Le donne continuano a morire, fuori e dentro le mura domestiche, molto spesso proprio per mano degli uomini che hanno accanto. Gli stessi uomini che magari professano amore e che poi invece si tramutano in bestie. Sono quasi centro le vittime di femminicidio registrate fino ad oggi dall’inizio del 2023: i dati parlano chiaro e la situazione non fa che peggiorare. Secondo le statistiche, più della metà delle donne morte quest’anno sono state uccise dai propri fidanzati, mariti, compagni e soprattutto dagli ex.

Il movente principale resta sempre lo stesso: la gelosia, il possesso che si tramuta in desiderio di controllo e incapacità di accettare la separazione. E’ arrivato il momento di dire basta alla violenza di genere, va fermata e non bisogna più assecondare o giustificare i comportamenti messi in atto dagli aggressori. La colpa di queste azioni deve essere imputata a chi le mette in atto e non di certo alle donne, che sono le vittime di un sistema ancora troppo ancorato a principi del patriarcato. C’è bisogno di un repentino cambiamento di rotta, altrimenti la storia continuerà a ripetersi.

Per approfondire la questione della violenza di genere e per capire meglio il lavoro che svolgono le operatrici e gli operatori delle case rifugio Tag24 ha intervistato Francesca Ranaldi, la responsabile e coordinatrice del centro antiviolenza “La Nara”- Cooperativa Alice di Prato. E’necessario e urgente cambiare il retaggio culturale che causa la morte e la violenza contro le donne. I centri antiviolenza, con tutta una serie di collaboratori e specialisti presenti sul territorio prodigano nell’aiutare le donne vittime di violenza, insieme ai loro bambini. E’ fondamentale prevenire il fenomeno muovendosi anche all’interno delle scuole, per mettere la parola fine a queste barbarie e per consentire a tutte le donne di vivere all’interno della società nelle stesse condizioni di parità e sicurezza che hanno gli uomini.

Violenza di genere: uno sguardo alla situazione in Italia. Il lavoro e l’impegno dei centri antiviolenza

La violenza sulle donne è una tematica molto importante all’interno del tessuto di una società: in Italia i casi di femminicidio e gli episodi di violenza non accennano a diminuire, anzi aumentano. Tutti i giorni – e non è un eufemismo – si legge sui giornali, si sente in radio o in tv il caso di una donna maltrattata, vittima di vessazioni, insulti, minacce, abusi fisici o psicologici, giovane o anziana che sia non importa. I dati sulla situazione sono allarmanti: solo dall’inizio del 2023 i casi di femminicidio registrati in Italia sono 93.

Tag24 ha intervistato Francesca Ranaldi, la responsabile del Centro Antiviolenza “La Nara”- Cooperativa Alice di Prato, in Toscana per affrontare la questione della violenza di genere, per capire meglio cosa succede all’interno delle Case rifugio per le donne, l’aiuto che viene loro offerto, i percorsi guida per la fuoriuscita dalla violenza. Abbiamo constatato che spesso sono le donne che aiutano le altre donne.

Qual è la situazione attuale in Italia e in Toscana rispetto agli episodi di violenza contro le donne e ai femminicidi?

E’ difficile tenere il conto dei femminicidi perché non c’è un centro che se ne occupa in modo assoluto e completo. Possiamo dire che i femminicidi in Italia ad oggi – da inizio anno – sono 93, per quanto riguarda il panorama nazionale. La media è di una donna uccisa ogni tre giorni. Questa tipologia di reato nel nostro Paese purtroppo non diminuisce, come invece accade per tanti altri. E’ un messaggio importante: si tratta di un reato a sé. Negli anni Novanta – parlo di dati Istat – per ogni donna uccisa c’erano altri 5 uomini: questa proporzione nel tempo, ad esempio nel 2021 è diventata dell’ 1,6. Ciò significa che le donne continuano a morire, invece gli altri reati diminuiscono.

In che modo vengono aiutate le donne vittime di abusi al centro antiviolenza di Prato?

La violenza contro una donna si può manifestare in vari livelli: c’è quella psicologica, quella fisica, fino ad arrivare al rischio di morte. L’obiettivo primario e fondamentale di un centro antiviolenza è la messa in sicurezza della vittima. Mettere in sicurezza vuol dire allontanare i pericoli a cui è soggetta la persona, inserire in altri territori e in altre case rifugio le donne che rischiano di essere trovate. Grazie al coordinamento regionale possiamo collocare le donne velocemente in altre città. Le altre case di protezione che noi abbiamo di basso e medio rischio si chiamano ‘case di seconda accoglienza’.

Fare sicurezza vuol dire anche avere una buona capacità di leggere il pericolo, anche la recidiva. Questo significa fare prevenzione. Tra le attività che svogliamo quotidianamente rientrano il supporto psicologico per l’elaborazione della violenza, la ricostruzione della propria storia. Perché subire violenza in prima battuta vuol dire perdere dei pezzetti di sé, perdere la stima verso se stessi, perdere l’autonomia. Lo sappiamo, questo avviene quando si perde il controllo. Le donne che arrivano qui imparano a riconoscere queste dinamiche a volte proprio mentre ci raccontano la loro storia per la prima volta.

Qui si fa un cammino per la riappropriazione di sé. Uscire dalla violenza con queste modalità, con questo tipo di accompagnamento fa la differenza, cambia la storia, perché le donne così si rimettono al centro della propria vita. C’è tutta una rete di servizi a livello territoriale che i centri antiviolenza hanno creato dal niente. Se ad esempio una donna deve sporgere una querela, un conto è andarsi a mettere in fila al commissariato con le persone che sono lì per tutte le altre pratiche, un conto è invece avere una rete di accompagnamento specifica dove io so che vengo portata a fare una querela in un luogo dove so che mi sapranno ascoltare. Ci sono tutto un insieme di professionisti, tra assistenti sociali, psicologhe e avvocati specializzati che lavorano nel territorio accanto ai centri antiviolenza. Un altro elemento fondamentale per la prevenzione è il lavoro nelle scuole, con i bambini e con i ragazzi.

Le iniziative del centro “La Nara” per la Giornata del 25 novembre e l’importanza della prevenzione sulla violenza di genere tra i giovani

Nella chiacchierata con la Ranaldi, abbiamo chiesto alla responsabile del centro antiviolenza anche quale fosse la sua opinione in merito ai giovani, a come si approcciano a questo tipo di situazioni, se c’è speranza nelle generazioni future. Per concludere, con l’avvicinarsi del 25 novembre, la data simbolo che celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, scopriamo insieme quali sono i progetti del Centro Antiviolenza “La Nara”.

Ci sono dei progetti o delle iniziative che avete già pronte per la Giornata del 25 novembre?

Sì, il 25 novembre posizioneremo delle “pietre del ricordo” per le vittime di femminicidio di Prato, verranno poste nella piazza dove si trova l’Università, accanto alla stazione: un luogo di passaggio dove tutti potranno vederle. Il nostro centro invece sta organizzando un evento molto bello nel teatro Metastasio della nostra città, sulla narrazione della violenza di genere, su quanto sia importante e necessario che venga raccontata per bene. E lo faremo perché se continuiamo a dire ‘Ah ma lei lo voleva lasciare’, ‘Lui purtroppo ha avuto uno scatto d’ira’, non ne usciremo mai; perché così continueremo a giustificare e a condividere la responsabilità. Sembra che le donne abbiano la responsabilità anche quando muoiono, ed è terribile. Finché noi continueremo ad ascoltare la violenza così, la storia non cambierà mai. Se non cambiamo rotta, continueremo ad offrire agli uomini una giustificazione culturale nel compiere queste azioni.

A proposito di giovani, prima parlavamo dell’importanza della prevenzione e dell’educazione, come vede le future generazioni? C’è speranza che qualcosa cambi?

La prevenzione è fondamentale, lo è anche l’educazione al rispetto, al consenso, alla parità e alla sessualità. Io penso che i cambiamenti culturali richiedano tanto tanto tempo. Consideriamo che fino al 1981 si poteva uccidere per legge la propria compagna, moglie, sorella e figlia secondo il delitto d’onore: parliamo praticamente di ieri. Pensiamo all’importanza di considerare il consenso come fondamento della relazione tra un uomo e una donna: fino al 1996 lo stupro era considerato un’offesa alla morale. Tutte queste cose non sono dietro alle nostre spalle, sono vicinissime per cui dobbiamo uscire da quella realtà, che era addirittura sancita dalla legge. C’è tanta strada.

Vedo delle giovani donne molto impegnate, con una grande voglia di fare un femminismo nuovo che si interseziona anche con altre tematiche. C’è un femminismo più innovativo oggi, ma ogni cosa ha la sue epoca: i primi femminismi servivano per altro. Vedo giovani donne con un impegno bello che mi piace molto. Nei giovani uomini posso dire che non percepisco movimento – o molto poco – e finché non saranno loro a cambiare con noi non andremo molto lontano. Mi riferisco al fatto che spesso ci dicono ‘Ah ma è un vostro diritto, è un vostro problema’. Non è un nostro problema, la violenza di genere è un problema degli uomini perché noi ci ritroviamo ad esserne le vittime.

Sul maschile ancora non mi sento di esprimermi. Le giovani donne di oggi hanno voglia di cambiamento. Bisogna lavorare nelle scuole perché io penso che questa sia la chiave di volta. E’ un lavoro che noi – perché purtroppo le risorse scarseggiano – facciamo in un modo non continuativo e che invece dovrebbe essere un impegno costante, lo dice anche la Convenzione di Istanbul, che è stata ratificata in Italia, quindi è legge. A scuola invece non si parla di affettività, di rispetto; a meno che ciò non avvenga con i laboratori che noi portiamo, ma ripeto purtroppo non offrono continuità. L’anno scorso abbiamo svolto una serie di attività molto belle con le insegnanti della scuola d’infanzia perché bisogna cominciare sempre prima, perché troviamo gli stereotipi di genere già alle elementari, c’è già l’idea che il maschio fa così invece la femmina in un altro modo.

Nelle storie di violenza c’è anche il lieto fine: un messaggio di speranza per le donne

Le va di raccontarci l’esperienza di una donna vittima di violenza che è riuscita a farcela, una storia che magari le è rimasta nel cuore? Un esempio per dimostrare che grazie agli aiuti giusti e con un percorso psicologico o di reinserimento nel mondo del lavoro si può tornare ad essere indipendenti e ad avere la capacità di autodeterminarsi.

Una storia che mi torna sempre alla mente è quella sulla prima accoglienza alla casa rifugio. C’era questa giovane donna che è arrivata da noi con una bambina molto piccola, direttamente dall’ospedale perché era stata ricoverata per percosse. Lei quando è arrivata qui non aveva niente, se non sua figlia, che all’epoca aveva meno di tre anni.

Noi abbiamo aperto la nostra casa rifugio con lei perché avevamo al tempo una struttura d’accoglienza per donne e bambini con l’idea di riservare una parte di essa alla casa rifugio. Dopo di lei abbiamo aperto una casa rifugio autonoma. Questa donna era giovane, aveva una storia di maltrattamenti gravi alle spalle, anche a livello economico: perché a lei era stata intestata la ditta del compagno, che ovviamente non aveva effettuato i pagamenti dovuti.

Lei è finita così in un mare di debiti, non solo ha dovuto ricominciare da zero, anzi da molto meno di zero. Ora è una donna adulta, cresciuta, sua figlia è diventata grande e ha avuto una bambina. Lei ha ripagato tutto, ora ha una casa, una macchina e si è anche risposata. Ha studiato, ha trovato un lavoro che le piace: ha fatto un cammino pazzesco e mi viene sempre in mente perché lei è partita dovendo risalire una montagna pazzesca. E’ stata di una forza straordinaria, ci è rimasta nel cuore dal 1997.