Chi è il colpevole del delitto di Via Poma? Una domanda che non ha ancora trovato risposta e che forse non la troverà mai, nonostante di recente l’inchiesta sull’omicidio di Simonetta Cesaroni sia stata riaperta.

Chi è il colpevole del delitto di Via Poma?

Il 7 agosto 1990, Simonetta Cesaroni, una giovane ventenne impiegata come segretaria presso l’Associazione Alberghi della Gioventù di via Poma a Roma, viene brutalmente uccisa. Il corpo viene ritrovato alle 22:30 dalla sua preoccupata sorella Paola, che avvisa immediatamente il fidanzato e il datore di lavoro della giovane e si reca con loro negli uffici nel quartiere Prati.

L’autopsia rivela che Simonetta è morta a causa di un trauma alla testa, ma l’assassino ha inflitto ulteriori 29 colpi con un tagliacarte, alcuni dei quali hanno raggiunto il cuore, la giugulare e la carotide. Il corpo della vittima viene trovato con le gambe divaricate, senza mutande e con il reggiseno sollevato. Secondo gli investigatori della III Corte d’Assise di Roma, sembra che la giovane abbia aperto la porta a qualcuno che conosceva bene.

Pietrino Vanacore

Dopo la scoperta del delitto, le indagini iniziano immediatamente, e la polizia si focalizza su Pietrino Vanacore, il portiere del palazzo in cui è avvenuto l’omicidio. Le ragioni dietro questo sospetto iniziale sono varie: tra le 17:30 e le 18:30, orario dell’uccisione di Simonetta, Vanacore non era in compagnia degli altri portieri del palazzo. Altri fattori che pesano contro di lui includono uno scontrino datato 17:25 che testimoniava l’acquisto di una smerigliatrice angolare, successivamente sequestrata, e la presenza di macchie di sangue sui suoi pantaloni.

Inoltre, nel periodo in cui Simonetta è stata uccisa, non sono state registrate entrate nel palazzo, il che ha ulteriormente sollevato sospetti nei confronti di Vanacore.

Vanacore trascorre 26 giorni in prigione, ma viene successivamente rilasciato a causa della mancanza di prove concrete. Si scopre che il sangue sul suo pantalone appartiene a lui stesso e che soffre di emorroidi. Inoltre, i test del DNA condotti sul sangue trovato sulla porta non confermano il suo coinvolgimento nell’omicidio, portando infine al ritiro delle accuse nei suoi confronti.

Il nome di Vanacore torna a emergere come sospettato durante le indagini sul fidanzato di Simonetta, Raniero Busco. Tuttavia, pochi giorni prima di presentarsi in tribunale come testimone, Vanacore si suicida, lasciando un biglietto con scritto “Vent’anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio.

Federico Valle

Un altro sospettato è Federico Valle, il cui parente era un architetto che risiedeva nell’edificio. E’ entrato nel radar delle autorità giudiziarie l’11 marzo 1992. Questo accade quando Roland Voller, un commerciante austriaco legato alla madre del giovane, informa gli inquirenti che il ventunenne era presente in via Poma al momento del crimine e aveva un braccio ferito al ritorno a casa. Tuttavia, le successive indagini hanno rivelato che il sangue sul braccio di Valle non coincide con quello trovato su una delle porte dell’ufficio dove Simonetta è stata assassinata. Per questo motivo viene scagionato.

Raniero Busco

L’inchiesta sulla morte di Simonetta Cesaroni sembra giungere a un punto cruciale nel 2007, quando le analisi effettuate dal Reparto Investigazioni Scientifiche (Ris) di Parma rivelano che il corpetto della vittima presenta tracce di DNA appartenenti a Raniero Busco. Questa prova, unitamente alle evidenze di un morso riscontrato sul seno sinistro della vittima, compatibile con l’arcata dentale dell’ex fidanzato, porta l’uomo – nel frattempo divenuto marito e padre di due figlie – a essere condannato in primo grado a una pena di 24 anni nel 2011, ben oltre 20 anni dopo la commissione del crimine.

Nel corso del secondo grado di giudizio, la difesa di Busco smonta i due principali elementi a suo carico. In particolare, una perizia rileva che i segni sul seno di Simonetta non corrispondono a quelli di un morso, specialmente in assenza di chiari segni di opposizione. Inoltre, essi affermano che tali lesioni potrebbero essere spiegate in diversi modi, rendendo la loro natura incerta. Inoltre, ulteriori analisi rivelano che il DNA trovato sul corpetto della vittima è compatibile non solo con quello di Busco, ma anche con altri due profili genetici maschili che non sono mai stati identificati.

Di conseguenza, nell’ambito del processo d’appello, Busco viene assolto. Tuttavia, questa decisione viene successivamente impugnata dalla Procura Generale di Roma, che porta il caso davanti alla Corte di Cassazione. Nel 2014, la Prima Sezione Penale della Cassazione pone fine al processo, confermando l‘assoluzione di Busco in via definitiva “per non aver commesso il fatto”.