Cosa c’è di vero nel film “Il Gladiatore” e quale romanzo è ispirato? La sceneggiatura del colossal di Ridley Scott è basata su un’idea originale di David Franzoni, che si ispirò al romanzo del 1958 di Daniel P. Mannix “Those About to Die”.
Cosa c’è di vero nel film “Il Gladiatore”?
Di reale nel film “Il Gladiatore” c’è ben poco. La trama del colossal si distacca dalla storia convenzionale fin dalle campagne marcomanniche di Marco Aurelio. Invece di soccombere alla peste antonina, nel film l’imperatore viene assassinato dal figlio Commodo, mosso dalla gelosia per i favoritismi concessi a Massimo, individuato da Marco per riportare la repubblica.
Oltre alla sete di potere, il desiderio di affetto da parte del padre spinge Commodo ad attaccare Marco Aurelio e a usurpare il trono, condannando a morte Massimo e la sua famiglia. Tuttavia, Massimo sopravvive e tenta disperatamente di salvare la moglie e il figlio, ma arriva troppo tardi. Viene catturato dai mercanti di schiavi e venduto come gladiatore. Inizialmente riluttante a combattere, credendo di aver perso tutto, Massimo, dotato di abilità di combattimento straordinarie, decide di aderire alla vita da gladiatore quando apprende che lui e i suoi compagni saranno portati a Roma per partecipare ai giochi organizzati da Commodo: un’opportunità ideale per vendicarsi.
Massimo si batte nell’arena e, sorprendentemente, emerge vittorioso contro ogni aspettativa. Quando Commodo, disceso nell’arena per fare i suoi complimenti, rimane sconvolto nell’apprendere che il coraggioso gladiatore è proprio Massimo, sfuggito alla condanna a morte. Tuttavia, per non alienare il pubblico, decide di risparmiare la vita del gladiatore. Commodo, divorato dall’odio per Massimo e per il padre defunto, progetta un incontro mortale con un campione dell’arena, elaborando insidie per colpirlo: se non può ucciderlo direttamente, sfrutterà l’arena stessa per farlo. Ma ancora una volta, Massimo, contro ogni previsione, sopravvive.
Nel frattempo, alcuni senatori, con l’appoggio di Lucilla, amata in modo distorto dal fratello, tramano per assassinare Commodo e chiedono l’aiuto di Massimo. Quest’ultimo accetta, a condizione di ottenere la sua libertà e riunirsi con i suoi ex compagni d’armi per poi marciare su Roma.
La congiura, tuttavia, viene scoperta e fermata: i senatori vengono arrestati, molti compagni di Massimo perdono la vita e lui stesso viene catturato per uno scontro finale all’ultimo respiro contro Commodo. L’imperatore, venuta a conoscenza della partecipazione della sorella nella trama, la costringe a unirsi a lui come sua compagna. In preda a una pazzia sempre più intensa, Commodo minaccia Lucilla nel caso in cui rifiuti, costringendola a compiere l’atto finale di uccidere suo figlio Lucio. Nel suo delirio, si vanta di essere “Commodo il misericordioso” per aver risparmiato la vita di Lucilla.
Nel frattempo, il principe non intende affrontare Massimo in modo leale: dopo averlo ferito, copre la ferita con la sua armatura per rimanere invisibile agli occhi dello spettatore nel Colosseo. In questa atmosfera surreale, tra petali di rosa e un pubblico in estasi per lo spettacolo, ha inizio il cruento scontro.
Pompeiano e Massimo Decimo Meridio
La figura di Massimo Decimo Meridio può essere associata a Tiberio Claudio Pompeiano, la cui storia inizia nella Siria, ad Antiochia, intorno al 125. Figlio di Tiberio Claudio Quinziano, un cavaliere romano, fu il primo della sua famiglia a raggiungere il rango senatoriale, probabilmente ottenuto dopo che la famiglia aveva ricevuto la cittadinanza durante il regno di Claudio. Nel 162 divenne console suffetto, e successivamente fu nominato governatore della Pannonia Inferiore intorno al 167. Si distinse probabilmente durante la guerra partica di Lucio Vero e Avidio Cassio (161-166), guadagnandosi il favore di Marco Aurelio. Mentre era governatore della Pannonia Inferiore (corrispondente all’attuale Ungheria), difese il confine del Danubio dall’attacco di 6000 Longobardi. Quando iniziarono gli attacchi dei Marcomanni, contribuì alla difesa insieme a Lucio Vero e Marco Aurelio, nonostante la devastante peste antonina, probabilmente il vaiolo, che affliggeva l’area a causa dei distaccamenti delle legioni inviate in Oriente per la campagna partica.
Nel 169, Marco Aurelio scelse di dare in sposa a Pompeiano sua figlia Lucilla, che era stata precedentemente sposata a Lucio Vero, co-imperatore di rango inferiore a Marco Aurelio e recentemente deceduto a gennaio dello stesso anno, quando i due imperatori si erano ritirati ad Aquileia per l’inverno. In questo modo, Pompeiano divenne figlio adottivo di Marco Aurelio, seguendo la tradizione dell’adozione presente nella dinastia Antonina fin dai tempi di Nerva (96-98), che aveva adottato Marco Ulpio Traiano. Marco Aurelio propose a Pompeiano il titolo di Cesare, suggerendo una possibile successione come imperatore, ma Pompeiano rifiutò. Tuttavia, fu nominato comandante della guerra marcomannica insieme a un altro veterano, Pertinace, che in seguito divenne imperatore dopo la morte di Commodo nel 193.
Le vittorie di Pompeiano gli valsero un secondo consolato, stavolta ordinario, nel 173. Alla morte di Marco Aurelio nel 180, la guerra era quasi terminata, ma Commodo, figlio e successore dell’imperatore, decise di concludere la pace con i barbari e tornare a Roma, un atto contrario ai desideri di Pompeiano, tecnicamente fratellastro dell’imperatore. Nel 182, Lucilla tentò di assassinare il fratello senza successo. Sebbene Pompeiano non fosse coinvolto nella congiura e rimase libero, la sorella venne giustiziata. Tuttavia, il senatore siriano si ritirò dalla vita pubblica.
In una sorta di beffarda ironia, fu un gladiatore a porre fine alla vita di Commodo. Dopo diverse congiure fallite, Commodo fu strangolato da Narciso, il gladiatore con cui si allenava, dopo un primo tentativo di avvelenamento. L’intera congiura fu organizzata da Marcia, concubina dell’imperatore, e Emilio Leto, prefetto del pretorio. Si narra che un ragazzo di nome Filocommodo, con cui giocava l’imperatore, trovò un foglietto di carta che, non sapendo leggere, utilizzava per giocare. Successivamente, lo consegnò a Marcia, la quale vi lesse la lista di persone che l’imperatore desiderava eliminare, trovandovi anche il suo nome. La congiura fu rapidamente organizzata e questa volta ebbe successo. Alla morte di Commodo il 31 dicembre del 192, Pertinace, prefetto urbano, offrì la porpora a Pompeiano, ma per la seconda volta rifiutò. I pretoriani, infatti, avevano già proclamato Pertinace come imperatore. Pertinace accettò l’offerta, ma venne ucciso dai pretoriani stessi dopo soli 87 giorni di regno, durante i quali, plasmato da anni di dure guerre, cercò di imporre un severo ordine.
Questo evento segnò uno dei periodi più oscuri nella storia di Roma: i pretoriani mise all’asta il titolo imperiale e il vincitore fu Didio Giuliano, che comprò effettivamente l’impero. Didio Giuliano offrì nuovamente la porpora al fratellastro di Commodo, che per la terza volta rifiutò di accettare.