L’apartheid, la nota politica di segregazione razziale in Sudafrica, è stato uno dei capitoli più oscuri nella storia del XX secolo. Tuttavia, la comunità internazionale non è rimasta a guardare. L’azione decisiva dell’ONU il 6 novembre 1962 ha segnato una svolta significativa nella lotta contro l’apartheid, attraverso la significativa Risoluzione 1761.
L’azione dell’ONU contro l’apartheid in Sudafrica
Il 6 novembre 1962 rappresenta una data storica nella lotta globale contro l’apartheid. Quel giorno, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite prese una posizione decisa contro la segregazione razziale in Sudafrica, adottando la risoluzione 1761. Questa mossa costituì un forte invito a tutti gli stati membri a cessare ogni forma di relazione diplomatica e commerciale con il Sudafrica di allora.
La risposta internazionale al massacro di Sharpeville
Il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960, in cui 69 persone persero la vita durante una protesta pacifica, suscitò indignazione mondiale. Ciò ebbe un’influenza diretta sulla susseguente azione delle Nazioni Unite, accelerando la presa di posizione contro le politiche di segregazione del Sudafrica e portando all’adozione della risoluzione che condannava il regime razzista.
Il 21 marzo, proprio in ricordo del massacro di Sharpeville, è stato istituito come “Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale” dall’ONU. Questo giorno continua a servire come promemoria della lunga lotta contro l’apartheid e della vittoria finale della giustizia e dell’uguaglianza.
Il progressivo isolamento internazionale del Sudafrica
Nonostante alcuni paesi occidentali mantenessero le relazioni commerciali con il Sudafrica, l’opposizione all’apartheid continuò a crescere. Le Nazioni Unite dichiararono l’apartheid un crimine contro l’umanità nel 1973 e sospesero il Sudafrica dall’Assemblea Generale l’anno successivo, segnando l’inizio di un isolamento sempre più marcato che avrebbe contribuito alla fine delle politiche segregazioniste.
Apartheid in Sudafrica: origini e impatto sociale
L’apartheid, che significa “separazione” in afrikaans, venne ufficialmente istituito nel 1948, anche se le sue radici si possono rintracciare fino al primo ministro Jan Smuts nel 1917. Durante il suo regime, milioni di uomini e donne di etnia bantu furono forzatamente sradicati dalle loro case e confinati nei bantustan, perdendo i loro diritti politici e civili.
Negli anni ’60, il Sudafrica vide 3,5 milioni di cittadini di colore, definiti come bantu, brutalmente sradicati dalle loro case e relegati nelle homeland del sud. Questo esodo forzato privò intere comunità dei loro diritti civili e politici. L’accesso all’istruzione era limitato e controllato, e i movimenti erano vincolati dall’uso di passaporti interni, un sistema punitivo che mirava a mantenere i cittadini di colore segregati e isolati dall’ambiente urbano.
Alla base della politica di segregazione vi era un mix di teorie razziste e religiose. L’idea di “sviluppo separato” era propagandata come mezzo per consentire a ogni gruppo razziale di evolversi secondo le proprie tradizioni. Tuttavia, la realtà era un rigido sistema di separatismo che danneggiava soprattutto le minoranze etniche.
Il tessuto sociale del Sudafrica era complesso, con la popolazione nera e meticcia (coloureds) che costituiva circa l’80% della demografia nazionale, mentre la minoranza bianca si divideva tra discendenti britannici e Afrikaner. Quest’ultima frangia, pur essendo minoritaria a livello nazionale, esercitava un’enorme influenza politica e manteneva posizioni di potere all’interno del governo.
La resistenza all’apartheid
Il sistema dell’apartheid incontrò resistenze fin dai suoi esordi, con proteste che furono spesso violentemente represse. La situazione si aggravò ulteriormente quando nel 1975 fu imposto l’uso dell’afrikaans e dell’inglese nelle scuole, una decisione che evidenziava la crescente pressione culturale e linguistica esercitata dal governo. Questa politica fu vista come un tentativo di minare ulteriormente l’identità e l’autonomia della popolazione di colore.
Dopo la condanna dell’apartheid da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1962, seguirono sanzioni internazionali, inizialmente osteggiate da potenze come il Regno Unito e gli Stati Uniti, che successivamente adottarono una posizione più critica. Un momento significativo fu l’esclusione del Sudafrica dalle Olimpiadi, una mossa che contribuì a enfatizzare l’isolamento internazionale del paese.
Nel contesto sportivo, atleti come Malcolm Spence e Zola Budd divennero simboli di resistenza e successo, nonostante l’isolamento internazionale. L’immagine di Budd che correva scalza divenne un’icona di speranza e di sfida alle ingiustizie del regime dell’apartheid.
Il declino dell’apartheid in Sudafrica e l’ascesa di nuovi simboli
La liberazione di Nelson Mandela nel 1990 e la sua elezione a Presidente nel 1994 segnarono la fine delle politiche segregazioniste e l’alba di una nuova era per la popolazione sudafricana. La “festa della libertà” celebrata il 27 aprile commemora l’anniversario delle prime elezioni democratiche del paese.
Con la fine dell’apartheid, il Sudafrica tornò a competere sul palcoscenico internazionale. Momenti storici come la vittoria di Derartu Tulu e Elana Mayer mano nella mano nei 10.000 metri o il trionfo di Josia Thugwane nella maratona olimpica di Atlanta 1996, divennero icone di un paese che si stava lentamente rialzando dalle ceneri di un’era dolorosa.