È ancora scontro tra la Curia potentina e la famiglia di Elisa Claps, la 16enne trovata morta a 17 anni dalla sua scomparsa nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità, da poco riaperta al culto. Dopo l’intervista rilasciata dall’arcivescovo Salvatore Ligorio al Corriere della Sera, il fratello della ragazza, Gildo, ha deciso di dire la sua attraverso le pagine dello stesso giornale, tirando in causa anche Papa Francesco.

Elisa Claps, il fratello Gildo risponde alle dichiarazioni rilasciate dal vescovo Ligorio

Non si tratta solo di accettare o non accettare la riapertura al culto della Chiesa che per quasi vent’anni ha nascosto il corpo della sorella: è, più in generale, una questione di giustizia. Chi per anni ha cercato di celare la verità sul caso dovrebbe ora assumersi le sue responsabilità.

È questo il nodo del discorso affrontato da Gildo Claps attraverso le pagine del Corriere della Sera, che ieri, 12 novembre, aveva riportato le parole dell’arcivescovo di Potenza Salvatore Ligorio. Parole dure, con cui l’uomo difendeva la Chiesa e coloro che ne facevano parte, incluso il parroco don Mimì Sabia, dall’accusa di essere coinvolte nell’occultamento del cadavere della ragazza uccisa nel 1993 da Danilo Restivo.

Parole a cui Claps ha ora risposto senza esitazioni.

La riconciliazione con la Curia di Potenza e, soprattutto con Ligorio, è impraticabile. Solo l’intervento del Santo Padre potrà aprire uno spiraglio di ragionevolezza per trovare una via d’uscita. Noi parleremo solo con i livelli più alti del Vaticano per chiudere questa storia. Non riconosciamo nessun ruolo della Chiesa di Potenza,

ha dichiarato al giornalista Carlo Macrì, smentendo anche l’affermazione secondo cui lui e la sua famiglia avrebbero chiesto un risarcimento alla Chiesa potentina, che di recente aveva dedicato a don Mimì, la più controversa delle figure legate al caso di Elisa, una targa commemorativa.

La vicenda sembra essere tutt’altro che vicina a una risoluzione, anche se l’arcivescovo auspicava un dialogo, promettendo la pubblicazione di un dossier interamente dedicato alla vicenda della 16enne.

Lo aspetto con ansia – è stato il commento del fratello -. Magari lo tirassero fuori. Loro hanno una sola verità assoluta ed è quella che dicono loro. Continuano a difendere don Mimì Sabia.

Il controverso ruolo di don Mimì Sabia nella vicenda di Elisa

La famiglia di Elisa è convinta che il parroco fosse a conoscenza di quanto accaduto e abbia deliberatamente deciso di tenerlo nascosto, celando il corpo della 16enne, che sarebbe stato ritrovato solo nel 2010, quando lui era già morto. Lo avrebbe fatto per proteggere Danilo Restivo, figlio di amici di famiglia, pur avendo sostenuto pubblicamente di non conoscerlo.

L’uomo, oggi 51enne, è detenuto in Inghilterra, dove è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio della vicina di casa Heather Barnett, trovata morta a 52 anni nel 2002. In Italia, dopo il ritrovamento del cadavere di Elisa, è stato invece condannato a 30 anni. Si è scoperto, nel tempo, che aveva già avuto problemi che la famiglia aveva cercato di nascondere, anche con l’aiuto della Curia potentina.

Come quando, girando per i bus della città, aveva preso a tagliare i capelli delle ragazze che incontrava: un dettaglio che più avanti sarebbe divento la sua firma da assassino. Se nel 1993 – quando si presentò in ospedale con le mani ferite e i vestiti sporchi di sangue, dicendo di essere caduto – fosse stato fermato e perquisito (visto che Elisa era già sparita), forse la sua seconda vittima ora sarebbe ancora viva.

Per anni, invece, nonostante i sospetti della famiglia, è rimasto impunito e, indisturbato, ha potuto trasferirsi a Londra, dove si è sposato. Sembra che don Mimì gli avesse concesso le chiavi della Chiesa. Quando la madre di Elisa, Filomena, lo aveva interrogato sul destino di sua figlia – avvistata per l’ultima volta proprio nel luogo sacro – il parroco aveva parlato di lei al passato, come se sapesse già della sua morte.

Ne parlavamo anche in questa esclusiva intervista: Omicidio di Elisa Claps, una storia lunga 30 anni. Fabio Sanvitale, autore di un libro sul caso: “Parlare della vittima è l’unico modo per tenerla in vita”