influenza attraverso il vaccino, si può agire contro la cultura dello stupro.

La “cultura dello stupro” non è l’unica spiegazione possibile per comprendere l’ampia diffusione della violenza di genere, un fenomeno che, secondo dati Istat (in linea con le statistiche globali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità), colpisce una donna su tre.

Prima dell’affermarsi del movimento femminista, la violenza di genere veniva considerata un problema morale, attribuendo a chi commetteva abusi verso le donne una sorta di rappresentanza di una società corrotta o priva di valori. Negli anni ’70, la teorica femminista Susan Brownmiller suggerì che lo stupro non è un atto di desiderio sessuale o perversione, ma un atto di potere. La violenza di genere diviene, quindi, uno strumento di controllo per sottomettere le donne e instillare in loro la paura.

Negli anni successivi, le studiose femministe hanno arricchito questo quadro: alcune teorie radicali hanno evidenziato il ruolo della pornografia nell’incoraggiare la violenza di genere, mentre altre hanno proposto la teoria del “cultural spillover”, suggerendo che la responsabilità dello stupro non deve essere attribuita solo a credenze e comportamenti che esplicitamente approvano la violenza di genere, ma all’intero sistema che la legittima indirettamente, come punizioni corporali, violenza istituzionale e mass media.

Tutte queste teorie convergono nell’idea che la radice della violenza di genere risieda nella gerarchia dei sessi, anche nota come “patriarcato”. Questo concetto è sostenuto da numerose leggi e disposizioni, come la Convenzione di Istanbul, che sottolinea che “la violenza contro le donne è un’espressione delle storiche disuguaglianze di potere tra i sessi, che hanno portato alla dominazione e discriminazione delle donne da parte degli uomini, impedendo così la loro piena emancipazione”.

La società patriarcale

Affermare che la violenza di genere sia intrinseca alla struttura è un’affermazione che porta a importanti conclusioni: innanzitutto, che tale violenza non è una caratteristica innata degli uomini, né è dettata da processi biologici o istinti incontrollabili; in secondo luogo, essendo un problema culturale e collegato alle dinamiche di potere, può essere sconfitto.

Il patriarcato, infatti, non rappresenta una peculiarità intrinseca maschile o una sorta di conspirazione segreta in cui gli uomini si accordano per dominare le donne. Inizialmente, il termine era utilizzato da sociologi e antropologi per descrivere una società in cui il ruolo del padre deteneva il comando principale nella comunità.

Successivamente, le pensatrici femministe hanno adottato tale espressione per indicare un sistema in cui il genere costituisce il principio organizzativo. Mentre le femministe radicali, come Kate Millett, ritengono che il patriarcato si manifesti soprattutto attraverso la sfera sessuale, le femministe marxiste hanno proposto una teoria che collega il patriarcato all’emarginazione delle donne dalla produzione e al loro confinamento nella sfera domestica.

Oggi, quando si parla di patriarcato, ci si riferisce a entrambi gli aspetti: la cultura e la struttura sociale ed economica che ne derivano. Questo ha un’importante conseguenza: le donne, così come gli uomini, sono coinvolte e partecipano alla società patriarcale, assimilandone gli schemi mentali e le prescrizioni comportamentali. La differenza sostanziale è che il movimento femminista ha permesso a molte donne di riconoscere e liberarsi da tali costrizioni, impegnandole a costruire un modo differente di concepire e vivere le proprie vite.

Per gli uomini, eccetto coloro che adottano una prospettiva femminista, questo processo è ancora in gran parte da realizzare. Parlando di cultura patriarcale e cultura dello stupro, non si intende cancellare le responsabilità individuali né attribuire la colpa a “tutti gli uomini”, ma sottolineare che tutti, indipendentemente dal genere, partecipiamo a tale cultura.

Gli uomini, tuttavia, sono investiti di una responsabilità supplementare: quella di prendere consapevolezza di questa partecipazione e cercare di smantellare le molteplici manifestazioni della cultura dello stupro che avvengono tra loro.

Dalle testimonianze di conoscenti e familiari di Filippo Turetta, emerge gradualmente che molti erano consapevoli dei suoi comportamenti ossessivi verso Giulia Cecchettin e del suo disagio psicologico. Oggi è nostro dovere interrogarci su cosa sarebbe accaduto se qualcuno avesse intervenuto anziché rimanere in silenzio e considerare i suoi atteggiamenti come semplicemente “gelosia” o da “bravo ragazzo”. Tale silenzio, indifferenza e convinzione che tutto fosse normale rappresentano la manifestazione più chiara della cultura patriarcale.