Continua la vertenza sindacale di La Perla, l’azienda made in Italy conosciuta in tutto il mondo per la sua lingerie di lusso e oggi abbandonata a se stessa.

Acquistata nel 2018 dal finanziere tedesco Lars Windhorst attraverso il fondo Tennor, l’azienda bolognese vive da anni in una fase di stallo
surreale. Nonostante i ripetuti accordi – l’ultimo sottoscritto il 5 settembre scorso – la proprietà continua a rimandare la presentazione di un piano di rilancio e, soprattutto, lo stanziamento dei 70 milioni di euro necessari a far ripartire l’attività produttiva ferma oramai da mesi e mesi.

Raccontare quanto sta accadendo a La Perla è necessario perché la sua storia è quella di realtà produttiva di eccellenza nata nel territorio bolognese e presto arrivata a conquistare il mercato del lusso in tutto il mondo.

Una storia grandiosa, la sua, oggi protetta dalla tenacia delle lavoratrici che con la loro creatività hanno contribuito a rendere grande la moda italiana e che oggi si trovano a lottare per difendere la loro azienda dalla speculazione finanziaria internazionale, che priva i territori e l’intero Paese di realtà produttive di eccellenza che andrebbero custodite a beneficio delle nuove generazioni, così come ci racconta Stefania Pisani, segretaria generale Filctem-Cgil di Bologna che da anni segue questa vertenza sindacale.

La Perla: la storia dell’azienda dall’uscita della famiglia Masotti nel 2007 alla gestione Scaglia del 2013

Stefania Pisani, come si è arrivati a questo punto? Possiamo ripercorrere insieme la storia della vertenza La Perla?

«La Perla viene fondata nel 1954 da Ada Masotti, la cui famiglia rimane a capo dell’azienda fino al 2007. È in quest’anno che la Perla viene ceduta al fondo americano JH Partners e il mondo finanziario inizia ad entrare nella storia delle azienda.

Al momento della cessione, completata nel 2008, La Perla conta circa 1180 dipendenti. Nell’ottobre del 2012 il numero dei lavoratori è però già sceso a 876. La gestione di Jeff Hansen, infatti, si rivela completamente fallimentare e porta La Perla sull’orlo del fallimento.

L’avvio della procedura di concordato e la messa all’asta dell’azienda porta, nel giugno 2013, all’acquisto del marchio da parte dell’imprenditore Silvio Scaglia, già azionista di Fastweb e presidente della Pacific Global Management.

Acquistata La Perla, Scaglia rimette in piedi una strategia di sviluppo che si era completamente interrotta nella fase di gestione del fondo americano puntando particolarmente sulla rete retail, fondamentale per un brand di corsetteria del lusso conosciuto in tutto il mondo. Al momento della gestione Scaglia i dipendenti sono 703.

Nel suo progetto di rilancio, Scaglia mette al centro il recupero delle professionalità che La Perla aveva progressivamente perso. Si tratta di un punto importante: il vero patrimonio di eccellenza di questa azienda sono infatti le professionalità che vi lavorano, vere e proprie maestranze in grado di lavorare artigianalmente i prodotti, di ricamare – e non cucire – pizzi particolarissimi che vengono fatti con telai del 1700.

Purtroppo, tuttavia, la gestione Scaglia porta a un sovraindebitamento che, unito ad altri errori, porta alla cessione dell’azienda nel 2018».

La Perla: l’ingresso del Fondo Tennor nel 2018 e l’avvio della vertenza

È a questo punto che nella storia de La Perla compare il Fondo Tennor e  Lars Windhorst?

«Esatto. È qui che entra il scena il fondo Tennor, gestito da Lars Windhorst, un finanziere tedesco che già allora si era distinto per un passato finanziario poco rassicurante.

Pochissimi mesi dopo l’acquisto di Windhorst e l’annuncio di un ingente investimento, nel luglio 2019 il Fondo decide di licenziare ben 126 unità, quasi tutte circoscritte all’ambito della produzione, ovvero le professionalità cui facevo riferimento prima. Inizia una fase piuttosto turbolenta che ci porta al Mise, il Ministero dello Sviluppo Economico.

Grazie a un accordo, riusciamo a circoscrivere le uscite alle colleghe prossime alle pensione. Tentiamo, in altre parole, di ridurre il danno. In tutto questo, continua a non arrivare il Piano di sviluppo e rilancio atteso. E arriviamo al 2020».

Anno in cui scoppia il Covid. Come reagisce l’azienda?

«Con il Covid, ovviamente, tutto si ferma. Terminata la fase della pandemia, però, iniziamo ad alzare i toni all’interno dell’azienda. Mentre tutto il settore dell’abbigliamento di lusso riparte immediatamente – e presto supera i tassi di crescita precedenti al Covid – La Perla rimane ferma perché l’azienda non solo non manda i fondi, ma neanche paga i debiti con i fornitori che, giustamente, iniziano a rifiutarsi di consegnare la materia prima.

A quel punto, il Fondo ci chiede di attivare gli ammortizzatori sociali e inizia a parlare della necessità di individuare dei partner che possano immettere liquidità in azienda.

Arriviamo così nel settembre 2022, quando, in assenza di liquidità, viene attivato il contratto di solidarietà alle lavoratrici per due giorni a settimana fino al febbraio 2023.

Come organizzazione sindacale, in questo lasso di tempo, continuiamo a farci sentire per avere risposte circa l’individuazione di questo partner cui accennavo prima. Le risposte, però, si fanno sempre più vaghe».

Vertenza La Perla: nel 2022 lavoratrici e sindacato decidono di fare emergere la crisi

Cosa succede alla scadenza del contratto di solidarietà?

«Succede che imponiamo all’azienda un ragionamento che porti fuori da questa situazione di stallo cui cercano di riporre rimedio solo le lavoratrici. Sì, perché in assenza di materiali queste meravigliose maestranze di cui parlavo prima si sono attivate per ovviare a tutte le mancanze causate dalla gestione del Fondo. Faccio solo un esempio: mancando i gancetti per i reggiseni, le lavoratrici hanno iniziato a progettare prodotti che ne fossero privi.

Come sindacato, ci opponiamo a un nuovo rinnovo del contratto di solidarietà per due giorni a settimana, chiedendo fosse portato a solo uno. L’incapacità gestionale, d’altronde, non può ricadere né sulle spalle delle lavoratrici né tanto meno sulla collettività.

Chiediamo, inoltre, che questi mesi di ulteriore stallo siano utilizzati per procedere alla riqualificazione professionale delle maestranze presenti in azienda in una logica di transizione ecologica del settore. Pensiamo a cosa si sarebbe ottenuto se ci avessero ascoltato: un’azienda non solo unica al mondo, in grado di produrre prodotti di lusso senza eguali, in grado di certificare anche il rispetto dell’ambiente nella sua produzione.

È proprio in questa fase, infine, che decidiamo di coinvolgere la regione Emilia Romagna e di far emergere la crisi. A differenza di tutti i momenti precedenti – e delle altre crisi di cui sentiamo parlare in Italia – questa vertenza non nasce da una procedura di licenziamento sul tavolo o dalla volontà dell’azienda di chiudere lo stabilimento. Nasce per volontà delle lavoratrici che chiedono alle Istituzioni e all’opinione pubblica di osservare cosa sta accadendo».

Vertenza La Perla: la convocazione del tavolo al MIMIT e la denuncia della speculazione finanziaria in atto

«A maggio 2023 arriviamo così in regione Emilia Romagna dove finalmente si presenta, seppur in collegamento e con schermo oscurato, Lars Windhorst, il quale promette di fronte al tavolo istituzionale l’immissione a stretto di giro di un importo pari a 60-70 milioni di euro destinati al rilancio del sito bolognese.

Peccato che di questo stanziamento non arrivi nulla nei tempi prestabiliti, ovvero le prime due settimane di giugno. Dalla stampa internazionale, però, apprendiamo che il signor Windhorst ha appena acquistato, per tramite del Fondo Tennor, una villa milionaria a Beverly Hills del valore di 49 milioni di euro.

Nel frattempo anche la Regione continua a richiamarlo, ma lui sparisce. A quel punto decidiamo di chiedere la convocazione di un tavolo al MIMIT, il Ministero delle Imprese e del Made in Italy. Anche perché i pezzi del puzzle, messi insieme, sono chiari: La Perla è sotto scacco di una finanza speculativa internazionale che mangia l’economia reale.

Ci spieghi meglio.

Il progressivo ridimensionamento dell’organico, il duplicarsi di funzioni manageriali tra siti londinesi e bolognesi, l’incremento di debiti nei confronti di buona parte dei fornitori, la riduzione della produzione, la mancanza di nuove collezioni, la contrazione della rete di retail nazionale ed estera, l’assenza di flussi di finanziamento programmati. Tutti elementi che credo spieghino bene la situazione.

Guardiamo poi agli ultimi dati de La Perla Fashion Holding, la società quotata in borsa che detiene tutti gli asset di La Perla. Bene: dal 2019 al 2022 vediamo non solo la progressiva contrazione dei ricavi, ma anche l’aumento esponenziale dell’indebitamento netto.

Il bilancio per l’anno 2022 segna una perdita pari a 49 milioni di euro, che però per assurdo vengono pagati dal Fondo senza accedere al credito bancario. I soldi, dunque, ci sono. Perché allora si usano per pagare i passivi e non per consentire all’azienda di autofinanziarsi e produrre?

La Perla, tutte le ombre della gestione del Fondo Tennor di Lars Windhorst

Dov’è la razionalità imprenditoriale di questa scelta?

«Mi sembra evidente non ci sia. Può essere che ci sia una razionalità finanziaria e che la ragione sia chiedere degli aumenti di capitale in maniera tale che ci siano investimenti di azionariato diffuso ai quali poi non restituire il capitale investito? È lecito avanzare un simile sospetto?

Questa è la risposta che chiediamo alle nostre Istituzioni che, a differenza del sindacato, possono avere gli strumenti per indagare. Certamente guardando alla storia del fondo Tennor qualche dubbio viene.

Qua stiamo ragionando nell’ambito del lusso, settore per cui è fondamentale avere una rete retail a livello globale. Se si guardano i numeri, si vede come fino a settembre 2023 si sia registrata una riduzione del 70% della rete retail globale, dell’85% di quella nazionale e dell’85% del wholesale, ovvero il reddito certo di un’azienda che opera nell’abbigliamento di lusso.

In queste ultime settimane hanno chiuso tutti i negozi americani. Le merci, nel frattempo, sono bloccate alle dogane. La produzione è minima nonostante la richiesta del mercato sia enorme. I server aziendali, infine, sono stati spenti e dal sito web, pur attivo, non si riesce a comprare nulla.

Ciliegina sulla torta, infine, la notizia di due sera fa data da Bloomberg, noto giornale finanziario internazionale, circa la richiesta di fallimento per La Perla UK London perché due creditori hanno chiesto l’equivalente del nostro decreto ingiuntivo per debiti erariali.

Questo fatto mi fa venire i brividi, perché noi da mesi chiediamo all’azienda di avere contezza dei versamenti fatti per i contributi trattenuti dalle buste paga delle nostre dipendenti. Non abbiamo ancora ricevuto risposta, ma certamente la notizia di debiti erariali a Londra non ci rende serene affatto».

Vertenza La Perla, il 6 novembre nuovo incontro tra sindacati e MIMIT

Come è possibile che si accetti che una azienda italiana di eccellenza subisca questa simile situazione?

«Questa è la domanda che dovremmo farci tutti. Come possiamo permettere che le nostre maestranze, che sono depositarie di arti secolari e normalmente femminili, vengano spolpate da uno speculatore che non ha alcun interesse di niente?

Perché non possiamo trasferire alle nuove generazioni un’azienda che noi abbiamo ereditato, che si potrebbe sviluppare con una scuola del sapere in grado di trasmettere queste meravigliose abilità nel tempo?

L’anno prossimo La Perla farà 70 anni. Eppure non c’è una collezione pronta, non c’è un’iniziativa per celebrare questa storia».

Che rassicurazioni avete ricevuto dal ministero?

«Il MIMIT ha mostrato sicuramente una grande attenzione alla nostra voce, anche perché Lars Windhorst con il suo atteggiamento ci ha aiutato. Si è presentato alla convocazione via video, apparendo sul suo jet privato, salvo tagliare la conversazione non appena terminato il suo intervento. Come da lui spiegato, infatti, aveva riunioni più importanti a cui partecipare…».

Il 6 novembre sarete nuovamente al ministero delle Imprese e del Made in Italy. Cosa chiederete?

«Continueremo a chiedere il piano industriale per il rilancio e un piano di finanziarizzazione. Vogliamo che i soldi siano vincolati già da oggi, altrimenti avremo davanti la solita dichiarazione di intenti irrealizzabile.

Non possiamo più perdere tempo. Non possiamo permettercelo: nelle condizioni attuali l’azienda rischia di sparire. Abbiamo bisogno urgentemente di imprenditori seri che abbiano a cuore le maestranze di questo Paese e che vogliano portare in alto il nostro made in Italy. Servono sicuramente i soldi, ma ancor di più qualcuno che sappia fare il suo mestiere di imprenditore».

La Perla: una storia di eccellenza e di lotta tutta al femminile

Le lavoratrici hanno ricevuto i loro stipendi di agosto?

«Sì, gli unici soldi che arrivano sono per pagare gli stipendi».

All’inizio della nostra storia siamo partite da 1180 unità di personale. Oggi a quanto siamo arrivati?

«Oggi abbiamo 324 lavoratrici, di cui 34 nel retail. Nel febbraio del 2018, all’arrivo del fondo Tennor, le lavoratrici nel retail erano 145. Nella rete di produzione erano 360, oggi 220. C’è una perdita di professionalità spaventosa.

Tra l’altro, si tratta di professionalità tutte al femminile. in Italia si parla tanto di lavoro per le donne e di come queste, assieme ai giovani, siano la categoria maggiormente esposte al lavoro precario.

Qua a La Perla avevamo invece tantissime lavoratrici altamente professionalizzate non precarie che ora si ritrovano in questa situazione dovuta alla vergogna speculazione finanziaria internazionale. Il nostro Paese si deve dotare degli strumenti legislativi per arginare queste speculazioni, perché altrimenti tutta la nostra unicità andrà al macero».

Questa storia è indubbiamente una storia femminile.

«Assolutamente. Le lavoratrici de La Perla sono donne fantastiche, pienamente consapevoli della loro professionalità e dell’importanza della lotta sindacale. La battaglia che stiamo conducendo è diversa da quella muscolare che solitamente si immagina. È una lotta caparbia e artistica, perché queste donne conoscono e producono l’arte, sanno trasformare le cose. Mi stanno insegnando tantissimo.

Per questo c’è tanta rabbia: perché questo patrimonio unico rischia di non essere trasmesso alle nuove generazioni? Perché in un mondo del lavoro così precario dobbiamo perdere un qualcosa di straordinario che già abbiamo? Perché la politica non urla insieme a noi e si oppone a queste dinamiche speculative che lasciano attorno solo il deserto?

Il mondo produttivo sta andando sempre più in questa direzione e questo è un dramma. Se consentiamo agli attori finanziari di depauperare il nostro Paese, prendendosi la nostra capacità di riscatto con il lavoro, cosa ci rimarrà?

La Perla non è solo una azienda, ma è anche la storia del territorio bolognese. È la storia di un’identità. Dai cancelli del sito produttivo stiamo cercando di alzare una voce che deve arrivare a tutta Italia, perché quanto accaduto qui accadrà anche altrove. Per questo chiediamo che tutti si uniscano a noi, perché questa storia non è solo quella di una crisi aziendale ma riguarda tutti noi».

LEGGI ANCHE: Landini rilancia la centralità del sindacato: nella “via maestra” della Cgil c’è la nuova guida alla sinistra? | Video

e Manovra, Di Silverio (Anaao Assomed) e i medici sul piede di guerra: “Governo non risponde, scioperiamo”