Chi ha ucciso Simonetta Cesaroni? Una domanda che 33 anni dopo non ha ancora una risposta. Nel 2014, l’unico sospettato dell’omicidio, ovvero il suo fidanzato dell’epoca, Raniero Busco, è stato definitivamente scagionato.

Chi ha ucciso Simonetta Cesaroni?

Era l’estate del 1990, la prima settimana di agosto, e Roma si trovava in uno stato di quiete, con poche anime rimaste in città. Tra coloro che non avevano abbandonato la rovente metropoli, vi era Simonetta Cesaroni, una giovane di 20 anni del quartiere Don Bosco.

In quella calda estate, aveva deciso di lavorare come segretaria prima di partire per le vacanze, senza il suo fidanzato Raniero, con il quale aveva avuto una discussione qualche giorno prima. La sua destinazione era il civico 2 di via Poma, a breve distanza da piazza Mazzini, dove si trovavano gli uffici dell’A.I.A.G. (Associazione italiana alberghi della gioventù), in cui lavorava come contabile.

Il numero 2 di via Poma ospitava un imponente complesso residenziale di prestigio, progettato negli anni Trenta dall’architetto Cesare Valle, il quale, in seguito, divenne inquilino del grande edificio costituito da sei eleganti palazzine. Questo complesso residenziale rappresentava una sorta di alveare di lusso, con vari portieri, tra cui Pietro Vanacore, il quale aveva la responsabilità della scala B e risiedeva lì insieme alla moglie, Giuseppa De Luca.

Il palazzo era rinomato per la sua dignità e tranquillità, sebbene fosse segnato da un unico episodio inquietante: la tragica morte di Renata Moscatelli, avvenuta per soffocamento con un cuscino all’interno della sua abitazione, in circostanze misteriose e per mano ignota.

Questa storia oscura, di quelle di cui raramente si discute nei condomini, era del tutto sconosciuta a Simonetta, mentre, nel pomeriggio del 7 agosto, attraversava l’atrio del palazzo per recarsi al suo ufficio.

L’omicidio

Quel pomeriggio, Simonetta non rispetta gli orari stabiliti per il suo ritorno, non risponde alle chiamate all’ufficio e si sottrae a qualsiasi contatto con le amiche. In breve, esce dal radar della sua famiglia, con la quale era solita condividere ogni dettaglio. Questo causa grande preoccupazione, e sua sorella Paola, estremamente inquieta, si mette in contatto con Salvatore Volponi (datore di lavoro di Simonetta). Insieme, decidono di raggiungere l’appartamento al terzo piano di via Poma, che ospita sia l’ufficio della Reli Sas che dell’A.I.A.G.

All’incirca verso le 20, Volponi apre la porta con le sue chiavi. Una luce è accesa all’interno, ma nell’appartamento regna un silenzio opprimente, spezzato solamente dal ronzio delle lampadine. Avanza lungo il corridoio e si affaccia in una delle stanze. Tuttavia, quando Volponi fa marcia indietro, spinge Paola a fare lo stesso. Sul pavimento, con il volto rivolto verso la porta e immersa in una pozza di sangue, giace Simonetta. È parzialmente svestita, con il reggiseno sollevato a scoprire il seno e senza biancheria intima, ma i calzini sono ancora ai suoi piedi. Riposa in una posizione scomposta, con le gambe divaricate.

Il suo corpo è crivellato da decine e decine di ferite, inflitte sugli occhi, nella regione genitale e sul seno. Simonetta è stata uccisa con evidente ferocia, presentando ferite al volto, all’addome e al seno, dove è visibile anche un segno di morsicatura su uno dei capezzoli. È stato utilizzato un oggetto appuntito, presumibilmente un tagliacarte, ma quest’ultimo risulta scomparso. L’assassinio è avvenuto in un ufficio con la porta chiusa a chiave, mentre le chiavi di Simonetta sono misteriosamente scomparse.

L’autopsia

La dinamica dell’omicidio, nonostante l’assassino abbia dedicato notevole sforzo a ripulire la scena del crimine, emerge chiaramente dall’esame autoptico. Simonetta ha opposto resistenza, ma è stata poi sopraffatta da un colpo alla testa, forse un ceffone, che l’ha fatta cadere. L’assassino l’ha immobilizzata e si è sovrapposto a lei, inginocchiandosi probabilmente con l’intenzione di perpetrare una violenza sessuale, come indicato dai lividi sulle anche della vittima.

Mossa da un’irrefrenabile rabbia, il killer l’ha pugnalata ripetutamente con l’arma, poi, prima di lasciare la scena, ha chiuso i suoi occhi e ha posato il top che indossava sul suo petto. Emerge con chiarezza che l’individuo responsabile conosceva bene l’ambiente in cui agiva. Nonostante abbia fatto sforzi per eliminare le prove, come portare via le chiavi di Simonetta, ha lasciato alcune tracce di sangue, visibili sul telefono e sulla maniglia della porta.

La scientifica ha prelevato campioni da queste tracce per l’analisi del DNA, che ha prodotto un risultato sorprendente: due profili genetici distinti, uno appartenente all’assassino e l’altro a una persona coinvolta nella pulizia della scena del crimine, un cosiddetto “pulitore”.

Le indagini

Negli anni successivi all’omicidio, tre individui sono stati sospettati in relazione al caso Simonetta Cesaroni. Inizialmente, l’attenzione si è concentrata sul fidanzato di Simonetta al tempo dell’omicidio, Raniero Busco. Tuttavia, nel 2014, dopo vari processi e appelli, Busco è stato assolto in via definitiva.

Un altro sospettato è stato Pietro Vanacore, il portiere del palazzo dove si è verificato il delitto. Vanacore è stato arrestato solo tre giorni dopo l’omicidio, il 3 agosto 1990, con l’accusa di omicidio. Ha trascorso 30 giorni in carcere prima di essere rilasciato. L’opinione pubblica si scagliò contro di lui. Tuttavia, il 16 giugno 1993, Vanacore è stato assolto perché “il fatto non sussiste”, e questa assoluzione è stata confermata in via definitiva nel 1995 dopo un ricorso in Cassazione.

Il terzo sospettato è stato Federico Valle, nipote di un architetto che abitava nello stesso edificio. Valle è finito sotto inchiesta l’11 marzo 1992, quando un amico della madre di Valle ha riferito alle autorità che il giovane di 21 anni si trovava in via Poma all’ora del delitto e aveva riportato un braccio sanguinante. Tuttavia, i successivi accertamenti hanno dimostrato che il sangue presente su Valle non corrispondeva a quello trovato su una delle porte dell’ufficio in cui Simonetta è stata uccisa.

Nel 2007, l’inchiesta sembrava giungere a un punto di svolta quando il DNA rinvenuto sul corpetto della vittima è risultato appartenere a Raniero Busco. Questa prova, unitamente ai segni di un morso sul seno della vittima, che sembrava compatibile con l’arcata dentale di Busco, ha portato all’arresto dell’uomo e alla sua condanna in primo grado nel 2011. Tuttavia, nel secondo grado di giudizio, la difesa di Busco è riuscita a smontare questi principali indizi contro di lui, dimostrando che i segni sul seno di Simonetta non corrispondevano a un morso e che il DNA sul corpetto della ragazza era compatibile con quello di Busco, ma anche con altri due profili genetici di uomini mai identificati. Di conseguenza, Busco è stato assolto in appello.

Nel 2023, a pochi giorni dal 33º anniversario della morte di Simonetta, si è riaperto il caso. Un elemento chiave è una traccia di sangue, appartenente a un individuo sconosciuto con gruppo sanguigno A positivo, che era stata ritrovata sulla maniglia di una porta e che non era stata considerata in precedenza dagli investigatori. Inoltre, la commissione parlamentare Antimafia ha evidenziato alcuni punti dai quali ripartire nelle indagini, tra cui proprio la macchia di sangue di un soggetto finora ignoto.

Ci sono ancora molti interrogativi aperti sul caso Simonetta Cesaroni, e si stanno esaminando nuove prospettive investigative, tra cui alcune telefonate anonime ricevute dalla vittima prima del suo omicidio, quando lavorava come commessa in una profumeria.