Nel corso dell’udienza tenutasi oggi, 13 novembre, davanti alla Corte d’Assise del Tribunale di Milano, il pm che segue il caso di Alessia Pifferi, finita a processo per aver fatto morire di stenti la figlia di 18 mesi, ha puntato il dito contro le psicologhe che hanno visitato la 38enne in carcere, sostenendo che l’abbiano aiutata a fornire una versione diversa rispetto a quella precedentemente avanzata sulla morte della piccola Diana, avvenuta nel luglio del 2022.
Processo ad Alessia Pifferi, scontro in aula sui colloqui psicologici
Sono accuse pesanti, quelle rivolte dal pubblico ministero Francesco De Tommasi alle psicologhe che hanno visitato Alessia Pifferi all’interno del carcere di San Vittore, dove la donna è reclusa per l’omicidio della figlia Diana, morta di stenti a 18 mesi dopo essere stata lasciata sola in casa per quasi una settimana.
La sua richiesta, formulata nel corso dell’udienza tenutasi oggi, è che l’esperto incaricato di effettuare la perizia psichiatrica sulla 38enne per stabilire se fosse o meno capace di intendere e di volere al momento dei fatti – il professor Elvezio Pirfo – non tenga conto delle relazioni stilate dalle dottoresse, che avrebbero spinto Pifferi a fornire agli inquirenti “una versione differente rispetto a quella che spontaneamente aveva fornito sin dall’inizio”, in ottica difensiva.
Nelle relazioni si parlerebbe, in particolare, della mancata elaborazione del lutto del padre e del nonno da parte della donna, che avrebbe visto nel suo nuovo compagno una sorta di figura paterna. Da lui si era recata quando, nell’estate dell’anno scorso, abbandonò la figlia neonata in un lettino da campeggio con un solo biberon di latte, provocandone la morte.
Stando a quanto ricostruito nel corso delle indagini, le avrebbe dato dei tranquillanti per non farla piangere. Quando era tornata a casa, circa sei giorni dopo, il suo corpicino era privo di vita. Lei aveva dato l’allarme, ma, come aveva testimoniato una vicina di casa, era apparsa più preoccupata per le conseguenze delle sue azioni che per la morte della bambina.
Il punto di vista della difesa e quello delle parti civili
Il legale che difende la 38enne, l’avvocato Alessia Pontenani, sostiene che Pifferi non fosse in grado di intendere e di volere. Fin dall’inizio punta il dito contro la madre e la sorella della sua assistita, la nonna e la zia della piccola Diana, costituitesi parte civile al processo, sostenendo che siano responsabili quanto lei per la morte della bambina.
Sembra infatti che Pifferi sia affetta da un “vizio parziale di mente”, un “ritardo mentale” che non le avrebbe consentito di badare in autonomia alla bimba. Una versione dei fatti che la sorella Viviana ha sempre rigettato con forza: secondo lei Alessia sarebbe una “persona normale” e, anzi, avrebbe sempre rifiutato l’aiuto che la famiglia le offriva per occuparsi di Diana.
Lo ha ribadito anche nel corso di un’esclusiva intervista rilasciata a Fabio Camillacci e Tiziana Ciavardini su Radio Cusano Campus, facendo sapere che difficilmente potrà perdonarla per ciò che ha fatto. Come lei e la madre anche l’accusa è convinta che Pifferi fosse lucida e consapevole di poter provocare il decesso della figlia.
Non era la prima volta, del resto, che la lasciava da sola. La viveva come un “peso” alle sue relazioni amorose. Forse, dentro di lei, sperava addirittura che morisse, per potersi costruire un futuro migliore, nonostante adesso dica di averle voluto bene e di non aver mai pensato neanche un momento di farle del male.
Parlavamo della vicenda anche in questo articolo: Processo ad Alessia Pifferi, i testimoni: “Lasciava sola la piccola Diana e usciva in limousine”