Michael Alessandrini dovrà restare in carcere a Villa Fastiggi, a Pesaro. Lo ha stabilito il giudice per le indagini preliminari Antonella Marrone, chiamato a decidere sulla possibilità di trasferirlo in una Rems, una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. A chiederlo era stato l’avvocato Salvatore Asole, che difende il 30enne accusato dell’omicidio dell’amico Pierpaolo Panzieri, consumatosi lo scorso febbraio.
Omicidio Pierpaolo Panzieri, l’amico-killer Michael Alessandrini resta in carcere
Nell’istanza, presentata il 3 ottobre scorso, la difesa di Alessandrini giudicava “incompatibile” la restrizione in carcere del 30enne con le sue esigenze di salute mentale, chiedendo che fosse trasferito in una Rems oppure messo agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico. Il gip Alessandra Marrone ha deciso, invece, che dovrà restare in carcere, rigettando la richiesta, che, tra l’altro, “non risultava munita di alcun riscontro medico-scientifico, anche di parte”.
In pratica non ci sarebbero prove del fatto che Alessandrini, dal punto di vista medico, debba essere scarcerato. Gli esperti che lo hanno visitato in carcere lo hanno dichiarato “seminfermo di mente”, ma capace di stare in giudizio. Significa che potrà affrontare il processo che lo vedrà imputato per l’omicidio dell’amico Pierpaolo Panzieri, consumatosi a Pesaro la sera del 20 febbraio scorso.
Saranno almeno tre le aggravanti contestategli dalla Procura: la crudeltà, i futili motivi e la minorata difesa. Se, come si presume, la premeditazione sarà esclusa, l’avvocato Asole chiederà l’accesso al rito abbreviato, consentendo ad Alessandrini di ottenere uno sconto di pena.
La ricostruzione del delitto
Il 30enne, reo confesso, avrebbe ucciso Panzieri colpendolo con 13 coltellate alla gola e alla schiena per “gelosia”. Dopo essersi dato alla fuga era stato arrestato in Romania e alle autorità locali aveva detto di essersi arrabbiato con l’amico – che quella sera l’aveva invitato a cena – dopo aver scoperto che aveva avuto dei contatti con quella che lui riteneva essere la sua fidanzata, Julia (che aveva invece smentito la relazione).
In un primo momento aveva rifiutato l’estradizione, sostenendo che, se fosse tornato nel suo Paese d’origine, i servizi segreti italiani l’avrebbero ucciso. Trasferito a Pesaro, aveva poi riferito di aver compiuto il delitto in nome del Dio ebraico, “Jhavè”. Se non fosse stato fermato forse si sarebbe scagliato contro altre due persone. Le considerava moralmente colpevoli di qualcosa e riteneva di doverle “punire”, in segno di rispetto per la voce divina che sosteneva di sentire.
Stando a quanto ricostruito finora, sarebbe affetto da gravi problemi psichici. Gli stessi che nel tempo avevano portato molte persone ad allontanarlo. Panzieri, che l’aveva conosciuto ai tempi dell’asilo, aveva deciso di restargli vicino nonostante le sue stranezze. Non poteva sapere che ne sarebbe rimasto vittima.
La lettera della madre di Pierpaolo Panzieri
L’11 ottobre scorso, in occasione del compleanno di Pierpaolo, la madre Laura aveva scritto e pubblicato una lettera per ricordare il 27enne.
È finito tutto in un giorno d’inverno. Un giorno dove ti hanno tolto dal mondo terreno, un giorno dove la tua mamma e tuo fratello ti hanno trovato sul pavimento, pieno di sangue, nel bagno di casa tua. Un giorno dove una mano assassina ti ha inflitto un’infinità di crudeli coltellate a tradimento. 27 anni, finiti sul pavimento di un bagno, con l’inganno, finiti con l’ultima cosa che hai potuto vedere: quell’amico a cui avevi preparato la cena che ti aggrediva con inaudita ferocia e senza motivo. E non c’è stata neppure una scusa per quello che ti è stato fatto,
c’era scritto. La speranza dei familiari è che il ragazzo ottenga la giustizia che merita. Fin dall’inizio puntano sulla premeditazione del delitto, sostenendo che Alessandrini si fosse recato nella sua abitazione già con l’intento di fargli del male. Davanti a un delitto così, dicono, non c’è giustificazione che regga. Per un delitto così chi ha ucciso non avrebbe diritto a sconti.
Del resto, nonostante i suoi problemi, il 30enne finito in carcere ha mostrato lucidità e consapevolezza quando, dopo il delitto, si è recato a casa sua, si è cambiato i vestiti sporchi di sangue e – dopo aver sottratto dei soldi alla famiglia – si è messo a bordo di un’auto ed è scappato. Quando era stato trovato aveva ancora con sé il telefono cellulare della vittima e il coltello usato per ucciderla.