Perché analizzare congiuntamente due opere prime che si configurano quali prodotti cinematografici molto diversi come il film evento di Paola Cortellesi “C’è ancora domani” ed “Unfitting” il corto denuncia di Giovanna Mezzogiorno? Me lo hanno chiesto la giornalista Livia Ventimiglia ed il conduttore Simone Lijoi nella loro trasmissione “AAA stabilità cercasi”, in onda su Radio Cusano Campus.

“C’è ancora domani” e “Unfitting”: due opere in continuità?

La motivazione risiede nella relazione di continuità tra le due narrazioni in cui si può leggere il percorso ostacolato, travagliato e mai del tutto compiuto, che la donna ha affrontato verso la parità di genere dal dopoguerra ad oggi; le registe ci consentono di effettuare una sorta di viaggio nel tempo del processo di emancipazione femminile avvertendo tutto il travaglio da cui è nato e che l’ha accompagnato fino ad oggi, al netto di tutte le conquiste ottenute ma non privo di zone d’ombra e di interrogativi rimasti aperti.

Ma soprattutto, ciò che resta sullo sfondo è l’abuso sulla donna, da sempre presente e purtroppo mai sconfitto, che continua oggi più che mai a strisciarle attorno assumendo forme sempre nuove, manipolative e psicologicamente violente, come un serpente che ha cambiato pelle ma è sempre pronto a mordere e ad inocularle, come minimo, il veleno dell’inadeguatezza e della sudditanza.

Violenza sulla donna in “C’è ancora domani”

Sotto questa lente si comprende come nel film di Paola Cortellesi l’abuso sulla donna nel primo dopoguerra fosse talmente usuale da essere normalizzato in tutte le sue forme anche le più violente.

Una condizione, dunque, così consueta da essere stata rappresentata magistralmente ed originalmente sotto forma di danza per la sua ritualità e nella sua ripetitività all’interno della quotidianità familiare devastata da un marito e padre padrone, violento, dedito al bere, sfaccendato e libertino che non perde occasione per svalutare la nostra protagonista, la moglie Delia, di fronte a tutti e ad annientarla attraverso la violenza fisica.

Ma anche alle donne ricche e colte come quelle delle famiglie in cui Delia si reca per fare le iniezioni (uno dei tanti lavoretti cui si dedica per far quadrare il bilancio familiare) non va meglio; sono certamente delle privilegiate, ma mantenute saldamente sotto il giogo del potere maschile, come lei.

Delia che viene pagata meno dell’apprendista a cui insegna il lavoro nel laboratorio di ombrelli, Delia che suscita la rabbia della figlia adolescente Marcella perché non contrasta gli abusi del padre e che per quella figlia, così amata, per darle un futuro diverso dal suo presente, farà l’impensabile e ai cui occhi brillerà infine come una stella, stagliandosi quale esempio da seguire.

Delia che potrebbe idealmente essere la nonna della protagonista del corto di Giovanna Mezzogiorno, che è lei stessa interpretata da una brillante Carolina Crescentini.

A quasi ottant’anni dall’ottenimento del voto e con tutte le altre conquiste che le donne hanno raggiunto a costo di lacrime e sangue, quale imago dell’emancipazione femminile può apparire più iconica di quella di una attrice affermata?

L’oggettificazione del corpo femminile in “Unfitting”

Ecco che con “Unfitting”, Giovanna Mezzogiorno si rifiuta di giocare ai vestiti nuovi dell’imperatore e denuncia l’incompiutezza dell’evoluzione femminile verso la parità disvelando quella grossa crepa costituita dall’oggettificazione del corpo della donna declinata nella forma di violenza, divenuta reato nel Gennaio del 2020, del bodyshaming.

La protagonista infatti, che ha preso peso in seguito ad una gravidanza gemellare, viene sottoposta ad una insensata, arbitraria, violenta pressione alla magrezza e fatta vergognare per la forma del suo corpo per cui finisce per essere soppesata valutata e alla fine ridotta.

Il set diviene dunque un luogo ostile in cui non riesce ad indossare abiti ridottissimi, ovviamente non scelti per lei, ed in cui l’assistente di turno le suggerisce di rifarsi il decolleté quando lamenta che il reggiseno fornitole non è della sua taglia, l’addetto stampa le consiglia di accogliere i fotografi “pancia in dentro”, i critici la giudicano inadatta alle scene con il bel coprotagonista di turno che gli sarebbe stato dato come “le perle ai porci” e la regista fa collocare una lastra per deviare le luci sotto il suo volto perché.. “non vedi il doppio mento che c’ha?”.

Nove minuti serrati quelli del corto dominati dal tam tam claustrofobico che si moltiplica alle spalle della protagonista nell’espressione: “Abbiamo un problema”.

Ed il problema è lei. O meglio quel corpo che la identifica, giudicato sbagliato e che fa di lei una persona difettosa passibile di diffamazione e a cui vengono attribuiti gli status di malata, alcolista ed in fuga dalla carriera di attrice.

Gli stereotipi

Paola Cortellesi e Giovanna Mezzogiorno, tra passato e presente, raffigurano i due grandi stereotipi entro cui la donna continua ancora oggi ad oscillare e per cui subisce una violenza inarrestabile: la nutrice moglie e madre soggetta all’uomo per il mantenimento proprio e della prole e l’oggetto del desiderio che trova la propria ragione di esistere nella validazione altrui.

Un gradimento, quest’ultimo, che costa l’espropriazione del corpo, replicato in copia e che quindi costituisce la trappola estetica delle donne occidentali: un feticcio filiforme con grandi protesi apposte chirurgicamente, in voga perché remunerativo, non bello, ma soprattutto che utilmente schiavizza e devia il femminile dall’obiettivo della parità di genere.

Non solo ma è anche insano: nel mondo rovesciato di “Unfitting” le attribuzioni di malattia e dipendenza dal bere attribuite alla protagonista e clamorosamente false, riguardano non infrequentemente, nella realtà, chi tenta a tutti i costi di raggiungere e mantenere la magrezza; basti pensare alla Drunkoressia, disturbo per cui si beve per dimagrire e non si mangia per bere, un tempo sviluppato principalmente dalle modelle, ora dilagato tra i giovani adulti e diffuso naturalmente, negli ambienti in cui la donna è ridotta al suo corpo.

Per non parlare degli altri disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, da uso di sostanze, financo dell’umore cui sovente va incontro chi fa violenza al proprio corpo conoscendo le crudeli regole del gioco.

Ma in sostanza: chi s’avvantaggia di tanto impedente disagio femminile? Quel maschile che lo fomenta, lo governa e ne fa strumento di controllo, lo stesso che un tempo rispondeva come il datore di lavoro di Delia quando chiede ragione della discriminazione salariale di cui la fa oggetto pagando più di lei l’apprendista appena assunto: “Ma quello è omo no?”

O come il Produttore di Unfitting che convocata la ribelle attrice in carne sentenzia: Abbiamo un problema, sei grassa. Alla sua risposta: “Ma io sono brava!”, lapidario chiude con “Non ce ne frega un …..”

Dunque, se il film di Paola Cortellesi ci mostra da dove veniamo e non dobbiamo più tornare, il corto di Giovanna Mezzogiorno ci indica per cosa non dobbiamo lasciarci definire e quali dinamiche non tollerare e denunciare.

Dr.ssa Alexia Di Filippo – Psicologa e Psicoterapeuta