Cosa si può fare in concreto per contrastare la violenza di genere? L’attività e l’aiuto dei centriantiviolenza è fondamentale, soprattutto in questo periodo storico dove gli episodi di maltrattamenti sono all’ordine del giorno.
Una donna a Palermo però ha deciso di andare oltre, di far sì che la sua personale esperienza di vita potesse diventare un messaggio di speranza per le altre vittime. Una donna in Sicilia ha deciso di aprire un laboratorio di cucina dove si trasformano materie prime – un po’ come accade alla vita delle donne che lavorano lì – in conserve e prodotti artigianali, offrendo alle persone un percorso di reinserimento nel mondo del lavoro, oltre che ad una via d’uscita dalla violenza.
Nicoletta Cosentino è la fondatrice di “Cuoche combattenti” e Tag24 ha parlato con lei della sua storia, dell’attività di sostegno alle donne vittime di violenza che lavorano nel laboratorio.
La storia di “Cuoche combattenti”: contrastare la violenza di genere con percorsi di reinserimento nel mondo del lavoro
Tag24 ha intervistato Nicoletta Cosentino del Laboratorio di “Cuoche combattenti” a Palermo, una struttura che ha come missione quella di aiutare le donne vittime di violenza, fornendo loro nuove prospettive di vita grazie all’emancipazione economica, lavorativa e psicologica.
D: Qual è lo scopo che anima l’associazione/laboratorio di “Cuoche combattenti”?
R: “Cuoche combattenti” è un laboratorio di produzione alimentare che si occupa di produrre conserve, confetture, pesti. Trasforma frutta e ortaggi in conserve, facciamo anche prodotti da forno. Tutto è realizzato con prodotti locali, da agroecologia e coltivazioni biologiche. Puntiamo sulla produzione artigianale. Ci occupiamo di produzione e vendita.
D: Il nome che avete scelto dice molto. Qual è la storia di “Cuoche combattenti”?
R: Nasce come strumento per creare percorsi e accompagnare le donne seguite nei centri antiviolenza, in uscita per lo più da situazioni di violenza domestica. O anche per esempio per donne migranti. Questi percorsi sono dei tirocini formativi di reinserimento lavorativo che durano generalmente un anno. Le donne qui possono non solo acquisire competenze e crearsi un bagaglio professionale ma anche intraprendere un percorso di consapevolezza.
Il laboratorio è un ambiente molto accogliente, che conosce bene il problema perché nasce da una mia idea, che per prima ho fatto un tirocinio di reinserimento lavorativo grazie al centro antiviolenza a cui mi ero rivolta per la mia situazione personale. E’ un luogo che conosce bene questi percorsi.
L’idea che accompagna questo progetto è anche far parlare le nostre conserve grazie ad una “etichetta parlante” che noi chiamiamo etichetta antiviolenza. E’ un adesivo con diverse frasi brevi che smontano stereotipi di ruolo, che smascherano gli abusi che spesso nelle coppie sono normalizzati. E’ un rimando ai rapporti sani. Frasi come: “Chi ti ama non ti controlla”, “Chi ti ama vuole solo che tu sia felice”, “Sei libera, non appartieni a nessuno, mai”. Speriamo che le donne che si ritrovano con i nostri barattoli in mano riflettano sulla propria condizione.
La fondatrice di “Cuoche combattenti”: “Sono sopravvissuta alla violenza riconquistando la mia libertà grazie alla passione per la cucina”
D: Il progetto di “Cuoche combattenti” parla della sua vita personale. Raccontare la propria storia di violenza è stato difficile?
R: Dietro i barattoli c’è un racconto, quello della mia storia personale che ho scelto di raccontare. Ho deciso di parlare di ciò che mi è successo: sono una donna che con l’aiuto del centro antiviolenza è riuscita piano piano ad uscirne fuori. Una storia diciamo positiva.
D: L’idea di consentire alle donne di riappropriarsi della propria vita e della libertà partendo dall’indipendenza economica come mai si è legata alla cucina? Perché ha scelto di unire questi due aspetti?
R: Parte tutto dalla mia storia. Dopo essermi rivolta al centro antiviolenza – che non è solo uno sportello di ascolto, ma molto altro, lo dico sempre – ho avuto l’opportunità di scegliere di seguire un tirocinio di sei mesi, in un momento molto difficile della mia vita. Dopo tanti anni di abuso psicologico capita di avere un’autostima molto bassa, difficoltà a capire quali siano davvero i propri bisogni e anche le proprie passioni. Per cui dopo anni, mi sono aggrappata all’unica passione che era rimasta in piedi: la cucina.
Ho seguito un corso in un laboratorio che si occupava di trasformazione alimentare, dove ho iniziato ad acquisire le competenze necessarie che poi mi hanno permesso di dare vita a “Cuoche combattenti”. Quando ho ricevuto il primo stipendio ho capito che i soldi erano uno strumento di libertà perché ho iniziato a progettare il mio futuro, senza dover dare giustificazioni a nessuno. Potevo liberamente gestire la mia vita e quella dei miei figli. Lì ho capito l’importanza dell’indipendenza economica.
Un messaggio di speranza per le donne vittime di violenza: “Le relazioni umane ti salvano, la paura può essere sconfitta combattendo l’isolamento”
D: La sua storia personale fa capire che da un momento di fragilità e di grande sofferenza può nascere speranza. Che messaggio vuole dare a chi si trova nella sua stessa situazione?
R: Io credo che in queste situazioni siano fondamentali le relazioni, soprattutto quelle con le altre donne. Perché spesso la violenza domestica o quella psicologica portano ad un isolamento che quindi limita il confronto e la possibilità di vedere la realtà che si ha attorno. La consapevolezza nella solitudine è più difficile da raggiungere. L’interazione con altre donne che si sono trovate in situazioni simili può aiutare molto a capire cosa si sta vivendo.
Io stessa quando mi sono rivolta al centro antiviolenza non avevo piena consapevolezza di quello che mi stava accadendo; avevo capito di aver bisogno di aiuto ma pensavo di togliere il posto a qualcuno che avesse più necessità di me. Spesso se non c’è un abuso fisico si fa fatica a realizzare che si sta subendo una violenza economica o psicologica magari perché di solito queste situazioni si associano all’aggressività dei comportamenti. La violenza non sempre è esplicita.
Esiste una sorta di meccanismo di sopravvivenza in chi subisce violenza, per cui le vittime cercano di evitare tutta una serie di situazioni che potrebbero portare a degli scatti d’ira. E’ un processo insidioso perché blocca la persona: si tende a fare meno, pensare meno, interagire meno, prevenendo i pericoli, restando “il più buona possibile”. Questo meccanismo ti autoimprigiona sempre di più, non risolvendo assolutamente il problema alla radice. Di conseguenza scatta un’immobilità che poi diventa molto difficile da scardinare. Subentra la paura, per chi riceve abusi, anche per i figli magari.
Ecco due approfondimenti sulla questione della violenza di genere: Tag 24 ha intervistato la Presidente del Centro Antiviolenza “La Nara di Prato” e l’attivista Viola Paolinelli dell’associazione “Lucha y Siesta” di Roma.